mercoledì 17 febbraio 2010

10
Scia

Era tutto molto puerile. Perché mai Edward doveva andarsene se Jacob stava arrivando? Non era ora di smetterla con queste bambinate?
«Non è per antagonismo nei suoi confronti, Bella, è soltanto più semplice per entrambi», mi disse Edward sulla porta. «Non mi allontanerò. Sarai al sicuro».
«Non è questo che mi preoccupa».
Sorrise, poi una luce maliziosa gli guizzò negli occhi. Mi strinse forte e affondò il viso tra miei capelli. Sentivo il suo respiro freddo gonfiarli a uno a uno e mi venne la pelle d'oca sul collo.
«Tornerò presto», disse, poi scoppiò a ridere, come se avessi appena raccontato una barzelletta.
«Che c'è?».
Edward si limitò a sorridere e scomparve fra gli alberi, senza rispondere.
Iniziai a pulire la cucina, mugugnando. Prima ancora che riempissi il secchio, il campanello squillò. Era difficile abituarsi a quanto Jacob fosse veloce a piedi. Erano tutti più veloci di me...
«Entra pure, Jake!», gridai.
Ero concentrata sulla pila di piatti da immergere nell'acqua insaponata e mi ero dimenticata che Jacob ormai si muoveva come un fantasma. Quando sentii la sua voce alle mie spalle, all'improvviso, sussultai.
«È davvero il caso di lasciare la porta aperta in quel modo? Oh, scusa...».
Per la sorpresa mi ero rovesciata addosso l'acqua dei piatti.
«Quel che mi minaccia non si fermerebbe davanti a una porta chiusa», dissi mentre mi asciugavo la maglietta con uno straccio.
«Buona osservazione», annuì.
Mi voltai a guardarlo, con disapprovazione. «Ti riesce così difficile ve-stirti, Jacob?». Era di nuovo a petto nudo, indorsava soltanto un paio di vecchi jeans tagliati al ginocchio. Pensai che forse era talmente orgoglioso dei suoi nuovi muscoli da doverli esibire per forza. Dovevo ammettere che erano impressionanti, ma non avevo mai creduto che fosse così vanitoso. «So che non sei più sensibile al freddo, ma datti una calmata».
Si passò una mano fra i capelli bagnati che gli coprivano gli occhi.
«Così è più semplice», spiegò.
«Che cosa?».
Sorrise condiscendente. «È già abbastanza noioso dovermi portare dietro i pantaloni, figuriamoci un abbigliamento intero. Non sono mica un mulo da soma...».
«Che cosa intendi, Jacob?».
Mi guardava con aria superiore, come se mi sfuggisse qualcosa di ovvio. «I miei vestiti non sono ancora in grado di apparire e scomparire quando mi trasformo, così quando corro sono costretto a portarmeli dietro. Scusa se mi sono tenuto leggero».
Arrossii. «In effetti non ci avevo pensato», borbottai.
Rise e indicò una cordicella di pelle nera, sottile come un filo di lana, at-torcigliata tre volte sotto il suo polpaccio sinistro come una cavigliera. Non avevo notato neanche che era a piedi nudi. «Non è una questione di moda: fa schifo correre con i jeans in bocca».
Non sapevo cosa rispondere.
Lui sorrise. «Ti dà fastidio che sia mezzo nudo?».
«No».
Jacob rise di nuovo e gli voltai le spalle per concentrarmi sui piatti. Spe-rai che capisse che ero rossa d'imbarazzo per la mia stupidità e non per causa sua.
«Bene, suppongo che dovrei mettermi al lavoro». Sospirò. «Non voglio dargli neanche una scusa per dire che sono uno scansafatiche».
«Jacob, non spetta a te...».
Alzò una mano per interrompermi. «Mi sono offerto volontario. Allora, dov'è più forte l'odore dell'intruso?».
«In camera mia, credo».
Affilò lo sguardo. L'idea lo innervosiva, così come aveva innervosito Edward.
«Faccio in un minuto».
Strofinai metodica i piatti che avevo in mano. L'unico suono che udivo era quello della spugnetta contro la ceramica. Tesi le orecchie per cercare di udire qualcosa dal piano di sopra, uno scricchiolio del pavimento, lo scatto di una porta. Niente. Mi accorsi che lavavo e rilavavo sempre lo stesso piatto e provai a concentrarmi sui miei gesti.
«Buh!», disse Jacob, a qualche centimetro da me, e mi spaventò ancora.
«Uffa, Jake, smettila!».
«Scusa. Dammi qua». Jacob prese lo straccio e lo passò sulla mia nuova macchia. «Ci penso io. Tu lavi, io sciacquo e asciugo».
«Ottimo». Gli diedi il piatto.
«È stato abbastanza facile trovare l'odore. A proposito, la tua stanza puzza».
«Comprerò un profumatore d'ambienti».
Rise.
Per qualche minuto rimanemmo in un silenzio amichevole, io a lavare e lui ad asciugare.
«Posso chiederti una cosa?».
Gli passai un altro piatto. «Dipende da ciò che vuoi sapere».
«Non voglio fare il cretino né niente del genere... sono solo curioso», mi assicurò Jacob.
«Va bene. Dimmi».
Dopo una breve pausa, disse: «Com'è... essere la ragazza di un vampi-ro?».
Alzai gli occhi al cielo. «È il massimo».
«Sto parlando sul serio. Non ti preoccupi mai... non ti mette mai paura?».
«Mai».
In silenzio prese una scodella dalle mie mani. Gli sbirciai il viso: era im-bronciato, il labbro inferiore sporgeva.
«Nient'altro?», domandai.
Arricciò di nuovo il naso. «Be'... mi stavo chiedendo... tu... tu lo baci mai?».
Risi. «Sì».
Ebbe un fremito. «Ah».
«A ciascuno il suo destino», mormorai.
«Non hai paura delle zanne?».
Gli colpii il braccio, spruzzandolo con l'acqua dei piatti. «Piantala, Jacob! Sai benissimo che non ha le zanne!».
«Qualcosa di simile», bofonchiò.
Serrai i denti e pulii un coltello, con forza decisamente eccessiva.
«Posso chiederti un'altra cosa?», mi domandò delicatamente quando glielo passai. «Sono solo curioso, davvero».
«Va bene», sbottai.
Si girò e rigirò il coltello tra le mani, sotto il getto d'acqua. Parlò in un sussurro.
«Hai detto poche settimane... Quando... esattamente?», non riuscì a finire.
«Dopo il diploma», sussurrai anch'io, guardandolo con cautela. Si sareb-be di nuovo infuriato?
«Così presto», sospirò a occhi chiusi. Più che un'affermazione sembrò un lamento. Aveva i muscoli delle braccia tesi e le spalle rigide.
«Ahi!», gridò e al suo scatto sobbalzai.
Il pugno della mano destra si era stretto attorno alla lama del coltello; l'aprì e il coltello cadde nel lavandino. Sul palmo c'era un taglio lungo e profondo. Il sangue gli colava fra le dita e gocciolava sul pavimento.
«Merda! Che male!», si lamentò.
Mi girava la testa, avevo lo stomaco sottosopra. Mi aggrappai al ripiano con una mano e mi sforzai di stare in piedi per potermi occupare di lui.
«Oh no, Jacob! Oh, merda! Tieni, avvolgila con questo!», gli passai lo straccio dei piatti. Lui si allontanò scrollando le spalle.
«Non è niente Bella, non preoccuparti».
I contorni della stanza iniziarono a sembrarmi sfocati.
Respirai a fondo. «Come "non è niente"? Ti sei affettato la mano!».
Ignorò lo straccio che gli avevo passato. Mise la mano sotto il rubinetto e fece scorrere l'acqua per lavare la ferita. L'acqua diventò rossa. La testa prese a girarmi più forte.
«Bella», disse.
Evitai di guardare la ferita e mi concentrai sul suo viso. Era accigliato, ma calmo.
«Che c'è?».
«Sembri sul punto di svenire. Se non la smetti di morderti il labbro tra un po' sanguinerai anche tu... Tranquilla. Respira. Sto bene».
Inspirai con la bocca e liberai il labbro dalla morsa dei denti. «Ma non fare il coraggioso».
Alzò gli occhi al cielo.
«Andiamo. Ti porto al pronto soccorso». Ero più che sicura di poter gui-dare senza problemi. Perlomeno, la stanza aveva ripreso i suoi contorni.
«Non è necessario». Jake chiuse l'acqua e mi prese lo straccio dalle mani. Se lo avvolse morbidamente attorno al palmo.
«Aspetta», protestai. «Fammi dare un'occhiata». Mi aggrappai più salda al ripiano, per tenermi in piedi nel caso in cui la vista della ferita m'inton-tisse di nuovo.
«Hai per caso una laurea segreta in medicina?».
«Dammi solo la possibilità di decidere se è il caso di arrabbiarmi con te pur di portarti all'ospedale!».
Fece una finta espressione di terrore. «No, arrabbiarti no, ti prego!».
«Invece sì, se non mi fai vedere la mano».
Mi rispose esasperato: «Va bene».
Sciolse la benda improvvisata e, mentre allungavo il braccio per pren-derla, posò la mano sulla mia.
Mi bastarono pochi secondi. Gli girai la mano più volte. Ero sicura che si fosse tagliato. La girai di nuovo; tutto ciò che rimaneva della ferita era una brutta linea rosa spezzata.
«Ma stavi sanguinando... tantissimo...».
Ritirò la mano, con gli occhi fissi e cupi su di me.
«Guarisco in fretta».
«Vedo», dissi senza voce.
Avevo visto chiaramente il lungo sfregio e il sangue scorrere sul lavello. L'odore di ruggine e sale mi aveva quasi fatta svenire. Fossi stata io, mi ci sarebbero voluti i punti. Ci sarebbero voluti giorni per rimarginare la ferita, e settimane perché diventasse quella cicatrice rosa leggera e brillante che ora segnava la sua pelle.
Fece un mezzo sorriso e con il pugno si diede un colpo sulla guancia. «Licantropo, ricordi?».
I suoi occhi mi fissarono per un momento interminabile.
«Giusto», dissi infine.
Rise della mia espressione. «Te ne avevo parlato. Ricordi la cicatrice di Paul?».
Scossi la testa, decisa. «È diverso se ti capita di assistere a tutta la se-quenza in diretta».
Mi chinai per prendere l'ammoniaca dal mobile sotto il lavello. Ne versai un po' su uno straccio e iniziai a lavare il pavimento. L'odore acre fece spa-rire anche gli ultimi capogiri.
«Lascia fare a me», disse Jacob.
«Ci penso io. Tu butta l'altro straccio in lavatrice, ti va?».
Quando fui certa che il pavimento sapesse solo di ammoniaca, mi alzai e sciacquai anche il lavello. Poi andai alla lavatrice dietro la dispensa e versai una dose anche lì prima di farla partire. Jacob mi guardò con aria di di-sapprovazione.
«Ti è venuta qualche mania ossessiva?», mi chiese quando ebbi finito.
Mmm. Forse sì. Ma almeno questa volta avevo una scusa buona.
«In questa casa siamo abbastanza sensibili al sangue. Mi capisci, no?».
«Ah». Arricciò di nuovo il naso.
«Perché non semplificargli le cose? Quello che fa è già abbastanza duro».
«Certo, certo. Perché no?».
Tolsi il tappo e lasciai colare l'acqua sporca dal lavello.
«Posso chiederti una cosa, Bella?».
Sospirai.
«Com'è... essere la migliore amica di un licantropo?».
La domanda mi prese in contropiede e scoppiai a ridere.
«Non ti mette mai paura?», insistette.
«No. Quando il licantropo si comporta bene», puntualizzai, «è il massi-mo».
Sorrise e i denti bianchi brillarono contro la pelle ramata. «Grazie, Bella», disse, poi mi prese la mano e mi avvolse in uno dei suoi abbracci stritolanti.
Prima che potessi reagire, lasciò cadere le braccia e si allontanò.
«Bleah», esclamò. «I tuoi capelli puzzano più della stanza».
«Scusa», mugugnai. D'un tratto capii perché Edward si era messo a ridere dopo aver respirato il mio odore.
«Uno dei rischi del fare amicizia con i vampiri», disse Jacob scrollando le spalle. «Ti fa puzzare. Un rischio da poco, in confronto».
Lo fissai. «Sei solo tu che senti la puzza, Jake».
Sorrise. «A presto, Bells».
«Te ne vai?».
«È qui fuori, aspetta soltanto che me ne vada. Lo sento».
«Ah».
«Esco dal retro», disse, poi si fermò. «Aspetta un attimo... ehi, ti an-drebbe di venire a La Push stasera? Facciamo una festa attorno al fuoco. Ci sarà Emily, potrai conoscere Kim... e anche Quil vorrebbe vederti. È molto seccato che tu abbia saputo la verità prima di lui».
Sorrisi all'idea. Immaginai il fastidio di Quil. L'amichetta umana di Jacob che va in giro con i licantropi mentre lui brancola nel buio... Poi sospirai. «Non lo so, Jake. Vedi, è un momento un po' particolare...».
«Andiamo, credi che qualcuno potrebbe mai battere noi... sei tutti insie-me?».
Aveva balbettato la fine della frase, dopo una strana pausa. Mi chiesi se avesse problemi a pronunciare la parola "licantropo", quanto li avevo io con la parola "vampiro".
I suoi grandi occhi neri mi pregavano, sfacciati.
«Chiederò», dissi dubbiosa.
Fece un rumore con la gola. «Ora è anche il tuo sorvegliante? Sai, l'altro giorno ho letto un articolo sul controllo degli adolescenti, sulle relazioni clandestine e...».
«Okay!», tagliai corto spingendogli via il braccio. «È ora che i licantropi se ne vadano a casa!».
Sorrise. «Ciao, Bells. Mi raccomando, ricordati di chiedere il permesso».
Sparì dietro la porta prima che trovassi qualcosa da lanciargli contro. Grugnii scomposta, nella stanza vuota.
Un secondo dopo, Edward entrò lentamente in cucina; le gocce di pioggia sui suoi capelli brillavano come diamanti incastonati nel bronzo. Lo sguardo era molto attento.
«Avete litigato?», chiese.
«Edward!», cinguettai, buttandomi su di lui.
«Salve». Rise e mi strinse tra le braccia. «Stai cercando di distrarmi? Funziona».
«No, non abbiamo litigato. Non troppo. Perché?».
«Mi chiedevo perché lo avessi pugnalato. Non che abbia niente in con-trario». Con un cenno indicò il coltello sul bancone.
«Oddio! Pensavo di aver messo tutto a posto».
Mi allontanai e corsi a immergere il coltello nel lavandino prima di pas-sarlo nell'ammoniaca.
«Non l'ho pugnalato», spiegai mentre lo pulivo. «Si è dimenticato di a-vere un coltello in mano».
Edward sogghignò. «Avevo immaginato qualcosa di più divertente».
«Sii carino».
Prese un voluminoso pacco dalla tasca della giacca e lo poggiò sul ban-cone. «Ti ho preso la posta».
«Novità positive?».
«Secondo me sì».
Lo guardai torva, insospettita da quel tono di voce. Mi avvicinai per in-dagare.
Era un busta rettangolare piegata in due. La stirai per aprirla, sorpresa dal peso di quella carta costosa, e lessi l'indirizzo del mittente.
«Dartmouth? È uno scherzo?».
«Scommetto che è una lettera d'ammissione. Del tutto uguale alla mia».
«Santo cielo, Edward. Che hai combinato?».
«Ho soltanto mandato la tua candidatura, nient'altro».
«Magari non sarò degna di Dartmouth, ma non sono così stupida da cre-dere a una notizia del genere».
«Pare che a Dartmouth ti considerino degna».
Contai piano fino a dieci. «Molto generoso da parte loro», dissi infine. «Comunque sia, ammessa o no, c'è il piccolo problema della retta. Non me la posso permettere, e non ti concederò di sprecare il prezzo di una mac-china sportiva soltanto per poter fingere di andare a Dartmouth l'anno prossimo».
«Non mi serve un'altra macchina sportiva. E tu non fingerai niente», mormorò. «Un anno di college non ti ucciderà. Potrebbe addirittura piacer-ti. Pensaci almeno, Bella. Pensa quanto sarebbero contenti Charlie e Re-neé...».
La sua voce di velluto aveva disegnato il quadretto nella mia mente prima che potessi impedirglielo. Ovviamente Charlie sarebbe esploso d'orgoglio e nessuno a Forks sarebbe sfuggito al suo entusiasmo. Reneé sarebbe impazzita di gioia per il mio trionfo... anche se avrebbe giurato di non es-serne affatto sorpresa.
Provai a scrollarmi di dosso l'immagine. «Edward. Già rischio di non sopravvivere al diploma, figuriamoci quest'estate o il prossimo autunno».
Mi abbracciò ancora. «Nessuno ti farà del male. Hai tutto il tempo del mondo».
Sospirai. «Domani spedirò in Alaska il saldo del mio conto corrente. Non occorrono altri alibi. Vista la distanza, Charlie non si aspetterà nessuna visita prima di Natale, così avrò il tempo di pensare a qualche scusa. Sai», scherzai noncurante, «tutti questi segreti e inganni fanno male».
Il volto di Edward s'irrigidì. «Diventa più facile con il tempo. Dopo qualche decennio, tutti quelli che hai conosciuto muoiono. Problema risol-to».
Rabbrividii.
«Scusa, brutta battuta».
Fissai la grande busta bianca, ma senza guardarla. «Purtroppo vera».
«Se riesco a risolvere questa storia, di qualunque cosa si tratti, prenderai in considerazione di aspettare?».
«Negativo».
«Sempre testarda, eh?».
«Sì».
La lavatrice batté un colpo e si fermò balbettante.
«Stupida ferraglia», bofonchiai divincolandomi. Spostai lo straccio soli-tario che l'aveva inceppata e la feci ripartire.
«Ora che mi ricordo», dissi, «potresti chiedere ad Alice cosa ha fatto della mia roba quando mi ha pulito la stanza? Non la trovo più da nessuna parte».
Mi guardò con espressione confusa. «Alice ha pulito la tua stanza?».
«Sì, penso di sì. Quando è venuta a prelevare il pigiama, il cuscino e la roba per rapirmi». Gli lanciai un'occhiata torva. «Ha spostato tutto quello che ha trovato in disordine, le magliette, le calze, e non so dove le ha mes-se».
Edward mi fissò confuso per un attimo, poi all'improvviso s'irrigidì.
«Quando ti sei accorta che mancavano?».
«Quando sono tornata dal finto pigiama party. Perché?».
«Temo che Alice non abbia preso niente. Né i vestiti né il cuscino. Le cose che mancano... le avevi indossate... toccate... ci avevi dormito?».
«Sì. Che c'è, Edward?».
La sua espressione era tesa. «Oggetti con il tuo odore».
«Ah!».
Ci guardammo negli occhi per un momento interminabile.
«Il mio visitatore», balbettai.
«Stava cercando tracce... indizi. Forse per dimostrare che ti aveva trova-to?».
«Perché?», sussurrai.
«Non lo so. Ma ti giuro che lo scoprirò, Bella. Te lo giuro».
«So che ce la farai», dissi poggiando la testa al suo petto. Sentii il suo cellulare vibrare. Lo estrasse dalla tasca e diede un'occhiata al numero. «Proprio la persona con cui avevo bisogno di parlare», mormorò, poi ri-spose. «Carlisle, io...». S'interruppe subito e restò in ascolto, il viso teso per la concentrazione.
«Controllerò. Senti...».
Gli spiegò degli oggetti scomparsi ma, per quanto capivo, non sembrava che Carlisle potesse darci suggerimenti utili.
«Forse posso andare...», disse Edward, interrompendosi non appena in-crociò i miei occhi. «Forse no. Non far andare Emmett da solo, sai come diventa. Almeno chiedi ad Alice di tenere tutto sotto controllo. Ne parliamo dopo».
Spense il telefono. «Dov'è il giornale?», mi chiese.
«Mmm, non lo so. Perché?».
«Devo vedere una cosa. Charlie non l'avrà già buttato?».
«Forse...».
Edward scomparve.
Ritornò dopo mezzo secondo, con altre gocce di diamante nei capelli e un giornale bagnato fra le mani. Lo aprì sul tavolo e ne scorse velocemente i titoli. Era chino in avanti, concentrato nella lettura, e sottolineava con un dito i passaggi che lo interessavano di più.
«Carlisle ha ragione... sì... davvero confuso. Giovane e pazzo? O un a-spirante suicida?», bofonchiò.
Cercai di sbirciare oltre la sua spalla.
Il titolo del «Seattle Times» diceva: "La scia di omicidi si diffonde - Nessuna pista per la polizia".
Era più o meno la stessa storia di cui aveva parlato Charlie qualche set-timana prima: la barbarie metropolitana spingeva Seattle sempre più in alto nella classifica delle capitali statunitensi degli omicidi. Ma non era proprio lo stesso articolo. Le cifre erano molto più alte.
«La situazione peggiora», mormorai.
Si rabbuiò. «È del tutto fuori controllo. Non può essere il lavoro di un solo vampiro appena nato. Che succede? A quanto pare, chiunque sia non ha mai sentito parlare dei Volturi. È possibile, in effetti. Nessuno che gli abbia spiegato le regole... ma allora, chi è il suo creatore?».
«Cosa c'entrano i Volturi?», domandai, spiazzata.
«Spazzano via ciclicamente questo genere di cose, cioè altri immortali che rischiano di farci uscire allo scoperto. Qualche anno fa, ad Atlanta, hanno ripulito un casino simile ma molto meno grave. Interverranno presto, molto presto, se non troviamo un modo per calmare le acque. Preferirei che non arrivassero a Seattle ora. Se sono tanto vicini... potrebbero decidere di farti visita».
Rabbrividii di nuovo. «Che possiamo fare?».
«Prima di decidere dobbiamo saperne di più. Magari, se potessimo par-lare con questi novellini, spiegargli le regole, la cosa si risolverebbe pacifi-camente». Aggrottò la fronte, poco convinto dell'ipotesi. «Aspetteremo che Alice abbia un'idea di ciò che sta accadendo... Non vogliamo entrare in a-zione finché non sarà strettamente necessario. Dopotutto, non è nostra re-sponsabilità. Per fortuna abbiamo Jasper», aggiunse, quasi a se stesso. «Se dovremo avere a che fare con dei neonati, ci tornerà utile».
«Jasper? Perché?».
«Jasper è una specie di esperto in giovani vampiri».
«In che senso un esperto?».
«Chiedilo a lui. È una storia complicata».
«Che casino», mugugnai.
«Effettivamente sì. A quanto pare ne stanno accadendo di tutti i colori, in questi giorni». Sospirò. «Pensi mai che la tua vita sarebbe più semplice, se non mi amassi?».
«Forse sì. Ma non sarebbe così speciale».
«Per me...», aggiunse sereno. «E ora, sbaglio...», continuò con un sorriso ironico, «o hai qualcosa da chiedermi?».
Lo guardai senza capire. «Io?».
«O forse no». Sorrise. «Non avevi promesso a qualcuno di chiedermi il permesso di andare a una specie di serata fra licantropi?».
«Hai origliato di nuovo?».
Sorrise. «Solo un po', verso la fine».
«Be', non te l'avrei chiesto comunque. Pensavo che fossi già abbastanza stressato».
Mi sollevò il viso in modo da potermi leggere negli occhi. «Vuoi andar-ci?».
«Non è importante. Non preoccuparti».
«Non devi chiedermi il permesso, Bella. Non sono tuo padre, grazie al cielo. Forse dovresti chiedere a Charlie».
«Charlie dirà di sì, lo sai».
«Effettivamente è vero, direi che non tutti sono in grado di intuirne i pensieri come me».
Lo fissai, cercando di non pensare alla mia voglia di andare a La Push: volevo capire i suoi desideri senza farmi sviare dai miei. Era stupido, pro-prio ora che succedevano cose così preoccupanti e misteriose, voler uscire con una combriccola di ragazzi-lupo grandi e sciocchi. Ma proprio per questo volevo farlo. Volevo lasciarmi alle spalle le minacce di morte, solo per qualche ora... essere la Bella immatura e spericolata che poteva riderci sopra con Jacob, anche solo per un po'. Ma tutto questo non aveva impor-tanza.
«Bella», disse Edward, «ti ho detto che sarei stato ragionevole e mi sarei fidato del tuo buon senso. Dicevo sul serio. Se tu ti fidi dei licantropi, non mi preoccupo di loro».
Restai sorpresa, come la notte precedente.
«E Jacob ha ragione, quanto meno su una cosa: uri branco di licantropi è sufficiente a proteggerti per una sera».
«Ne sei sicuro?».
«Certo. Solo...».
Mi preparai.
«Ti dispiacerebbe prendere qualche precauzione? Permettimi di accom-pagnarti fino al confine, intanto. E magari porta con te un cellulare, così saprò quando venire a prenderti».
«Mi sembra una proposta... molto ragionevole».
«Perfetto».
Mi sorrise e nei suoi occhi splendenti come gioielli non c'era alcuna traccia di apprensione.

Ovviamente Charlie fu ben contento di lasciarmi andare al falò di La Push. Quando chiamai Jacob per dargli la notizia, si abbandonò a un'esul-tanza sfacciata, tanto entusiasta da accettare tutte le misure di sicurezza di Edward. Gli diedi appuntamento sul confine, alle sei.
Avevo deciso, dopo averci pensato meglio, che non avrei venduto la mo-to. L'avrei riportata a La Push - era casa sua, in fondo - e quando non ne avessi avuto più bisogno... be', avrei insistito perché Jacob ne approfittasse in qualche modo. Avrebbe potuto venderla o regalarla a un amico. Non m'interessava.
Fu una buona occasione, dunque, per riportare la moto nel garage di Ja-cob. Con tutti i foschi presagi che avevo, ogni giorno sembrava un'ultima occasione. Non avevo tempo di rimandare nulla, importante o no.
Quando gli spiegai il mio piano, Edward si limitò ad annuire, ma mi sembrò di vedere un lampo di costernazione nei suoi occhi: come Charlie, era tutt'altro che felice di vedermi in sella a una motocicletta.
Lo seguii fino a casa sua, al garage dove avevo lasciato la moto. Soltanto quando scesi dal furgoncino mi resi conto che la preoccupazione non ri-guardava soltanto la mia sicurezza.
La mia vecchia moto era sovrastata da un altro mezzo. Chiamarla moto-cicletta era davvero ingiusto: non sembrava affatto della stessa famiglia del mio veicolo, che d'un tratto mi appariva come un rottame.
Era grande, lucida e argentata, e persino da ferma sembrava veloce.
«Cos'è quella?».
«Niente», mormorò Edward.
«Non ho mai visto niente di simile».
L'espressione di Edward era indifferente; sembrava che volesse farla sparire. «Be', non sapevo se tu e il tuo amico avreste fatto la pace, e ho pensato, visto che ti piace, che avresti voluto continuare a guidare la moto. Pensavo di poterti accompagnare, ecco». Scrollò le spalle.
Fissai quel veicolo stupendo. Accanto, il mio sembrava una specie di tri-ciclo rotto. Sentii una repentina ondata di tristezza quando realizzai che forse era così che apparivo, accanto a Edward.
«Non sarei mai capace di tenere il tuo passo», sussurrai. Mi posò una mano sotto il mento e mi fece voltare verso di lui per guardarmi negli occhi. Con un dito cercò di sollevarmi un angolo della bocca.
«Sarei io a tenere il tuo, Bella».
«Ma per te non sarebbe molto divertente».
«Certo che sì, se fossimo insieme».
Mi morsi il labbro e provai a immaginare. «Edward, se pensassi che sto andando troppo veloce, che sto perdendo il controllo della moto o qualcosa del genere, che faresti?».
Esitò, cercando la risposta giusta. Io sapevo la verità: avrebbe trovato il modo di salvarmi prima che cadessi.
Poi sorrise. Sembrava spontaneo, tranne che per lo sguardo accigliato, sulla difensiva.
«Sono cose che fai con Jacob. Ho capito».
«In realtà, be', cerco solo di non rallentarlo troppo, sai. Potrei provare, credo...».
Guardai dubbiosa la motocicletta argentata.
«Non preoccuparti», disse Edward, poi rise con leggerezza. «Ho visto Jasper molto interessato. Forse per lui è il momento di scoprire un nuovo modo di viaggiare. Dopotutto, Alice ha la Porsche».
«Edward, io...».
M'interruppe con un rapido bacio. «Ho detto di non preoccuparti. Però, mi concedi almeno una cosa?».
«Tutto ciò che vuoi», promisi subito.
Mi lasciò il viso e si appoggiò al fianco della moto, cercando di ripescare qualcosa che aveva nascosto lì sotto.
Tornò con un oggetto, nero e informe, e un altro, rosso, facilmente iden-tificabile.
«Per favore», disse e sfoderò il sorriso sghembo che sbriciolava sempre ogni mia resistenza.
Presi il casco rosso, pesandolo fra le mani. «Sembrerò ridicola».
«No, starai meglio. Tanto meglio da non farti male». Buttò l'oggetto nero, qualunque cosa fosse, alle sue spalle e poi mi prese il viso fra le mani. «Ho una cosa fra le mani, adesso, senza la quale non potrei vivere. Dovresti averne cura».
«Okay, va bene. E quell'altro coso?», domandai sospettosa.
Rise e scrollò una specie di giubbotto imbottito. «È una giacca da moto-ciclista. Ho sentito che gli incidenti stradali sono parecchio fastidiosi, non che lo sappia per esperienza».
Me lo tenne per farmelo indossare. Rassegnandomi, tirai i capelli indietro e misi il casco in testa. Poi infilai le braccia nelle maniche. Lui chiuse il giubbotto con un sorrisetto e fece un passo indietro. Mi sentivo ingom-brante.
«Sii sincero, quanto sono orribile?».
Fece un altro passo indietro e strinse le labbra.
«Così tanto?», mugugnai.
«No, no, Bella. In realtà...». Sembrava si stesse sforzando per trovare la parola giusta. «Ti trovo... sexy».
Risi di cuore. «Come no».
«Molto sexy, davvero».
«Lo dici soltanto per farmi portare questa roba», dissi. «Ma va bene. Hai ragione, così sto meglio».
Mi avvolse tra le braccia e mi strinse al petto. «Sei sciocca. Ma questo fa parte del tuo fascino. Comunque, lo ammetto, questo casco ha i suoi svan-taggi».
E me lo tolse per potermi baciare.

Poco dopo, mentre Edward mi accompagnava a La Push, mi resi conto che quella situazione senza precedenti mi sembrava stranamente familiare. Mi ci volle un po' per riconoscere l'origine del déjà-vu.
«Sai cosa mi ricorda?», dissi. «Di quando ero piccola e Reneé mi portava da Charlie per l'estate. Mi sento come una bambina di sette anni».
Edward rise.
Non lo dissi, ma la grande differenza era che adesso Reneé e Charlie e-rano in rapporti migliori fra loro.
A circa metà strada girammo l'angolo e trovammo Jacob appoggiato contro un fianco della Volkswagen rossa che aveva rimesso in sesto da solo. L'espressione accuratamente neutrale di Jacob si trasformò in un sorriso quando lo salutai dal sedile.
Edward parcheggiò la Volvo a circa trenta metri di distanza.
«Chiamami quando sei pronta per tornare a casa», disse, «e arrivo subi-to».
«Non farò tardi», promisi.
Edward scaricò la moto e il mio nuovo equipaggiamento dalla sua auto. Ero rimasta quasi impressionata che ci fosse entrato tutto. Ma, d'altra parte, che vuoi che sia una moto quando uno è tanto forte da riuscire a spostare un furgoncino...
Jacob osservò senza un cenno. Il sorriso era sparito, lo sguardo indeci-frabile.
Strinsi il casco sotto il braccio e lanciai il giubbotto sul sedile.
«Hai tutto?», chiese Edward.
«Nessun problema», lo rassicurai.
Con un sospiro si chinò verso di me. Girai il viso per un bacetto d'addio, ma mi prese di sorpresa stringendomi forte tra le braccia e baciandomi con lo stesso entusiasmo che aveva avuto in garage. Mi lasciò subito senza fiato.
Edward rise sereno, chissà perché, e mi lasciò andare.
«Ciao», disse. «Proprio bello quel giubbotto».
Mentre mi allontanavo da lui mi sembrò di scorgere una strana luce nei suoi occhi, qualcosa che non avrei dovuto vedere. Non sapevo dire con e-sattezza cosa fosse. Preoccupazione, forse. Per un secondo lo scambiai per panico. Ma forse mi stavo facendo tanti problemi per nulla, come sempre.
Sentivo il suo sguardo seguirmi mentre spingevo la moto verso l'invisi-bile linea di confine licantropi-vampiri, per andare da Jacob.
«Che cos'è questa storia?», chiese Jacob guardingo, scrutando la moto con un'espressione enigmatica.
«Ho pensato che è meglio riportarla a casa», risposi.
Meditò sulle mie parole per un istante, poi un sorriso gli distese il volto.
Capii con precisione quando entrammo nel territorio dei licantropi perché Jacob saltò giù dall'auto e m'inseguì svelto, accorciando le distanze in tre lunghi passi. Prese la moto, la issò sul cavalletto e mi strinse in un altro fortissimo abbraccio.
Sentii il motore della Volvo ringhiare e cercai di liberarmi.
«Smettila, Jake!», ansimai senza fiato.
Rise e mi lasciò andare. Mi voltai a salutare, ma la macchina argentata era già scomparsa lungo la curva.
«Complimenti», commentai con un filo di acidità nella voce.
Spalancò gli occhi, falsamente innocente. «Per cosa?».
«Si è già sforzato abbastanza di essere carino; meglio per te se la smetti di sfidare la tua buona sorte».
Rise di nuovo, più forte di prima - dovevo aver detto qualcosa di diver-tente. Cercai di spiegarmi perché mentre veniva ad aprirmi la portiera della Golf.
«Bella», disse infine, ancora sogghignante, mentre chiudeva la portiera, «come faccio a sfidare una buona sorte che non ho?».

11
Leggende

«Lo mangi o no, quel panino?», chiese Paul a Jacob, con gli occhi fissi sui resti del banchetto che i licantropi avevano appena consumato.
Jacob si appoggiò alle mie ginocchia e si mise a giocare con un hot dog infilzato nel metallo di una gruccia riadattata a spiedino; le fiamme del falò lambivano la pelle rigonfia del würstel. Sospirò e si massaggiò lo stomaco. Chissà come, era ancora piatto, nonostante avessi perso il conto di quanti panini aveva ingurgitato dopo il decimo. Per non parlare della busta di pa-tatine giganti e della bottiglia di birra da due litri.
«Credo di sì», disse Jake lentamente. «Sono così sazio che sto per vomi-tare, ma penso di riuscire a farlo scendere: Non me lo godrò per niente, pe-rò». Sospirò di nuovo, triste.
Paul, che ne aveva mangiati tanti quanti Jacob, strinse i pugni e lo guardò torvo.
«E dai», Jacob rise. «Sto scherzando, Paul. Ecco qui».
Buttò in mezzo al cerchio formato da noi lo spiedino fatto in casa. Mi aspettavo che s'infilzasse dritto nella sabbia, ma senza alcuna difficoltà Paul lo afferrò con precisione dal verso giusto.
A furia di frequentare solo persone con abilità straordinarie rischiavo di farmi venire dei complessi.
«Grazie, fratello», disse Paul, che aveva già superato il breve momento d'ira.
Il fuoco crepitava e pian piano si abbassò. Le scintille scoppiavano veloci come bolle color arancione brillante sullo sfondo del cielo nero. Non mi ero neppure accorta che il sole era tramontato. Doveva essere tardi, ma non sapevo che ora fosse. Avevo perso completamente il senso del tempo. Stare insieme ai miei amici Quileute era più semplice di quanto mi aspettassi.
Mentre Jacob e io portavamo la mia moto in garage - e lui aveva ammesso con rammarico che quella del casco era una buona idea, a cui avrebbe dovuto pensare prima - avevo iniziato a preoccuparmi per la serata. Chissà, forse i licantropi mi avrebbero considerato una traditrice. Si sarebbero arrabbiati con Jacob per avermi invitata? Avrei rovinato la festa?
Ma quando spuntai con Jacob dalla foresta e raggiunsi il luogo d'incontro in cima alla scogliera - il fuoco ruggiva già, più luminoso del sole oscurato dalle nuvole - tutto divenne molto semplice e informale.
«Ehi, ragazza vampiro!», mi aveva salutato squillante Embry. Quil era saltato in piedi per darmi il cinque e baciarmi sulla guancia. Emily mi aveva preso la mano quando ci eravamo sedute sulla pietra fredda accanto a lei e Sam.
A parte qualche lamento provocatorio, più che altro di Paul, perché si tenesse sottovento la puzza dei succhiasangue, tutti mi trattavano come una di loro.
Non c'erano solo i ragazzi ad attendermi. Anche Billy era lì, con la sedia a rotelle posizionata su quella che sembrava la testa naturale del cerchio. Accanto a lui, su una sdraio pieghevole, c'era l'anziano, bianchissimo nonno di Quil, che si chiamava come lui. Aveva un aspetto fragile e rugoso. Al suo fianco Sue Clearwater, la vedova di Harry, l'amico di Charlie, insieme ai suoi due figli, Leah e Seth, seduti per terra come noi. Vedere i tre mi sorprese: allora dovevano essere al corrente del segreto. Dal modo in cui Billy e il vecchio Quil parlavano con Sue, sembrava che lei avesse rimpiaz-zato Harry nel consiglio. Questo rendeva automaticamente anche i suoi figli membri della società più segreta di La Push?
Chissà che cosa terribile doveva essere per Leah sedersi in cerchio di fronte a Sam ed Emily. Il suo viso grazioso non tradiva alcuna emozione, ma non staccava mai lo sguardo dalle fiamme. Ne osservai la perfezione del volto e non potei evitare di confrontarla con il volto sfregiato di Emily. Cosa pensava Leah di quelle cicatrici ora che ne conosceva la vera causa? Ai suoi occhi sembrava un atto di giustizia?
Il piccolo Seth Clearwater non era più così piccolo. Con il suo sorriso ampio e gioioso e il corpo snello e slanciato mi ricordava molto Jacob da ragazzino. La somiglianza mi fece sorridere, e sospirare. Anche Seth era condannato a veder cambiare la sua vita drasticamente, come gli altri ra-gazzi? Era forse per quel futuro che lui e la sua famiglia si ritrovavano a partecipare alla serata?
C'era tutto il branco: Sam con la sua Emily, Paul, Embry, Quil e Jared con Kim, la ragazza del suo imprinting.
Di primo acchito, Kim mi sembrò gentile, un po' timida, quasi anonima. Aveva il viso largo, gli zigomi pronunciati e occhi troppo piccoli per com-pensarli. Anche il naso e la bocca erano troppo larghi rispetto ai canoni tradizionali di bellezza. I capelli neri e lisci erano sottili e scompigliati dal vento, che non smetteva di soffiare in cima alla scogliera.
Quella era stata la prima impressione. Ma, dopo aver osservato per qual-che ora le occhiate che le riservava Jared, non riuscii a trovare più niente di insignificante in lei.
Come la guardava! Era come un cieco che vedeva il sole per la prima volta. Come un collezionista che scopre un Leonardo sconosciuto, come una madre che guarda negli occhi il figlio appena nato. Gli occhi meravi-gliati di lui mi fecero scoprire nuovi dettagli: la pelle di Kim alla luce del fuoco sembrava seta color mattone, la forma delle sue labbra era una per-fetta doppia curva, i denti erano bianchissimi e le ciglia lunghissime le sfioravano le guance se abbassava lo sguardo.
La pelle di Kim si faceva più scura quando incontrava lo sguardo di ve-nerazione di Jared; i suoi occhi si abbassavano per l'imbarazzo, ma non le riusciva facile distogliere troppo a lungo l'attenzione da lui.
Osservandoli, sentii di capire meglio quello che Jacob mi aveva detto dell'imprinting: è difficile resistere a un tale livello di coinvolgimento e adorazione.
Kim era appoggiata contro il petto di Jared, che la cingeva con un braccio. Chissà come stava al caldo, in quella posizione.
«Si sta facendo tardi», mormorai a Jacob.
«Non cominciare», mi sussurrò in risposta, anche se di sicuro almeno metà del gruppo aveva un udito tanto sensibile da sentirci. «La parte mi-gliore sta per arrivare».
«E cosa sarebbe? Tu che divori una mucca in un solo boccone?».
Jacob ghignò con il suo riso basso e rauco. «No. Quello è il finale. Non ci siamo incontrati solo per ingozzarci di cibo. Tecnicamente questa è una riunione del consiglio. Per Quil è la prima volta, non ha ancora sentito le nostre storie. Be', le ha sentite, ma oggi per la prima volta saprà che sono vere. Perciò vi starà più attento. Anche per Kim, Seth e Leah è la prima volta».
«Storie?».
Ero appoggiata contro una bassa cresta di roccia e Jacob scivolò all'in-dietro per avvicinarsi. Mi cinse la spalla con il braccio e mi parlò ancora più piano all'orecchio.
«Quelle che abbiamo sempre pensato fossero leggende», disse. «Le storie su come siamo nati. La prima narra degli spiriti guerrieri».
Il morbido sussurro di Jacob aveva fatto da introduzione. Attorno al fuo-co basso, di colpo l'atmosfera cambiò. Paul ed Embry si alzarono in piedi. Jared prese Kim e la sollevò gentilmente da terra.
Emily tirò fuori un quaderno a spirale e una penna, come un'alunna pronta per una lezione importante. Sam, accanto a lei, si mosse quel tanto da guardare nella stessa direzione del vecchio Quil, seduto al suo fianco. E all'improvviso capii che gli anziani del consiglio non erano tre, ma quattro.
Leah Clearwater, il cui viso era una splendida maschera priva di emo-zioni, chiuse gli occhi non per stanchezza, ma per concentrarsi. Suo fratello si sporse di più verso gli anziani, entusiasta.
Il fuoco scoppiettò e un'altra esplosione di scintille brillò nella notte.
Billy si schiarì la voce e, senza alcun'altra introduzione a parte il sussurro di suo figlio, cominciò a raccontare, con voce ricca e profonda. Le parole uscivano precise, come se le conoscesse a memoria, ma anche con sen-timento e un ritmo sottile. Come una poesia recitata dal suo autore.
«Fin dagli inizi i Quileute erano un piccolo popolo», disse Billy. «E siamo ancora un piccolo popolo, ma non siamo mai scomparsi. Questo perché nel nostro sangue c'è sempre stato un potere magico. Non è sempre stato il potere di cambiare forma. Quello è venuto dopo. All'inizio, eravamo spiriti guerrieri».
Non avevo mai notato il tono maestoso della voce di Billy Black, ma in quel momento mi resi conto dell'autorità che da sempre esercitava.
La penna di Emily si muoveva velocissima sul foglio, cercando di stargli al passo.
«All'inizio, la tribù si stabilì in questo golfo e divenimmo abili pescatori e costruttori di barche. Ma la tribù era piccola e il golfo ricco di pesce. Altri desideravano la nostra terra, ma noi troppo pochi per difenderla. Una tribù più numerosa ci attaccò e noi ricorremmo alle nostre barche per scappare. Kaheleha non fu il primo spirito guerriero, ma non ricordiamo le storie che la precedono. Non ricordiamo chi fu il primo a scoprire questo potere o se esso fosse stato già usato. Nella nostra storia Kaheleha è stato il primo grande Spirito Supremo e in quel terribile frangente usò la magia per di-fendere la nostra terra. Lui e i guerrieri lasciarono la barca non con il corpo, ma con lo spirito. Le loro donne vegliarono sui corpi e sulle onde, mentre gli spiriti degli uomini tornavano al golfo. Non potevano toccare la tribù nemica, ma avevano altre risorse. Le storie ci narrano che potevano soffiare poderosi venti negli accampamenti nemici; nel vento potevano sollevare urla terribili per spaventare i rivali. Le storie ci narrano anche che gli animali potevano vedere gli spiriti guerrieri, e che li capivano; gli animali erano dalla loro parte. Kaheleha guidò il suo esercito di spiriti e seminò di-struzione tra gli aggressori. La tribù di invasori aveva branchi di cani enormi, dal pelo foltissimo, che trainavano le loro slitte tra i ghiacci del nord. Gli spiriti guerrieri fecero rivoltare i cani contro i loro padroni, poi scatenarono una tremenda invasione di pipistrelli, evocandoli dalle cavità della scogliera. Usarono l'urlo dei venti per aiutare i cani a confondere gli uomini. I cani e i pipistrelli vinsero. I superstiti fuggirono, gridando che il nostro golfo era un luogo maledetto. Quando gli spiriti guerrieri li libera-rono, i cani tornarono alla vita selvaggia. I Quileute raggiunsero i propri corpi e le proprie mogli, vittoriosi. Le altre tribù vicine, gli Hoh e i Makah, strinsero un patto con i Quileute. Non volevano avere niente a che fare con la nostra magia. Vivemmo in pace con loro. Quando un nemico provava ad attaccarci, gli spiriti guerrieri lo scacciavano. Trascorsero diverse genera-zioni. Poi arrivò l'ultimo Spirito Supremo, Taha Aki. Era celebre per la sua saggezza e la sua indole pacifica. La gente viveva felice e serena sotto la sua protezione. Ma c'era un uomo, Utlapa, che non era sereno».
Un sibilo cupo corse attorno al fuoco. Non feci in tempo a vedere da do-ve arrivava. Billy lo ignorò e proseguì con la leggenda.
«Utlapa era uno dei più forti spiriti guerrieri del Supremo Taha Aki. Un uomo molto potente, ma anche molto avido. Pensava che il nostro popolo dovesse usare la magia per espandere il proprio territorio, per rendere schiavi gli Hoh e i Makah e costruire un impero. Ora, quando i guerrieri erano nei loro spiriti, potevano leggere ognuno i pensieri dell'altro. Taha Aki vide quali erano i sogni di Utlapa e si adirò con lui. Utlapa ricevette l'ordine di lasciare la tribù e di non usare mai più il suo spirito. Utlapa era un uomo forte, ma i guerrieri del Supremo erano in gran numero. Non ebbe altra scelta che andarsene. Furioso, l'uomo si nascose nella foresta vicina, in attesa dell'occasione per vendicarsi sul Supremo.
Anche in tempo di pace, lo Spirito Supremo vigilava per proteggere la sua gente. Spesso andava in un luogo segreto fra le montagne. Lasciava il suo corpo lì e scendeva attraverso le foreste e lungo la costa, per allontanare le minacce. Un giorno che Taha Aki partì per compiere il suo dovere, Utla-pa lo seguì. All'inizio, Utlapa pensò semplicemente di ucciderlo, ma questo piano presentava degli svantaggi. Di sicuro gli spiriti guerrieri avrebbero cercato di distruggerlo ed erano in grado di seguirlo più veloci di quanto lui non potesse scappare. Mentre si nascondeva fra le rocce e osservava il Supremo prepararsi a lasciare il suo corpo, gli venne in mente un altro piano.
Taha Aki lasciò il suo corpo nel luogo segreto e volò con il vento per vegliare sulla sua gente. Utlapa aspettò, finché non fu sicuro che lo spirito del Supremo si fosse allontanato abbastanza. Quando Utlapa lo raggiunse nel mondo degli spiriti, Taha Aki se ne accorse subito e intuì anche il suo piano omicida. Tornò rapido al luogo segreto, ma neanche i venti furono così veloci da salvarlo. Al suo arrivo, il suo corpo era già sparito. Il corpo di Utlapa giaceva abbandonato, ma Utlapa non aveva lasciato a Taha Aki vie di fuga: aveva sgozzato il proprio corpo con le mani di Taha Aki.
Taha Aki seguì il suo corpo lungo la montagna. Urlò a Utlapa, ma Utlapa lo ignorò, come se fosse il vento. Disperato, Taha Aki vide Utlapa prendere il suo posto come capo dei Quileute. Per qualche settimana, Utlapa non fece altro che assicurarsi che tutti lo credessero il vero Taha Aki. Poi le cose iniziarono a cambiare e il primo editto di Utlapa fu impedire a ogni guerriero di entrare nel mondo degli spiriti. Dichiarò di avere avuto una visione, un presagio, ma in realtà aveva paura. Sapeva che Taha Aki avrebbe atteso quell'occasione per raccontare la verità. Inoltre, Utlapa stesso aveva paura di entrare nel mondo degli spiriti, perché sapeva che Taha Aki avrebbe subito reclamato il proprio corpo. Così i suoi desideri di conquista grazie all'esercito degli spiriti guerrieri divennero irrealizzabili e cercò di accontentarsi del potere che aveva sulla tribù. Divenne un parassita, pretese privilegi che Taha Aki non aveva mai reclamato, si rifiutò di lavorare con i suoi guerrieri, ebbe una seconda moglie, più giovane di lui, e poi una terza, malgrado la prima fosse ancora viva, cosa inaudita per la tribù. Taha Aki osservava, furioso ma impotente. Alla fine, Taha Aki provò a uccidere il proprio corpo per salvare la tribù dagli eccessi di Utlapa. Fece scendere un lupo feroce dalle montagne, ma Utlapa si nascose dietro i suoi guerrieri. Quando il lupo uccise un giovane che cercava di proteggere il capo impostore, Taha Aki si sentì devastare dal dolore. Ordinò al lupo di andarsene.
Le storie narrano che non era facile essere spirito guerriero. Liberarsi del proprio corpo era più spaventoso che esaltante. Ecco perché quel potere veniva usato solo in caso di necessità. I viaggi solitari di perlustrazione del capotribù erano uno sforzo e un sacrificio. Essere senza corpo turbava; era scomodo, orribile. Taha Aki era stato lontano dal suo corpo così a lungo che ormai viveva nei tormenti. Si sentiva condannato: non avrebbe mai po-tuto attraversare l'Ultima Terra, dove i suoi antenati lo aspettavano. Sarebbe rimasto bloccato per sempre nello strazio di quel nulla. Il grande lupo seguì lo spirito di Taha Aki nei boschi, mentre si contorceva fra i tormenti. Il lupo era molto grande per la sua razza, e bellissimo. All'improvviso Taha Aki si sentì invidioso dell'animale. Non sapeva parlare, ma almeno aveva un corpo. Una vita. Persino vivere da animale sarebbe stato meglio di quell'orribile coscienza incorporea. Così Taha Aki ebbe l'idea che ha cam-biato il destino di tutti noi. Chiese al grande lupo di fargli spazio nel suo corpo, di dividerlo con lui. Il lupo acconsentì. Taha Aki entrò nel corpo del lupo con sollievo e gratitudine. Non era il suo corpo umano, ma era meglio del vuoto del mondo degli spiriti.
Ormai divenuti una cosa sola, l'uomo e il lupo tornarono al villaggio sul golfo. La gente scappò impaurita, invocando l'arrivo dei guerrieri che ac-corsero per colpire il lupo con le loro lance. Utlapa, ovviamente, rimase ben nascosto al sicuro. Taha Aki non attaccò i propri guerrieri. Si ritirò lenta-mente, parlando loro con gli occhi e cercando di guaire le canzoni del suo popolo. I guerrieri iniziarono a capire che quel lupo non era un animale qualunque, che era sotto l'influenza di uno spirito. Uno dei guerrieri più anziani, un uomo di nome Yut, decise di disobbedire all'ordine del capo impostore e provò a comunicare con il lupo. Non appena Yut ebbe fatto ingresso nel mondo degli spiriti, Taha Aki lasciò il lupo, in docile attesa del suo ritorno, per parlare con lui. In un attimo Yut comprese la verità e salutò il ritorno del suo vero Capo Supremo. In quel momento arrivò Utlapa, per vedere se il lupo era stato sconfitto. Quando vide il corpo di Yut giacere a terra senza vita, protetto dagli altri guerrieri, capì cos'era accaduto. Sfoderò il coltello e si affrettò a uccidere Yut prima che potesse tornare al suo corpo.
"Traditore", gridò, mentre i guerrieri non sapevano cosa fare. Il capo a-veva stabilito che era proibito tornare nel mondo degli spiriti, e spettava a lui decidere come punire i trasgressori. Yut saltò di nuovo nel suo corpo, ma Utlapa gli puntava già il coltello alla gola e con una mano gli copriva la bocca. Il corpo di Taha Aki era forte, mentre Yut era già avanti con gli anni. Yut non ebbe il tempo di dire neanche una parola per avvisare gli altri, perché Utlapa lo ridusse per sempre al silenzio. Taha Aki vide lo spirito di Yut entrare in quelle ultime terre che a lui erano bandite per l'eternità. Provò una grande rabbia, più intensa di qualsiasi sensazione avesse mai provato. Entrò di nuovo nel corpo del grande lupo, deciso a sgozzare Utla-pa. Ma, non appena fu di nuovo dentro al lupo, avvenne la grande magia.
La rabbia di Taha Aki era la rabbia di un uomo. L'amore che provava per la sua gente e l'odio contro il suo oppressore erano troppo vasti, troppo umani per il corpo del lupo. Il lupo iniziò a tremare e, davanti agli occhi sconvolti dei guerrieri e di Utlapa, si trasformò in uomo. Il nuovo uomo non somigliava a Taha Aki. Era molto più grande. Era l'incarnazione terrena dello spirito di Taha Aki. Tuttavia i guerrieri lo riconobbero all'istante, perché avevano volato con lui in forma di spirito. Utlapa provò a scappare, ma nel suo nuovo corpo Taha Aki possedeva la forza del lupo. Afferrò l'impostore e ne distrusse lo spirito prima che potesse uscire dal corpo ru-bato.
Una volta capito che cos'era successo, la gente si rallegrò. Taha Aki rimise velocemente le cose a posto, tornando a lavorare con il suo popolo e restituendo le giovani spose alle loro famiglie. L'unico cambiamento che mantenne in vigore fu la fine dei viaggi nella terra degli spiriti. Ora che la possibilità di rubare una vita ad altri si era fatta concreta, egli sapeva che quei viaggi erano troppo pericolosi. Gli spiriti guerrieri scomparvero per sempre. Da quel momento, Taha Aki fu più di un semplice uomo e più di un lupo. Fu battezzato Taha Aki il Grande Lupo, o Taha Aki l'Uomo Spiri-to. Guidò la tribù per molti, molti anni, senza più invecchiare. Quando un pericolo si avvicinava, assumeva l'identità di lupo per combattere o spa-ventare il nemico. La gente visse in pace. Taha Aki fu padre di molti figli e alcuni di questi, divenuti adulti, scoprirono che anch'essi potevano tra-sformarsi in lupi. I lupi erano tutti diversi l'uno dall'altro, poiché erano spi-riti e riflettevano l'uomo che c'era dentro di loro».
«Ah, ecco perché Sam è tutto nero», bofonchiò Quil sotto voce, ridendo. «Cuore nero, pelo nero».
Ero così presa dalla storia che rimasi scossa nel tornare al presente, al cerchio attorno al fuoco morente. E con altrettanto turbamento mi resi conto che attorno al cerchio erano riuniti i pronipoti - di chissà quanti gradi - di Taha Aki.
Il fuoco lanciò una scarica di scintille in cielo, che tremarono e danzaro-no, componendo forme quasi indecifrabili.
«E il tuo pelo color cioccolato cosa rappresenta?», sussurrò Sam in ri-sposta a Quil. «Quanto sei dolce?».
Billy ignorò la schermaglia. «Alcuni dei figli divennero guerrieri insieme a Taha Aki, e non invecchiarono più. Altri, che non amavano la tra-sformazione, rifiutarono di unirsi al branco degli uomini-lupo. Iniziarono di nuovo a invecchiare e la tribù scoprì che anche gli uomini-lupo sarebbe-ro cresciuti come tutti gli altri, se avessero rinunciato ai loro spiriti. La vita di Taha Aki durò quanto quella di tre uomini. Dopo la morte delle prime due, prese una terza moglie e in lei trovò la compagna migliore per il suo spirito. Aveva amato le altre, ma per lei sentiva qualcosa di diverso. Decise di rinunciare al suo spirito di lupo, per morire insieme a lei.
Questo è il racconto di come la magia è giunta fino a noi... ma non è la fine della storia...».
Poi guardò il vecchio Quil Ateara, che si spostò sulla sedia, raddrizzando le spalle fragili. Billy bevve da una bottiglia d'acqua e si asciugò la fronte. Emily aveva trascritto senza sosta.
«Quella era la storia degli spiriti guerrieri», cominciò il vecchio Quil con flebile voce tenorile. «Questa è la storia del sacrificio della terza moglie.
Molti anni dopo la rinuncia di Taha Aki al proprio spirito di lupo, quan-do era ormai vecchio, a nord ci furono problemi con la tribù dei Makah. Molte loro giovani erano scomparse e di ciò incolpavano i lupi, verso i quali provavano paura e diffidenza. Quando assumevano le sembianze dell'animale, gli uomini-lupo potevano ancora leggersi nel pensiero, proprio come i loro antenati facevano da spiriti. Sapevano che nessuno di loro era colpevole di quel misfatto. Taha Aki provò a rasserenare il capo Makah, ma la paura era troppa. Taha Aki non voleva trovarsi in guerra. Non aveva più l'età per guidare la sua gente da guerriero. Incaricò il suo figlio-lupo maggiore, Taha Wi, di trovare i veri colpevoli prima che iniziassero le ostilità. Taha Wi guidò gli altri cinque uomini-lupo del suo branco in missione sulle montagne, in cerca di qualche indizio delle Makah scom-parse. Trovarono qualcosa di assolutamente nuovo per loro: uno strano, dolce odore nella foresta, che bruciava il naso fino a far male».
Mi strinsi al fianco di Jacob. Vidi l'angolo della sua bocca contrarsi di-vertito e mi cinse con un braccio.
«Non sapevano quale creatura lasciasse un tale odore, ma la seguirono», continuò il vecchio Quil. La sua voce vibrante non aveva la stessa maestà di quella di Billy, ma irradiava un tono pressante, strano e vigoroso. Con il ritmo del racconto aumentarono anche i battiti del mio cuore.
«Lungo il percorso trovarono deboli tracce di odore e sangue umani. Senz'altro era quello il nemico che stavano cercando. Il viaggio li aveva spinti così lontano verso nord che Taha Wi decise di rimandare indietro metà del branco, i tre lupi più giovani, per riferire a Taha Aki ciò che ave-vano scoperto. Ma Taha Wi e i suoi due fratelli non fecero mai ritorno. I fratelli minori cercarono quelli maggiori, ma trovarono soltanto silenzio. Taha Aki mise il lutto per i suoi figli. Avrebbe voluto vendicarne la morte, ma era vecchio. Andò dal capo dei Makah e gli raccontò tutto ciò che era accaduto. Il capo dei Makah credette al suo dolore e la tensione fra le due tribù finì. Un anno dopo, una notte, due fanciulle Makah scomparvero dalle loro case. I Makah chiamarono subito i lupi Quileute, che riconobbero nel villaggio lo stesso odore dolce sentito nella foresta. I lupi si misero di nuovo in caccia. Solo uno tornò vivo. Era Yaha Uta, il figlio maggiore della terza moglie di Taha Aki, e il più giovane del branco. Aveva portato con sé qualcosa che non si era mai visto in tutta la storia dei Quileute: uno strano cadavere, duro come la pietra, che aveva fatto a pezzi. Tutti i consanguinei di Taha Aki, anche coloro che non si erano mai trasformati in lupi, sentivano l'odore penetrante di quella creatura senza vita. Ecco chi era il nemico dei Makah.
Yaha Uta raccontò cos'era accaduto: lui e i suoi fratelli avevano sorpreso la creatura - che aveva l'aspetto di un uomo, ma era duro come una roccia - con le due fanciulle Makah. Una delle ragazze era già morta, riversa a terra pallida e dissanguata. L'altra era intrappolata fra le braccia della creatura, con la gola sotto la sua bocca. Forse era ancora viva quando sorpresero l'orrenda scena, ma all'avvicinarsi dei lupi la creatura le spezzò subito il collo e ne gettò a terra il corpo inanimato. Le sue labbra bianche erano co-perte di sangue e gli occhi emettevano un bagliore rosso. Yaha Uta descrisse la forza maestosa e la velocità della creatura. Uno dei fratelli l'aveva sottovalutata e fu il primo a caderne vittima: la creatura lo squarciò come una bambola. Yaha Uta e gli altri furono più guardinghi. Si mossero insieme, avvicinandosi alla creatura dai lati, cercando di vincerla con l'a-stuzia. Avrebbero dovuto sfruttare fino al limite la loro forza e la velocità di lupi, come mai prima di allora. La creatura era dura come la pietra e fredda come il ghiaccio. Scoprirono che solo con i denti avrebbero potuto ferirla. Mentre si battevano, iniziarono a farla a brandelli, strappandole la carne a morsi. Ma la creatura imparava velocemente e presto capì come contrattaccare. Mise le mani sul fratello di Yaha Uta. Yaha Uta trovò un varco sulla gola della creatura e le si scagliò contro. Con i denti le staccò la testa, ma le sue mani non smettevano di stritolare il fratello. Yaha Uta ri-dusse la creatura a brandelli, nel disperato tentativo di salvarlo. Era troppo tardi per riuscirci, ma alle fine ebbe la meglio sul mostro. O così pensavano tutti. Yaha Uta fece esaminare dagli anziani i brandelli puzzolenti che aveva raccolto. Accanto al braccio di granito del mostro giaceva una mano, staccata. Quando gli anziani iniziarono a tastarla con dei bastoncini, i due monconi si toccarono e la mano si mosse verso il braccio cercando di riat-taccarsi. Terrorizzati, gli anziani diedero fuoco ai resti. Una grande nube di fumo, intossicante e nauseabondo, avvelenò l'aria. Alla fine separarono le ceneri in tanti piccoli sacchetti e li sparpagliarono ovunque: alcuni nell'o-ceano, altri nella foresta o nelle grotte della scogliera. Taha Aki ne conservò uno e se lo legò al collo: se mai la creatura avesse provato a ricomporsi di nuovo, l'avrebbe saputo».
Quil il vecchio fece una pausa e guardò Billy. Billy mostrò il nastrino di cuoio che portava al collo. Da un'estremità penzolava un sacchetto, scurito dal tempo. Qualcuno sussultò. Probabilmente lo feci anch'io.
«Lo chiamarono il Freddo, o il Bevitore di Sangue, e vissero nel tormento che non fosse solo. Ormai era rimasto un solo lupo protettore, il giovane Yaha Uta. Non dovettero aspettare a lungo per scoprire la verità. Il mostro aveva una compagna, un'altra Bevitrice di Sangue, che giunse nel villaggio dei Quileute in cerca di vendetta.
Le storie narrano che la Fredda era la cosa più bella che occhi umani a-vessero mai visto. Quel giorno, quando entrò nel villaggio, sembrava la dea del mattino: il sole, che brillava come non mai, faceva scintillare la sua pelle bianca e accendeva i capelli dorati che le scendevano fino alle ginocchia. Il suo volto possedeva una bellezza magica, gli occhi erano neri nel viso bianchissimo. Qualcuno, vedendola, cadde ai suoi piedi per adorarla. Lei chiese qualcosa con voce acuta, penetrante, in una lingua che nessuno comprendeva. Tutti restarono basiti, non sapendo cosa risponderle. Fra i testimoni dell'evento non c'era nessun consanguineo di Taha Aki, tranne un bambino. Si strinse a sua madre e gridò che l'odore gli faceva male al naso. Un anziano, che si stava recando al consiglio, lo udì e capì chi era giunto fra loro. Gridò alla gente di scappare. Fu il primo a essere ucciso. In venti assistettero all'arrivo della Fredda. Ne sopravvissero due, solo perché tutto quel sangue la distrasse e la costrinse a placare la propria sete. Corsero da Taha Aki, seduto in consiglio con gli altri anziani, i figli e la sua terza moglie. Non appena udì la notizia, Yaha Uta si trasformò in spirito lupo. Si diresse da solo a distruggere la bevitrice di sangue. Tana Aki, la terza moglie, i figli e gli anziani lo seguirono. All'inizio non trovarono la cre-atura, ma solo le tracce della sua carneficina. C'erano cadaveri a brandelli, alcuni prosciugati di tutto il sangue, sparsi lungo la strada da dove era ap-parsa. Poi udirono le grida e corsero verso il golfo dove alcuni Quileute si erano rifugiati sulle barche. Lei, che li stava inseguendo in acqua nuotando come uno squalo, sfondò una prua con forza incredibile. Mentre la barca affondava, prese quelli che cercavano di fuggire a nuoto e straziò anche i loro corpi. Quando vide il grande lupo sulla spiaggia ignorò i fuggitivi. Nuotò così veloce che era difficile vederla e arrivò, bagnata e trionfante, davanti a Yaha Uta. Lo indicò con il suo dito bianchissimo e gli fece un'al-tra domanda incomprensibile. Yaha Uta attese. Fu una dura battaglia. Come guerriera, lei non valeva il suo compagno. Ma Yaha Uta era solo. Non c'era nessuno a distrarre la furia della Fredda. Yaha Uta fu sconfitto e Taha Aki iniziò a urlare in segno di sfida. Zoppicò in avanti e si trasformò in un lupo anziano, dal muso bianco. Il lupo era vecchio, ma era Taha Aki l'Uomo Spirito e la sua rabbia lo rendeva più forte. La battaglia ricominciò. La terza moglie di Taha Aki aveva appena visto il figlio morire. Ora suo marito stava lottando e lei sapeva che non c'erano speranze di vittoria. Aveva ascoltato ogni parola di ciò che i testimoni della carneficina avevano riportato al consiglio. Aveva sentito la storia della prima vittoria di Yaha Uta e sapeva che era stato l'intervento di suo fratello a salvarlo.
La terza moglie prese un coltello dalla cintura di uno dei figli che le sta-vano accanto. Erano tutti ragazzi, non ancora uomini, e sapeva che sareb-bero morti se il padre fosse stato sconfitto. La terza moglie corse verso la Fredda sollevando il pugnale. La Fredda sorrise, distraendosi appena dalla lotta contro il vecchio lupo. Non temeva la debole donna né il coltello che non le avrebbe neppure graffiato la pelle. Era sul punto di sferrare l'attacco mortale a Taha Aki. Ma in quel momento la terza moglie fece qualcosa che la Donna Fredda non si aspettava. Cadde in ginocchio ai piedi della bevi-trice di sangue e affondò il coltello nel proprio cuore. Il sangue scrosciò fra le dita della terza moglie e schizzò contro la Fredda. La bevitrice non resi-stette alla tentazione del sangue fresco. Istintivamente si girò verso la donna morente, preda, per un secondo, della sua stessa sete. I denti di Taha Aki si serrarono sulla sua gola. La lotta non era ancora finita, ma ora Taha Aki non era solo. Alla vista della madre morente, due giovani figli provarono una rabbia enorme, capace di dare vita al loro spirito lupo, malgrado fossero solo ragazzi. Insieme al padre, finirono il mostro.
«Taha Aki non si riunì mai più alla tribù. Non riprese mai più le fattezze umane. Per un giorno intero restò sdraiato accanto al corpo della terza mo-glie, ringhiando a chiunque cercasse di toccarla; poi andò nella foresta e non tornò mai più. Da quel momento in poi, gli scontri con i Freddi capita-rono di rado. I figli di Taha Aki vigilarono sulla tribù finché i loro figli fu-rono grandi abbastanza da ereditarne il posto. Non si trasformarono mai in più di tre lupi alla volta. Era abbastanza. Di tanto in tanto un bevitore di sangue attraversava questi territori, ma veniva colto di sorpresa non sapen-do dei lupi. A volte un lupo moriva, ma non furono mai più decimati com'era accaduto la prima volta. Avevano imparato a combattere i Freddi e si erano tramandati tale conoscenza di lupo in lupo, da mente a mente, da spirito a spirito, di padre in figlio. Il tempo trascorse e i discendenti di Taha Aki non si trasformarono più in lupi, raggiunta l'età adulta. I lupi sarebbero tornati soltanto in caso di necessità, nel caso in cui un Freddo si fosse avvicinato di nuovo. I Freddi giunsero sempre da soli o in due, e il branco restò piccolo. Giunse una congrega più grande e i vostri bisnonni si prepa-rano a combatterla. Ma il capo dei nuovi venuti parlò a Ephraim Black con i modi di un uomo e gli giurò di non voler fare del male ai Quileute. I suoi strani occhi gialli, in qualche modo, provavano ciò che diceva: lui era di-verso dagli altri bevitori di sangue. I lupi erano in svantaggio numerico: non aveva senso che i Freddi cercassero una tregua, quando avrebbero po-tuto vincerli. Ephraim accettò. I Freddi hanno sempre rispettato il patto, benché la loro presenza tenda ad attirarne altri. E il loro numero ha indotto il branco a ingrandirsi quanto mai prima», disse il vecchio Quil, e per un attimo i suoi occhi neri, sepolti in una cornice di rughe, sembrarono sof-fermarsi su di me. «Eccetto, ovviamente, che all'epoca di Taha Aki», disse. «Perciò, oggi, i figli della nostra tribù portano di nuovo il fardello, e con-dividono il sacrificio che i loro padri hanno sopportato prima di loro».
Per un momento interminabile rimase tutto in silenzio. I discendenti della leggenda e della magia si fissarono l'un l'altro attraverso il fuoco con la tristezza negli occhi. Tutti tranne uno.
«Fardello», schernì a bassa voce. «Secondo me è una figata». Il labbro pieno di Quil si gonfiò in un broncio.
Dall'altra parte del fuoco morente, Seth Clearwater - gli occhi pieni di adulazione per la fratellanza dei protettori della tribù - annuì il proprio consenso.
Billy ridacchiò piano e a lungo e la magia sembrò dissolversi nella brace scintillante. All'improvviso era di nuovo un cerchio di amici. Jared tirò un sassolino a Quil e tutti risero del suo spavento. Iniziò un chiacchiericcio sommesso, scherzoso e informale.
Gli occhi di Leah Clearwater non si aprirono. Mi parve di vedere qual-cosa scintillare per un istante sulla sua guancia, forse una lacrima.
Né io né Jacob parlammo. Era immobile accanto a me, il respiro tanto profondo e regolare che pensai stesse per addormentarsi.
La mia mente era lontana mille anni. Non pensavo a Yaha Uta o agli altri lupi, oppure alla bellissima Fredda, che potevo immaginare fin troppo facilmente. No, pensavo a qualcuno che era totalmente al di fuori della magia. Cercavo di immaginare il viso della donna senza nome che aveva salvato l'intera tribù, la terza moglie.
Solo una donna umana, senza doni né poteri speciali. Fisicamente più debole e lenta di qualunque altro mostro della storia. Ma era stata lei la chiave, la soluzione. Aveva salvato il marito, i suoi giovani figli, la tribù.
Avrei voluto conoscere il suo nome...
Qualcosa mi scosse il braccio.
«Forza, Bells», mi disse Jacob all'orecchio. «Siamo arrivati».
Strizzai gli occhi confusa: il fuoco era sparito. Fissai l'oscurità inaspettata, cercando di dare un senso a ciò che mi circondava. Mi ci volle un po' per capire che non ero più sulla scogliera. Jacob e io eravamo soli. Ancora avvolta dal suo braccio, ma non più seduta per terra.
Come ero finita nella macchina di Jacob?
«Oh, merda!», protestai quando capii di essermi addormentata. «Che ore sono? Merda, dov'è quello stupido telefono?», mi toccai le tasche, nel pa-nico.
«Facile. Non è ancora mezzanotte. L'ho già chiamato io. Guarda, ti sta aspettando lì».
«Mezzanotte?», ripetei come una stupida, ancora disorientata. Fissai nell'oscurità e il cuore sussultò quando riconobbi la sagoma della Volvo, trenta metri più avanti. Cercai la maniglia della portiera.
«Ecco qua», disse Jacob infilandomi qualcosa in mano. Il cellulare.
«Hai chiamato tu Edward per me?».
I miei occhi si erano ambientati abbastanza da vedere il bagliore luminoso del sorriso di Jacob. «Ho pensato che se mi comporto in modo carino, potrò passare più tempo con te».
«Grazie, Jake», dissi commossa. «Davvero, grazie. E grazie anche per avermi invitato stanotte. È stato...», le parole mi mancavano. «Caspita. È stato unico».
«E non hai nemmeno resistito per vedermi mangiare la mucca». Rise. «No, mi fa piacere che tu sia stata bene. È stato... bello, per me. Averti qui».
Ci fu un movimento nel buio, a distanza. Qualcosa di chiaro si mosse come uno spettro contro gli alberi neri. Camminava inquieto?
«Be', non è molto paziente, vero?», disse Jacob notando che mi ero di-stratta. «Vai ora. Ma torna presto, okay?».
«Certo, Jake», promisi e aprii la portiera scricchiolante. L'aria fredda mi accarezzò le gambe e mi fece rabbrividire.
«Dormi serena, Bells. Non preoccuparti di niente: ci sarò io a sorvegliarti, stasera».
Mi fermai, con un piede per terra. «No, Jake. Riposati un po', io starò bene».
«Certo, certo», disse, ma sembrava più una concessione che un accordo.
«'Notte, Jake. Grazie».
«'Notte, Bella», sussurrò mentre mi allontanavo nel buio.
Edward mi prese sulla linea di confine.
«Bella», disse con un forte sollievo nella voce; le sue braccia si avvolsero strette attorno a me.
«Ciao. Scusa se ho fatto così tardi. Mi sono addormentata e...».
«Lo so. Mi ha già spiegato Jacob». Si diresse alla macchina, e lo seguii, intorpidita e rigida. «Sei stanca? Ti posso portare io».
«Sto bene».
«Meglio accompagnarti a casa e metterti a letto. Hai passato una bella serata?».
«Sì, è stato... davvero stupefacente, Edward. Avrei voluto ci fossi anche tu. Non posso neanche spiegarlo. Il padre di Jake ci ha raccontato le vecchie leggende ed è stato come... come una magia».
«Me le racconterai, ma dopo un buon sonno».
«Non sarò in grado», dissi, poi feci un grosso sbadiglio. Edward sogghi-gnò. Mi aprì la portiera, mi fece entrare e mi passò la cintura di sicurezza attorno.
Un paio di fari brillarono e ci passarono davanti. Salutai Jacob con un gesto, ma forse non riuscì a vederlo.

Quella notte - dopo aver salutato Charlie, che non mi fece tutti i problemi che mi aspettavo, visto che Jacob aveva chiamato anche lui - invece di buttarmi subito a letto restai appoggiata alla finestra aperta, in attesa del ri-torno di Edward. L'aria era inaspettatamente fredda, quasi invernale. Sulle scogliere ventose non l'avevo notato affatto; più che del fuoco acceso, forse era stato merito della vicinanza di Jacob.
Gocce ghiacciate mi schizzarono sul viso mentre la pioggia iniziava a cadere.
Era troppo buio per vedere alcunché accanto ai triangoli neri degli abeti che si slanciavano e ondeggiavano al vento. Tesi comunque gli occhi, in cerca di altri profili nella foresta. Una sagoma pallida, che si muoveva come un fantasma nell'oscurità... o magari i contorni scuri di un enorme lupo... i miei occhi erano troppo stanchi.
Poi sentii un movimento nella notte, proprio accanto a me. Edward sci-volò attraverso la finestra aperta, con le mani più fredde della pioggia.
«C'è Jacob fuori?», chiesi, tremando, quando Edward mi abbracciò.
«Sì... da qualche parte. Ed Esme sta tornando a casa».
«Fuori piove e fa freddo. Che stupidaggine». Tremai di nuovo.
Sorrise. «Fa freddo solo per te, Bella».
Quella notte fece freddo anche nei miei sogni, forse perché dormii fra le braccia di Edward. Sognai di essere dentro una tormenta, con il vento che mi frustava i capelli sul viso e mi chiudeva gli occhi. Ero ferma sullo spun-tone di roccia di First Beach, cercando di riconoscere le forme che si muo-vevano veloci e che apparivano offuscate nell'oscurità, sul limitare della costa. All'inizio ci fu soltanto uno scintillio di nero e bianco, che sfreccia-vano l'uno verso l'altro e si allontanavano danzando. Poi, come se a un trat-to la luna fosse spuntata da dietro le nuvole, vidi tutto.
Rosalie, con i capelli dorati e bagnati, sciolti e lunghi fino alle ginocchia, si era scagliata contro un enorme lupo, con il pelo del muso maculato d'argento, che riconobbi istintivamente come Billy Black.
Iniziai a correre, ma mi muovevo con la lentezza frustrante dei sogni. Cercai di urlare che si fermassero, ma il vento spegneva la mia voce e dalla mia bocca non usciva neanche un suono. Agitai le braccia sperando di atti-rare l'attenzione. Qualcosa mi brillò nella mano destra e a un tratto notai che non era vuota.
Reggevo una lama lunga e affilata, antica, d'argento, incrostata di sangue secco e nero.
Rabbrividii lasciando cadere il coltello e i miei occhi si aprirono di scatto nella mia stanza silenziosa e buia. La prima cosa che notai fu che non ero sola; mi girai per seppellire il mio viso nel petto di Edward. Il dolce odore della sua pelle avrebbe scacciato gli incubi meglio di qualunque altra cosa.
«Ti ho svegliato?», sussurrò. Sentii un rumore di carta, di pagine che si sgualcivano, e un debole tonfo, come qualcosa di leggero che cadeva sul pavimento.
«No», farfugliai, sospirando di contentezza mentre le sue braccia mi stringevano. «Ho fatto un brutto sogno».
«Ne vuoi parlare?».
Scossi la testa. «Sono troppo stanca. Magari domani mattina, se me lo ricordo».
Sentii una risata silenziosa scuoterlo.
«Domani mattina», acconsentì.
«Cosa stavi leggendo?», bofonchiai, non del tutto sveglia.
«Cime tempestose», disse.
Increspai la fronte, mezza addormentata. «Pensavo che non ti piacesse».
«L'ho trovato in giro», mormorò, e la sua voce leggera mi cullò verso l'incoscienza. «E poi... più tempo trascorro con te, più le emozioni umane mi sembrano comprensibili. Sto scoprendo di avere molto in comune con Heathcliff, più di quanto credessi».
Risposi con un sospiro.
Disse qualcos'altro, a bassa voce, ma a quel punto dormivo già.
Il giorno dopo, l'alba era grigio perla, immobile. Edward mi chiese del mio sogno, ma non riuscivo a venirne a capo. Ricordavo solo di aver sentito freddo e di essere stata contenta di risvegliarmi accanto a lui. Mi baciò, tanto a lungo da mandarmi il cuore a mille, poi si diresse a casa per cam-biarsi e prendere l'auto.
Mi vestii in fretta, avevo poco tra cui scegliere. Chiunque avesse sac-cheggiato la mia cesta aveva spaiato il mio guardaroba in maniera irrepa-rabile. Se non ne fossi stata terrorizzata, mi sarei sentita parecchio infasti-dita.
Mentre mi accingevo a scendere per la colazione, notai la mia copia sbrindellata di Cime tempestose aperta sul pavimento, dove Edward l'aveva lasciata la notte precedente, aperta su una pagina a mo' di segno, come fa-cevo sempre io.
La raccolsi, incuriosita, cercando di ricordare le sue parole. Aveva detto che Heathcliff, proprio lui, gli era simpatico, o qualcosa del genere. Non potevo crederci: forse mi ero sognata tutto.
Sulla pagina aperta, tre parole attirarono la mia attenzione; chinai la testa per leggere il paragrafo più da vicino. Era Heathcliff a parlare: conoscevo bene quel passaggio.

Ecco la differenza dei nostri sentimenti; se lui fosse stato al posto mio e io al suo, l'avrei odiato di un odio che mi avrebbe avvelenata la vita come fiele, pure non avrei mai levato una mano contro di lui. Mostrati incredula quanto ti pare e piace! Io non l'avrei mai privato della compagnia di Catherine finché ella avesse mostrato di desiderare la sua. Non appena tale desiderio fosse cessato, gli avrei strappato il cuore, e bevuto il sangue! Ma, prima d'allora... oh! tu non mi conosci... prima d'allora sarei morto a goccia a goccia, piuttosto che torcergli un capello!

Le tre parole che avevano catturato la mia attenzione erano «bevuto il sangue».
Rabbrividii.
Sì, sicuramente solo in sogno potevo aver udito Edward dire qualcosa di positivo su Heathcliff. E forse non era neanche la pagina che stava leggen-do. Cadendo si era aperto a caso, di sicuro.

12
Tempo

«Ho previsto...», disse Alice in un tono che non prometteva nulla di buono.
Edward le diede una gomitata nelle costole che lei schivò con prontezza.
«Ottimo», brontolò. «È Edward che mi sta obbligando. Però ho visto che se ti avessimo fatto una sorpresa ti saresti arrabbiata».
Stavamo andando verso la macchina, dopo la scuola, e non avevo asso-lutamente idea di cosa stesse dicendo.
«Puoi ripeterlo in una lingua comprensibile?», domandai.
«Non fare la bambina, su. Niente bizze».
«Ecco, adesso ho paura».
«Insomma stai - voglio dire, stiamo - per affrontare una festa di diploma. Non è questa gran cosa. Niente per cui agitarsi più di tanto. Ma ho visto che ti saresti agitata se avessi provato a organizzarti una festa a sorpresa». Edward le si avvicinò, le scompigliò i capelli e lei lo scansò con un passo di danza. «Edward ha detto che dovevo dirtelo. Ma non è niente di speciale. Te lo giuro».
Sbuffai. «C'è qualcosa da discutere?».
«No, niente».
«Va bene, Alice. Ci sarò. E odierò ogni singolo minuto che trascorrerò lì. Te lo giuro».
«Questo è lo spirito giusto! A proposito, grazie del regalo. Non dovevi».
«Alice, non ti ho fatto nessun regalo!».
«Ah, lo so. Ma me lo farai».
Mi concentrai, in preda al panico, cercando di ricordare cosa avessi pen-sato di regalarle per il diploma. Ovviamente me lo aveva letto nel pensiero.
«Incredibile», sbottò Edward. «Non è possibile che esista qualcuno di così piccolo e così irritante».
Alice rise. «Talento naturale».
«Non potevi aspettare un paio di settimane a dirmelo?», chiesi petulante. «Mi hai solo prolungato il tormento».
Alice mi guardò torva.
«Bella», disse piano, «sai che giorno è oggi?».
«Lunedì?».
Alzò gli occhi. «Sì, è lunedì 4». Mi prese per un gomito, mi fece fare mezzo giro su me stessa e mi indicò un grande poster giallo affisso alla porta della palestra. C'era scritta a chiare lettere la data degli esami. A cui mancavano esattamente sette giorni.
«È davvero il 4? Di giugno? Siete sicuri?».
Nessuno dei due rispose. Alice si limitò a scuotere tristemente la testa, fingendo delusione, mentre Edward mi guardò perplesso.
«No, davvero, è impossibile!». Provai a fare un rapido conto nella mia testa, ma non mi capacitavo di come fosse passato il tempo.
Mi sentii come se mi avessero tolto l'appoggio delle gambe con uno sgambetto. Le settimane di stress, di ansia... Ossessionata com'ero dal tempo, il mio tempo era svanito. Non ne restava per mettere tutto quanto in ordine, per fare progetti. Il tempo era scaduto.
E non ero pronta.
Non sapevo come fare. Come salutare Charlie e Renée... Jacob... la mia vita da essere umano.
Sapevo esattamente cosa volevo, ma l'idea di ottenerlo all'improvviso mi terrorizzava.
In teoria ero ansiosa, persino avida di scambiare la mortalità con l'im-mortalità. In fin dei conti era la chiave per restare con Edward per sempre. Inoltre ero bersaglio di assalitori più o meno noti. Forse era meglio non andare in giro così, inerme, fragile e deliziosa, in attesa che qualcuno mi catturasse.
In teoria tutto ciò aveva senso.
In pratica, invece... ero umana. Il futuro era un abisso grande e scuro e per conoscerlo avrei dovuto saltarci dentro.
Era il 4 giugno, un'ovvietà che il mio inconscio aveva represso. E ora, la riscoperta trasformava la data che avevo atteso con ansia in un appunta-mento con il plotone d'esecuzione.
Nella confusione mi accorsi che Edward mi aveva aperto la portiera della macchina, che Alice si era seduta dietro e non stava zitta un momento e che la pioggia batteva sul parabrezza. Edward aveva capito che ero presente soltanto con il corpo e non cercò di scuotermi dalla mia fantasia. Oppure lo fece e io non me ne accorsi.
Finimmo a casa mia, lui mi fece sedere sul divano e mi strinse a sé. Guardai fuori dalla finestra, verso la nebbia grigia e liquida, in cerca della determinazione che all'improvviso avevo perso. Dov'era andata a finire? Perché tutto quel panico? Sapevo che quel momento sarebbe arrivato. Per-ché avevo paura proprio ora che mancava davvero poco?
Non so per quanto tempo mi lasciò guardare fuori. Quando il buio as-sorbì la pioggia, fu troppo anche per lui.
Mi prese le guance tra le mani e i suoi occhi dorati mi fissarono. «Mi dici a cosa stai pensando? Prima che io impazzisca?».
Cosa potevo dirgli? Che ero una codarda? Cercai le parole.
«Sei pallidissima. Parla, Bella».
Feci un respiro profondo. Per quanto tempo avevo trattenuto il fiato?
«Sono sconvolta perché mi sono resa conto di che giorno è oggi», sus-surrai. «Tutto qui».
In silenzio, mi guardò con un'espressione preoccupata e diffidente.
Provai a spiegare. «Non so cosa devo fare... cosa dire a Charlie... cosa dire... come...». La mia voce si affievolì.
«Non ha a che fare con la festa, vero?».
Corrugai la fronte. «No, però grazie per avermelo ricordato».
La pioggia batteva più forte quando mi guardò negli occhi.
«Non sei pronta», sussurrò.
«Invece sì», mentii di getto. Ma lui capì subito, così con un sospirone dissi la verità. «Devo esserlo».
«No, nessuno ti costringe».
Il panico prese il sopravvento. «Victoria, Jane, Caius, l'estraneo nella mia stanza...».
«Un altro motivo valido per aspettare».
«Edward, non ha senso!».
Aumentando la pressione delle mani sul mio volto, parlò con calma, ra-gionando.
«Bella. Nessuno di noi ha avuto la possibilità di scegliere. Hai visto cosa è successo... soprattutto a Rosalie. Noi tutti abbiamo lottato, abbiamo pro-vato a riconciliarci con qualcosa che non riusciamo a controllare. Ma per te farò in modo che sia diverso: tu avrai la possibilità di scegliere».
«Ma io ho già scelto».
«Non andrai fino in fondo soltanto perché hai una spada di Damocle sul-la testa. Penseremo ai problemi, e io penserò a te», promise. «Quando sarà tutto a posto, e non ti sentirai costretta a farlo, allora potrai unirti a me, se lo vorrai ancora. Ma non perché hai paura. Nessuno ti costringerà con la forza».
«Carlisle me l'ha promesso», mormorai per puro spirito di contraddizio-ne. «Dopo il diploma».
«Solo quando sarai pronta», disse con voce ferma. «E quando smetterai di sentirti minacciata, non un attimo prima».
Non risposi. Non avevo voglia di discutere, non riuscivo davvero a ri-trovare la determinazione.
«Ecco». Mi baciò la fronte. «Niente di cui preoccuparsi».
Risi inquieta. «Niente, eccetto il destino che incombe».
«Fidati».
«Sì».
Senza smettere di guardarmi, attese che mi calmassi.
«Posso chiederti una cosa?», domandai.
«Certo».
Esitai, mordendomi il labbro, e poi feci una domanda diversa da quella che mi preoccupava.
«Cosa regalerò ad Alice per il diploma?».
Ridacchiò. «A quanto pare ci regalerai dei biglietti per un concerto...».
«Esatto!». Ero così sollevata che quasi sorrisi. «Il concerto a Tacoma. Ho visto un annuncio sul giornale la settimana scorsa. Ho pensato che magari ti interessava, visto che il CD ti è piaciuto».
«È davvero una bella idea. Grazie».
«Spero che non sia tutto esaurito».
«È il pensiero che conta. E io lo so bene».
Sospirai.
«C'è qualche altra cosa che volevi chiedermi», disse.
Aggrottai la fronte. «Sei bravo, eh».
«Ormai se ti guardo in faccia non mi sfugge più niente. Sono allenato. Chiedi pure».
Chiusi gli occhi e affondai il viso nel suo petto. «Tu non vuoi che io di-venti una vampira».
«Esatto, non lo voglio», disse dolcemente, in attesa che aggiungessi qualcosa. «Non è una domanda», precisò un momento dopo.
«Insomma... sono preoccupata del... perché la pensi così».
«Preoccupata?». Evidenziò la parola, sorpreso.
«Mi dici perché? Tutta la verità, senza timore di ferirmi?».
Restò in silenzio per qualche istante. «Se ti rispondo, poi, mi spiegherai la tua domanda?».
Annuii senza scoprire il viso.
Prima di parlare prese fiato. «Potresti fare di meglio, Bella. So che tu credi che io abbia un'anima, ma io non ne sono del tutto convinto, e mettere a repentaglio la tua...». Scosse la testa lentamente. «Permettere tutto questo - lasciarti diventare come me soltanto per non perderti - è l'atto più egoista che possa immaginare. Lo vorrei più di ogni altra cosa per me stesso. Ma per te voglio molto di più. Cedere sarebbe un atto criminale. Il gesto più egoista che potrei fare, anche se vivessi per sempre. Se potessi diventare umano per te lo farei, a qualsiasi costo».
Restai nel più completo silenzio, meditando sulle sue parole.
Edward si credeva egoista.
Sentii un sorriso rischiarare pian piano il mio volto.
«Così... non è che hai paura che non ti piacerò così tanto se sarò diversa... se non sarò più morbida e calda e non avrò lo stesso odore? Mi terrai con te, qualunque cosa io diventi?».
Fece un respiro secco. «Avevi paura di non piacermi più?», domandò. Poi, prima che potessi rispondergli, scoppiò a ridere. «Bella, sveglia come sei non posso credere che tu dica certe sciocchezze!».
Temevo che l'avrebbe considerata una domanda stupida, ma ero sollevata. Se mi voleva davvero bene, potevo superare tutto... in qualche modo. "Egoista" d'un tratto mi parve una bella parola.
«Non credo che tu capisca quanto sarebbe facile per me, Bella», disse, e dalla voce traspariva il suo stato d'animo, «se non dovessi restare sempre concentrato per evitare di ucciderti. Ovvio, ci sono cose che mi manche-ranno. Questa, per esempio...».
Mi guardò negli occhi carezzandomi la guancia e sentii il sangue colo-rarmi la pelle. Rise in modo gentile.
«E poi il suono del tuo cuore», continuò più serio, sorridendo appena. «Il suono più importante per me. Ne sono così in sintonia che, giuro, potrei coglierlo a chilometri di distanza. Ma niente di tutto ciò importa davvero. Questo», disse, riprendendomi il viso tra le mani. «Te. Ecco cosa non la-scerò mai. Tu sarai sempre la mia Bella, sarai soltanto un po' più... resi-stente».
Serrai gli occhi, appagata, e mi rilassai tra le sue braccia.
«Ora puoi rispondere a una mia domanda? Tutta la verità, senza timore di ferirmi?», domandò.
«Certo», risposi senza pensare, con gli occhi bene aperti per la curiosità. Cosa voleva sapere?
Parlò lentamente: «Tu non vuoi diventare mia moglie».
Il mio cuore si fermò e poi iniziò a battere fortissimo. Il sudore freddo m'imperlò la nuca e le mani mi si gelarono.
Restò in attesa, pronto a intercettare la mia reazione.
«Questa non è una domanda», sussurrai infine.
Abbassò lo sguardo, l'ombra delle ciglia lunghissime gli calò sugli zi-gomi. Poi mi lasciò andare il volto e mi prese la mano sinistra, gelata. Mentre parlava giocherellava con le mie dita.
«Sono preoccupato del... perché la pensi così».
Provai a deglutire. «Nemmeno questa è una domanda», sussurrai.
«Per favore, Bella...».
«La verità?», domandai quasi senza voce.
«Certo. La accetterò comunque».
«Mi riderai in faccia».
Mi guardò negli occhi, scioccato. «Ridere di te? Non riesco neanche a immaginarlo».
«Vedrai», dissi sottovoce e presi coraggio. Il mio volto pallido si fece rosso di vergogna. «Bene, perfetto! Non pensare che sia uno scherzo, ti prego. Il fatto è che mi sento così... così... così imbarazzata!», ammisi e af-fondai di nuovo il viso nel suo petto.
«Non ti seguo», disse dopo una breve pausa.
Tirai indietro la testa e lo guardai torva, il disagio mi liberò la voce e mi rese agguerrita.
«Non sono quel tipo di ragazza, Edward. Quella che si sposa dopo il di-ploma, come una provincialotta messa incinta dal fidanzato. Sai cosa pen-serà la gente? Ti rendi conto in che secolo viviamo? Nessuno si sposa a di-ciott'anni! Almeno, non le persone intelligenti, responsabili e mature! Non voglio essere quel tipo di ragazza! Non sono così...», la mia voce perse vi-gore e si affievolì.
Edward meditò sulla risposta senza tradire alcuna emozione.
«È tutto?», chiese infine.
Sbattei gli occhi. «Non è abbastanza?».
«Non è che... desideri l'immortalità più di quanto non desideri me?».
Mi aspettavo che fosse lui a mettersi a ridere, invece fui io a scoppiare in risate isteriche.
«Edward!», ansimai, cercando di soffocare i singulti di riso. «E io... che avevo sempre pensato... che fossi... molto più intelligente di me!».
Mi abbracciò e sentii che anche lui stava ridendo.
«Edward», dissi sforzandomi di parlare più chiaramente, «non avrebbe senso diventare immortale senza te accanto. Non vorrei vivere nemmeno un giorno senza di te».
«Be', sono sollevato».
«Sì, ma... non cambia niente».
«È comunque bello capirsi. Comprendo il tuo punto di vista, Bella. Ma mi farebbe molto piacere se tu provassi a capire il mio».
Ormai non ero più agitata, perciò annuii e feci di tutto per cancellare ogni segno di nervosismo dal viso.
Mi fissò con i suoi occhi dorati e luminosi e m'ipnotizzò.
«Vedi, Bella, io sono sempre stato quel tipo di ragazzo. Nel mio mondo ero già un uomo. Non ero in cerca d'amore... no, ero troppo impaziente di arruolarmi: pensavo soltanto alla gloria idealizzata della guerra, quella che ci vendevano per convincerci a entrare nell'esercito. Ma se avessi trova-to...». S'interruppe e inclinò la testa. «Stavo per dire se avessi trovato un qualcuno, ma non lo dirò. Se avessi trovato te so come avrei agito, senza alcun dubbio. Io ero quel tipo di ragazzo che, non appena avesse scoperto che tu eri ciò che stava cercando, avrebbe chiesto la tua mano, in ginocchio. Ti avrei voluta ugualmente per l'eternità, anche se la parola non avrebbe avuto le stesse connotazioni di adesso».
Sfoderò il suo sorriso sghembo.
Lo fissai a occhi sgranati.
«Respira, Bella», mi disse sorridendo.
E obbedii.
«Riesci a vedere la cose dal mio punto di vista, Bella, almeno un po'?».
Per un secondo ci riuscii. Mi vidi con una gonna lunga, una camicetta di pizzo a collo alto e i capelli raccolti. Vidi Edward elegante, con indosso un abito chiaro e in mano un bouquet di fiori selvatici, seduto accanto a me su un dondolo, in un portico.
Scossi la testa e deglutii. Avevo appena avuto un flashback in stile Anna dai capelli rossi.
«Il fatto è che nella mia mente», dissi con voce tremante, eludendo la domanda, «matrimonio ed eternità non rappresentano concetti che sono legati o si escludono a vicenda. E finché vivremo nel mio mondo, forse, è bene che andiamo al passo con i tempi, se capisci cosa intendo».
«Ma d'altra parte», rispose, «presto ti lascerai per sempre alle spalle il tempo. Perciò, perché permettere che gli usi transitori di una cultura locale influiscano in questo modo sulla tua decisione?».
«Paese che vai...».
Scoppiò a ridere. «Non devi dire sì o no oggi, Bella. È bene che ciascuno capisca la posizione dell'altro, comunque, non credi?».
«Perciò la tua posizione...».
«È sempre la stessa. Capisco il tuo punto di vista, Bella, ma se vuoi che sia proprio io a trasformarti...».
«Tan-tan-taràn», canticchiai sottovoce, imitando la marcia nuziale. Ma mi uscì una specie di canto funebre.

Il tempo continuava a passare troppo in fretta.
Quella notte non sognai. Aprii gli occhi e mi trovai faccia a faccia con gli esami. Rimanevano pochi giorni, ormai, e sapevo che non ce l'avrei fatta a studiare neanche la metà delle cose che mi mancavano.
Quando scesi a fare colazione Charlie era già uscito. Alla vista del gior-nale, rimasto sul tavolo, ricordai che dovevo fare acquisti. Speravo che l'annuncio del concerto ci fosse ancora; avevo bisogno del numero di tele-fono con cui prenotare quegli stupidi biglietti. Non sembrava un gran rega-lo, ora che la sorpresa era saltata. Certo, provare a stupire Alice era un'idea tutt'altro che brillante.
Volevo iniziare a sfogliare il giornale al contrario, dalla sezione degli spettacoli, ma un titolo grande e in evidenza catturò la mia attenzione. Provai un brivido di paura quando lessi la cronaca in prima pagina.

MORTE E TERRORE A SEATTLE

Sono passati meno di dieci anni da quando la città di Seattle fu terreno di caccia del serial killer più sanguinario della storia degli Stati Uniti. Gary Ridgway, l'assassino del Green River, fu con-dannato per aver ucciso 48 donne.
Ora la città sotto assedio deve fare i conti con un altro probabile mostro, ancora più sanguinario del precedente.
La polizia non rivela se la recente ondata di omicidi e sparizioni è opera di un serial killer Non ancora, almeno. Gli inquirenti sten-tano a credere che la carneficina possa essere opera di una sola persona. L'assassino sarebbe infatti responsabile, nel corso degli ultimi tre mesi, di 39 fra omicidi e sparizioni correlati tra loro. I 48 crimini di Ridgway ebbero luogo nel corso di 21 anni. Se queste morti risalissero davvero a un solo assassino, avremmo a che fare con il criminale più feroce della storia degli Stati Uniti d'America.
La polizia presuppone che dietro tutto questo si celi l'attività di una gang. Tale teoria è supportata dall'alto numero dei morti e dal fatto che non sembra esserci un disegno preciso dietro alla scelta delle vittime.
Da Jack lo Squartatore a Ted Bundy, le vittime dei serial killer hanno sempre avuto caratteristiche comuni, come l'età, il sesso, la razza o combinazioni precise di questi tre dati. A Seattle sono morti tanto la quindicenne Amanda Reed, studentessa modello, quanto il postino in pensione Omar Jenks, 67 anni. Le vittime, in tutto 18 donne e 21 uomini, appartengono a razze diverse: cauca-sici, afroamericani, ispanici e asiatici. La scelta sembra casuale. E chi compie gli assassinii sembra farlo per il semplice gusto di uc-cidere, senza una ragione precisa.
Allora perché mai considerare l'idea di un serial killer? Perché il modus operandi è quasi sempre lo stesso. I corpi delle vittime sono sempre carbonizzati, e si è dovuti ricorrere alle impronte dentali per l'identificazione. Si ipotizza l'uso di certi tipi di combustibili, come la benzina o l'alcol; tuttavia, finora non ne è stata rilevata nessuna traccia. Tutti i cadaveri sono stati abbandonati senza il minimo tentativo di occultamento.
La maggior parte dei resti presenta segni evidenti di una violenza brutale - ossa spezzate da una pressione tremenda - che i medici ritengono sia avvenuta prima della morte. Ma allo stato delle cose, e date le condizioni delle vittime, queste conclusioni non sono certe. Un'altra caratteristica fa ipotizzare la presenza di un serial killer: tutti i crimini mancano di qualsiasi prova, a parte i resti stessi. Non un'impronta digitale, né segni di pneumatici; non si è ritrovato nemmeno un capello. Non sono stati rilevati tratti comuni nelle sparizioni.
E poi ci sono le vittime - tutt'altro che di basso profilo. Nessuna può essere considerata un bersaglio facile. Non si tratta di senza-tetto o di vagabondi, persone la cui scomparsa potrebbe passare inosservata. Le vittime spariscono dal lavoro, da un appartamento al quarantesimo piano, da un centro benessere, da una festa di ma-trimonio. Il caso più sbalorditivo è quello di un pugile dilettante, Robert Walsh, 30 anni, che è entrato in un cinema con la fidanzata; dopo pochi minuti dall'inizio del film la donna si è accorta che lui non era seduto al suo posto. Il corpo è stato ritrovato solo tre ore dopo, in un cassonetto che era stato dato alle fiamme, a trenta chilometri di distanza.
Negli assassinii c'è un altro dato comune: tutte le vittime scom-paiono di notte.
E la costante più inquietante? Il continuo incremento degli omici-di. Nel primo mese ne sono stati commessi 6, nel secondo 11. Ne-gli ultimi dieci giorni ne sono stati compiuti 22. E la polizia non è più vicina a scoprire i responsabili di quanto non lo fosse quando ha scoperto il primo corpo carbonizzato.
Le prove sono contraddittorie, i ritrovamenti raccapriccianti. Una nuova banda di delinquenti o solo un feroce serial killer? Oppure qualcos'altro, che gli inquirenti non hanno ancora preso in consi-derazione?
Solo una cosa è certa: a Seattle qualcosa di tremendo è in agguato.

Fui costretta a rileggere ben tre volte l'ultima frase, poi capii che non ci riuscivo perché mi tremavano le mani.
«Bella?».
Concentrata com'ero, la voce di Edward mi fece trasalire e voltare di scatto.
Stava appoggiato alla porta, accigliato.
Poi mi venne accanto e mi prese la mano.
«Ti ho spaventata? Scusa. Ho bussato...».
«No, no», dissi subito. «Hai visto?». Gli indicai il giornale.
Fece un'espressione preoccupata.
«Non ho ancora visto il telegiornale, oggi. Ma sapevo che le cose stavano peggiorando. Dobbiamo fare qualcosa... in fretta».
Era una situazione terribile. Non sopportavo che qualcuno di loro cor-resse dei rischi, e chiunque, o qualunque cosa, si stesse aggirando per Seat-tle iniziava davvero a farmi paura. Ma l'idea che i Volturi stessero per arri-vare era altrettanto spaventosa.
«Alice ha visto qualcosa?».
«Questo è il problema». La sua preoccupazione aumentò. «Non riesce a vedere niente... nonostante le abbiamo chiesto più volte di concentrarsi. Sta iniziando a perdere fiducia in se stessa. Sente che le stanno sfuggendo troppe cose in questi giorni, che c'è qualcosa che non va. Che forse sta perdendo le sue facoltà di veggente».
Avevo gli occhi spalancati. «Può succedere?».
«Chi lo sa? Nessuno ci ha mai studiati a fondo... ma ne dubito. Certe doti tendono ad affinarsi con il tempo. Prendi ad esempio Aro e Jane».
«E allora cosa c'è che non va?».
«È come un circolo vizioso. Per agire aspettiamo che Alice veda qualco-sa... e lei non vede niente perché in realtà non facciamo nulla fino a che lei non vede. Così lei non riesce a vedere cosa facciamo. Forse dovremmo agire alla cieca».
Rabbrividii. «No».
«Hai davvero voglia di andare a scuola oggi? Mancano solo pochi giorni agli esami, non diranno niente di nuovo».
«Credo di resistere un giorno senza scuola. Cosa facciamo?».
«Voglio parlare con Jasper».
Jasper, di nuovo. Che strano. Nella famiglia Cullen, Jasper restava sempre ai margini, prendeva parte a tutto senza essere mai al centro di nulla. La mia ipotesi inespressa era che restasse con loro soltanto per Alice. Pensavo che l'avrebbe seguita dappertutto, malgrado quello stile di vita non fosse il suo preferito. Probabilmente era poco coinvolto dagli altri e ciò gli impediva di stare al loro passo.
Comunque fosse, non avevo mai visto Edward dipendere da lui. Mi chiesi di nuovo cos'avesse voluto dire quando aveva parlato delle sue competenze. Di Jasper sapevo soltanto che, prima di essere rintracciato da Alice, viveva al Sud. Per qualche ragione Edward aveva sempre eluso le mie domande sull'ultimo arrivato dei suoi fratelli. E io ero sempre stata in-timidita da quel vampiro alto e biondo, che somigliava a un attore tenebro-so, per fargli domande più precise.
Quando arrivammo a casa trovammo Carlisle, Esme e Jasper concentrati sul telegiornale, ma il volume era così basso che non sentivo nulla. Alice era accovacciata sull'ultimo gradino della scala, con il volto tra le mani e un'espressione di sconforto. Mentre entravamo, Emmett arrivò dalla cucina, completamente a suo agio. Emmett non si spaventava di fronte a nulla.
«Ciao, Edward. Bella, hai marinato la scuola?», mi disse sogghignando.
«Lo abbiamo fatto entrambi», gli fece notare Edward.
Emmett rise. «Sì, ma per lei è la prima volta. Magari si è persa qualcosa di importante».
Edward alzò gli occhi al cielo, ma per il resto ignorò il fratello preferito. Lanciò il giornale a Carlisle.
«Avete visto? Adesso pensano che sia un serial killer», disse.
Carlisle fece un sospiro. «Alla CNN c'erano due esperti che per tutta la mattina non hanno parlato d'altro».
«Non possiamo permettere che questa storia continui».
«Allora facciamo qualcosa», disse Emmett con un entusiasmo improvvi-so. «Mi annoio a morte».
Qualcuno dal piano di sopra sibilò qualcosa, che riecheggiò dalle scale.
«È proprio una pessimista», borbottò Emmett.
Edward era d'accordo con lui. «Prima o poi dovremo entrare in azione».
Rosalie apparve in cima alle scale e le scese lentamente, con volto neutro, inespressivo.
Carlisle scosse la testa. «Sono preoccupato. Non ci siamo mai intromessi in situazioni del genere prima d'ora. Non sono affari nostri. Non siamo i Volturi».
«Non voglio che i Volturi siano costretti a intervenire», disse Edward. «Non avremmo abbastanza tempo per reagire».
«E tutti quegli umani indifesi a Seattle», mormorò Esme. «Non è giusto lasciarli morire così».
«Ah», esclamò Edward all'improvviso, voltando leggermente la testa per guardare Jasper in faccia. «Non ci avevo proprio pensato. Me ne rendo conto adesso. Hai ragione, davvero. Be', questo cambia tutto».
Non ero l'unica che lo guardava confusa, ma probabilmente ero l'unica a non avere l'aria leggermente annoiata.
«Forse è meglio se spieghi anche agli altri come stanno le cose», disse Edward a Jasper. «Quale potrebbe essere il loro fine?», domandò, e si mise a camminare su e giù, fissando il pavimento, perso nei suoi pensieri.
Non mi ero accorta che si era alzata, ma Alice ora era lì, accanto a me.
«Cosa sta farneticando?», chiese a Jasper. «E tu cosa pensi?».
Jasper non sembrava apprezzare tutta quell'attenzione. Incerto, ci guardò in faccia uno a uno - perché tutti gli si erano avvicinati, curiosi di sapere cos'avesse da dire. I suoi occhi si fermarono su di me.
«Sei turbata», mi disse, con la sua voce profonda ma calma.
Non era una domanda. Jasper conosceva il mio umore.
«Siamo tutti turbati», borbottò Emmett.
«Devi sforzarti di essere paziente», gli disse Jasper. «Anche Bella deve capire cosa succede. È una dei nostri, adesso».
Le sue parole mi colsero di sorpresa. Per quel poco che avevo avuto a che fare con lui, specialmente dopo il mio ultimo compleanno, non mi ero accorta che pensasse a me in questi termini.
«Cosa sai di me, Bella?», domandò.
Emmett fece un sospiro teatrale e sprofondò nel divano con estrema im-pazienza.
«Non molto», ammisi.
Jasper fissò Edward, che alzò gli occhi per incrociare i suoi.
«No», Edward rispose alla domanda che l'altro aveva solo pensato. «Tu stesso sai perché non gliel'ho mai raccontato. Ma credo che a questo punto ne valga la pena».
Jasper annuì pensieroso e si rimboccò le maniche del maglione color a-vorio.
Lo guardai, attenta e confusa, cercando di capire cosa stesse facendo. Avvicinò il polso al cono di luce della lampadina che gli stava accanto, con un dito seguì il contorno di un segno evidente sulla pelle diafana.
Mi bastò un istante per capire perché quella forma mi fosse stranamente familiare.
«Ah», sussurrai. «Jasper, hai una cicatrice identica alla mia».
Stesi la mano e la mezzaluna argentea apparve più nitida sulla mia pelle più scura della sua, marmorea.
Jasper sorrise appena. «Ho parecchie cicatrici come questa, Bella».
Fu impossibile leggere la sua espressione mentre sollevava la manica del maglione leggero. In un primo momento non riuscii a distinguere l'intreccio fitto, spesso, che sembrava ricoprirne la pelle. Era un motivo a curve, bianco su bianco, visibile soltanto perché l'intensa luminescenza della lampada lo metteva in rilievo. Deboli ombre ne delineavano la forma. Solo a quel punto capii che era composto da tante mezzelune simili a quella sul polso... e sulla mia mano.
Riportai lo sguardo sulla mia unica, piccola cicatrice solitaria e ricordai come me l'ero procurata. Fissai la forma dei denti di James, impressi per sempre nella mia pelle.
E poi ansimai, fissandolo. «Jasper, che ti è successo?».

13
Neonati

«La stessa cosa che è successa alla tua mano», rispose Jasper, calmo. «Per migliaia di volte». Si strofinò il braccio e sorrise, con un velo di com-passione. «Soltanto il nostro veleno riesce a lasciare cicatrici su di noi».
«Perché?», sussurrai terrorizzata. Mi vergognai della mia mancanza di tatto, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quella devastazione.
«Non ho avuto la stessa... formazione dei miei fratelli adottivi. Ho ini-ziato in maniera completamente diversa». Il suo tono di voce s'indurì sul finale della frase.
Restai a bocca aperta, sconvolta.
«Prima che ti racconti la mia storia, Bella, devi sapere che in certi luoghi del mondo la nostra vita di immortali dura settimane, non secoli».
Gli altri conoscevano la sua storia. Carlisle ed Emmett tornarono alla TV. Alice andò a sedersi ai piedi di Esme. Edward invece era interessato quanto me; avevo i suoi occhi addosso, li sentivo cogliere ogni mio barlume di emozione.
«Per capire veramente, devi guardare il mondo da un'altra prospettiva. Devi provare a immaginare come lo vede chi ha potere, chi non è mai sod-disfatto ed è mosso da un'ingordigia frenetica. Vedi, ci sono dei posti in questo mondo dove a noi vampiri piace vivere più che in altri. Posti in cui passiamo inosservati, dove nessuno si accorge che esistiamo. Per esempio, immagina la cartina dell'emisfero occidentale. Per ogni abitante umano, di-segna un puntino rosso. Quanto più è fitto il rosso, tanto più noi - o meglio, quelli di noi che hanno certe abitudini - riusciamo a nutrirci senza dare nell'occhio».
Cercai di visualizzare quel che stava dicendo e, al sentirlo pronunciare la parola «nutrirci» provai un brivido di terrore.
Jasper non voleva spaventarmi, ma non era iperprotettivo come Edward. Proseguì imperterrito.
«Al Sud in realtà non badano granché ai sospetti degli umani. L'unico vero spauracchio dei clan sono i Volturi. È soltanto merito loro se la nostra presenza passa ancora inosservata».
Non riuscivo a pensare che si potesse pronunciare quel nome con rispetto e gratitudine. Non accettavo l'idea che i Volturi fossero considerati i buoni per antonomasia.
«Il Nord al confronto è molto civilizzato. Nella maggior parte dei casi viviamo come nomadi, ci spostiamo di giorno e di notte, interagiamo con gli umani senza destare sospetti. Per tutti noi l'anonimato è assai importante. Il Sud è davvero un altro mondo. Gli immortali là escono soltanto di notte. Passano le giornate a pianificare i propri spostamenti o ad anticipare quelli dei nemici. Questo perché il Sud è stato devastato da guerre continue, per secoli, senza un attimo di tregua. Là i clan notano appena la presenza degli umani. Proprio come i soldati, che avvertono la presenza di una mandria di buoi lungo la strada soltanto quando hanno fame. Si nascondono solo per non irritare i Volturi».
«Ma per cosa combattono?», domandai.
Jasper sorrise. «Hai presente la cartina con i puntini rossi?».
Annuii.
«Combattono per il controllo delle zone più rosse. Vedi, in passato se eri l'unico vampiro, per esempio, di Città del Messico, potevi mangiare tutte le notti, due o tre volte, senza che nessuno si accorgesse della tua presenza. Avevi le tue zone, le perlustravi ed evitavi la competizione. Molti si com-portavano così. Altri studiavano tattiche più efficaci. Quella più efficace in assoluto fu escogitata da un giovane vampiro di nome Benito. Veniva da una zona a nord di Dallas, e iniziò con il massacro di due piccoli clan che si spartivano l'area vicino a Houston. Due notti più tardi attaccò un clan più forte, di Monterrey, nel Messico settentrionale. E vinse di nuovo».
«E come?», chiesi, curiosa e stupita.
«Benito aveva creato un esercito di nuovi vampiri. Fu il primo a pensarci e nessuno riuscì a fermarlo. I vampiri appena nati sono incostanti, sfrenati, praticamente incontrollabili. Con uno magari si può ragionare, se gli si insegna a trattenersi, ma dieci, quindici insieme sono un incubo. Si at-taccano a vicenda, se non hanno un nemico preciso. Benito ha avuto il suo bel da fare a tenerli buoni mentre quelli coglievano l'occasione per attac-carsi l'un l'altro. Inoltre i clan che ha decimato gli sono costati parecchio: prima di soccombere gli hanno dimezzato l'esercito. Vedi, nonostante i ne-onati siano pericolosi, se sai come agire riesci a sconfiggerli. Dal punto di vista fisico, fino a circa un anno di vita sono incredibilmente forti. Se gli si permette di scatenare tutta la loro potenza riescono ad annientare un vam-piro più anziano senza grandi sforzi. Ma sono preda degli istinti, perciò di-vengono prevedibili. Di solito non sono fini combattenti, hanno solo mu-scoli e ferocia. Nel caso di Benito, però, erano in tanti. I vampiri del Mes-sico meridionale capirono cosa stava succedendo e fecero l'unica mossa possibile per opporsi a Benito. Anche loro crearono degli eserciti... Si sca-tenò un inferno, nel senso più letterale del termine. Anche noi immortali abbiamo la nostra storiografia e questa guerra non la scorderemo mai. Senza dubbio quello non è stato affatto un bel periodo per gli umani, in Messico».
Rabbrividii.
«Quando il numero dei morti raggiunse proporzioni epidemiche - la vo-stra storiografia attribuisce il calo demografico proprio a una pandemia - i Volturi entrarono in azione. L'intera guardia si riunì e scovò ogni neonato immediatamente a sud degli Stati Uniti. Benito si era trincerato a Puebla e aveva ricostruito il proprio esercito più in fretta possibile, per poi tentare l'attacco definitivo a Città del Messico. I Volturi iniziarono da lui, poi pen-sarono al resto, giustiziando all'istante chiunque venisse trovato in compa-gnia di neonati e, siccome tutti ne avevano creati per proteggersi da Benito, per un po' i vampiri sparirono dal Messico. I Volturi impiegarono quasi un anno per fare piazza pulita. Questo è un altro dei capitoli della nostra storia che sarà ricordato per sempre, sebbene siano sopravvissuti ben pochi testimoni diretti. Una volta ho parlato con un vampiro che aveva visto da una certa distanza cosa successe a Culiacàn».
Jasper rabbrividì. Non lo avevo mai visto spaventato, né scosso prima d'allora.
«Per fortuna la febbre della conquista non si diffuse. Il resto del mondo non venne coinvolto. Se oggi possiamo condurre delle vite normali, lo dobbiamo ai Volturi. Quando però i Volturi tornarono in Italia, i clan del Sud ripresero subito possesso del territorio e in breve ricominciarono a scontrarsi. Tra loro correva davvero cattivo sangue, se mi permetti l'e-spressione. Le faide non si contavano più. Ormai l'idea di sfruttare la forza dei neonati era stata messa in atto e qualcuno non riuscì a resistere alla ten-tazione. Nessuno dimenticò i Volturi, però, e i clan del Sud fecero più at-tenzione. Gli umani da trasformare venivano scelti con scrupolo e allenati meglio. Li si utilizzava con circospezione, senza che la gente normale si accorgesse di nulla. I clan non diedero ai Volturi pretesti per tornare. Le guerre ripresero, ma su scala ridotta. Ogni tanto qualcuno esagerava, sui giornali si iniziavano a fare congetture e i Volturi tornavano a ripulire la città. Ma gli altri, quelli che agivano con cautela, avevano campo libero...».
Jasper fissava il vuoto.
«Ecco come hai subito la trasformazione», sussurrai.
«Sì», disse. «Da umano vivevo a Houston, in Texas. Mi arruolai nell'E-sercito Confederato a quasi diciassette anni, era il 1861. All'ufficio reclute mentii, dichiarando di avere vent'anni. La mia altezza glielo fece credere. La mia carriera militare fu breve, ma assai promettente. Sono sempre... piaciuto alla gente, tutti mi stavano ad ascoltare. Secondo mio padre avevo carisma. Ora so per certo che era qualcosa di più. Comunque, feci carriera in fretta, scavalcai anche gente più anziana ed esperta. L'Esercito Confederato esisteva da poco, si stava organizzando e offriva un sacco di opportunità. Durante la prima battaglia di Galveston - be', in realtà fu poco più che una scaramuccia - ero il maggiore più giovane del Texas, malgrado avessi ritoccato la mia età. Ero stato incaricato di evacuare le donne e i bambini dalla città non appena le navi da guerra unioniste avessero raggiunto il por-to. Mi ci volle un giorno per prepararli, poi partii con la prima colonna di civili alla volta di Houston.
Ricordo esattamente quella notte. Raggiungemmo la città al calare del buio. Rimasi giusto il tempo necessario per assicurarmi che tutto il gruppo fosse in salvo. Non appena ne ebbi la certezza, presi un altro cavallo, più riposato, e tornai a Galveston. Non avevo tempo per dormire. A forse un chilometro dalla città incontrai tre donne. Erano a piedi, pensai che fossero rimaste indietro e scesi da cavallo per aiutarle. Non appena vidi i loro volti alla luce fioca della luna, mi si bloccò la voce in gola. Erano le donne più belle che avessi mai visto, senza dubbio. Avevano la pelle chiarissima, ri-cordo che ne rimasi incantato. Una di loro era piccola e mora, con i tratti tipici messicani, ma alla luce della luna sembrava anche lei di porcellana. Erano giovani, tutte, appena ragazze. Sapevo che non facevano parte del nostro gruppo, vedendole me ne sarei ricordato.
"È rimasto senza parole", disse la più alta, con una voce dolcissima e de-licata, armoniosa come quella del vento. Aveva i capelli chiari e la pelle bianca come la neve. L'altra era ancora più bionda, con la pelle di gesso e il viso di un angelo. Mi si avvicinò con gli occhi socchiusi e inspirò a fondo.
"Mmm, delizioso", sospirò.
La più piccola, la bruna graziosa, mise la mano sul braccio dell'amica e parlò in fretta. La sua voce era troppo calma e intonata per risultare ta-gliente, ma lei sembrava voler dare quell'impressione. Disse: "Concentrati, Nettie". Ho sempre avuto occhio per le relazioni tra le persone e mi fu su-bito chiaro che la bruna era in qualche modo un gradino più su delle altre due. Se fossero state soldati, avrebbe avuto il grado più alto.
"Sembra a posto: giovane, forte, un ufficiale...". La bruna s'interruppe e provai a dire qualcosa senza riuscirci. "E c'è anche dell'altro... lo sentite?", chiese alle altre due. "È... irresistibile". Nettie fu subito d'accordo, e mi si avvicinò di nuovo. La bruna le ordinò di restare calma e aggiunse: "Voglio tenerlo". Nettie s'accigliò, apparentemente annoiata.
La ragazza alta e bionda disse: "È meglio se ci pensi tu, Maria, se per te è importante. Io ne uccido il doppio di quelli che riesco a tenere in vita".
Maria confermò. "Sì, ci penso io. Questo mi piace proprio. Porta via Nettie, d'accordo? Non voglio dovermi guardare alle spalle mentre mi con-centro". Sebbene non capissi il senso del dialogo, mi si drizzarono i capelli in testa. L'istinto mi diceva che ero in pericolo, che quell'angelo faceva sul serio quando parlava di uccidere, ma il buon senso ebbe il sopravvento. Non mi avevano insegnato a temere le donne, ma a proteggerle.
"Andiamo a caccia, allora", Nettie approvò con entusiasmo e prese per mano la ragazza più alta. Fecero una giravolta - aggraziatissime - e corsero via in direzione della città. Sembrava quasi che non toccassero terra tanto erano veloci; i loro abiti bianchi si gonfiavano come ali. Sbattei gli occhi, meravigliato, e le vidi scomparire. Rivolsi di nuovo lo sguardo verso Maria, che mi stava osservando incuriosita. Non ero mai stato superstizioso. Fino a quel momento non avevo mai creduto ai fantasmi né ad altre sciocchezze del genere. All'improvviso, persi ogni sicurezza.
"Come ti chiami, soldato?", mi chiese.
"Maggiore Jasper Whitlock, signorina", farfugliai, incapace di mancare di rispetto a una donna, anche se fantasma.
"Spero proprio che tu sopravviva", disse, con voce gentile. "Ho come l'impressione che ne valga la pena". Fece un passo avanti e inclinò la testa di lato, come se stesse per baciarmi. Restai fermo, pietrificato, nonostante l'istinto mi urlasse di scappare».
Jasper s'interruppe pensieroso. «Un paio di giorni dopo», disse, e non so se saltò dei passaggi per proteggermi o in risposta alla tensione di Edward, «fui introdotto alla mia nuova vita. Si chiamavano Maria, Nettie e Lucy. Non stavano insieme da molto tempo: Maria aveva preso con sé le altre dopo che erano sopravvissute a certe battaglie perse. La loro era un'unione di convenienza. Maria cercava vendetta, rivoleva indietro i suoi territori. Le altre invece erano desiderose di ampliare i propri... pascoli. Stavano mettendo su un esercito con maggiore attenzione del solito. Era un'idea di Maria. Voleva un'armata fortissima, perciò sceglieva con cura soltanto umani con un potenziale preciso. Ci dedicò più attenzione e più tempo di quanto non avesse mai fatto nessuno. Ci insegnò a combattere e a renderci invisibili agli umani. Quando ci comportavamo bene, ci ricompensava...».
Fece una pausa, saltando di nuovo dei passaggi.
«Aveva fretta, però. Maria sapeva che l'enorme forza dei neonati iniziava a scemare al compimento del primo anno e voleva agire nel pieno delle nostre forze. Quando mi unii alla banda eravamo in sei. In un paio di set-timane ne arruolò altri quattro. Eravamo tutti uomini - Maria cercava dei soldati - e le fu difficile impedirci di lottare tra noi. Ingaggiai le prime schermaglie contro i miei nuovi commilitoni. Ero più rapido degli altri, più abile nei duelli. Maria era contenta di me, sebbene dovesse sempre rim-piazzare quelli che facevo fuori. Venivo ricompensato spesso, e ciò mi dava una forza incredibile. Maria sapeva inquadrare le persone. Decise di mettermi a capo degli altri, in pratica mi dette una promozione. Proprio ciò di cui avevo bisogno. Le perdite diminuirono in un batter d'occhio e cre-scemmo di numero, fino a raggiungere la ventina. Era un numero conside-revole, visti i tempi che correvano. Ancora non mi era chiaro, ma ero molto abile a controllare l'emotività di chi mi stava attorno. Iniziammo presto a collaborare in maniera inaudita per i neonati. Anche Maria, Nettie e Lucy lavoravano insieme più volentieri. Maria iniziò a stravedere per me, a di-pendere da me. E, in un certo senso, anche io le ero devoto. Non pensavo che si potesse vivere in altro modo. Maria diceva che le cose funzionavano così, e noi ci credevamo. Mi chiese di avvertirla quando io e i miei fratelli fossimo stati in grado di scendere sul campo di battaglia, e io ero ansioso di mettermi alla prova. Alla fine mi ritrovai a capo di un esercito di ventitré elementi: ventitré giovani vampiri incredibilmente forti, organizzati e allenati come mai in precedenza. Maria era al settimo cielo. Scendemmo verso Monterrey, la sua vecchia città, e ci scatenò contro i suoi nemici. Quelli disponevano di soli nove neonati e un paio di vampiri più esperti a controllarli. Li sterminammo con maggiore facilità di quanto Maria avesse immaginato, perdendo solo quattro uomini in battaglia. Vincemmo con uno scarto incredibile. Eravamo davvero bene allenati. Li sconfiggemmo senza attirare l'attenzione. Prendemmo il controllo della città senza che nessun umano se ne accorgesse. Ma con il successo Maria divenne avida. Presto buttò l'occhio su altre città. In un anno estese il suo potere fino a gran parte del Texas e del Messico settentrionale. Poi vennero altri vampiri da sud e la respinsero».
Sfiorò con due dita i labili segni delle sue ferite.
«La battaglia fu violentissima. Molti pensavano che i Volturi sarebbero tornati. Nel giro di diciotto mesi, tutti e ventitré i vampiri originali del no-stro esercito morirono, tranne me. A volte vincevamo, altre perdevamo. Alla fine Nettie e Lucy si rivoltarono contro me e Maria e quella volta vincemmo noi. Riuscimmo a difendere Monterrey. La situazione si era calmata, ma la guerra continuava. La voglia di conquista si era spenta, ormai si lottava per vendetta e per il puro piacere di combattere. In tanti avevano perduto i propri compagni, e questa è una cosa che la nostra razza non perdona... Maria e io tenevamo sempre pronta una dozzina di neonati. Non avevano granché importanza per noi: erano pedine, strumenti usa e getta. Quando non ci servivano più, li buttavamo. La mia vita continuò nello stesso modo violento e gli anni passarono. Ero stanco di tutto questo, lo fui per un bel po', prima che le cose cambiassero...
Decenni più tardi feci amicizia con un neonato che si era dimostrato molto utile e contro ogni pronostico era sopravvissuto per ben tre anni. Si chiamava Peter. Peter mi piaceva; era... civile, credo che sia la parola giusta. Non provava piacere nel combattere, benché fosse davvero bravo. Gli venne affidato il compito di prendersi cura dei neonati, di fare da babysitter, per così dire. Era un lavoro a tempo pieno. Però, fu di nuovo necessaria un'epurazione. I neonati, con il tempo, si indebolivano e dovemmo rimpiazzarli. Peter mi aiutò a sbarazzarmene. Li prendevamo in disparte, uno alla volta... Erano sempre nottate lunghissime. Una volta provò a convincermi che alcuni avevano un certo potenziale, ma Maria aveva dato istruzioni affinché ci liberassimo di loro. Gli risposi di no. Eravamo a metà dell'opera e sentivo che per Peter era un grande sacrificio. Ero sul punto di allontanarlo e finire il lavoro da solo, e chiamai un altro neonato da uccidere. Con mia sorpresa, Peter andò improvvisamente su tutte le furie. Mi preparai alla sua reazione, qualunque fosse - era un ottimo combattente, ma con me non aveva chance. La prescelta era una donna, aveva appena superato l'anno di esistenza. Si chiamava Charlotte. Quando la vide, Peter cambiò umore e si tradì. Le gridò di scappare e corse via con lei. Avrei potuto inseguirli, ma non lo feci. Sentivo... di non volerlo distruggere. Maria si arrabbiò molto con me...
Cinque anni più tardi Peter tornò a cercarmi di nascosto. Scelse davvero il giorno giusto. Maria era perplessa di fronte al peggiorare del mio stato d'animo. A lei non era mai capitato di sentirsi depressa, a me sì e non capivo perché. Iniziai a notare un cambiamento nelle sue emozioni quando era vicino a me: a volte paura... o rancore, gli stessi sentimenti che mi avevano fatto intuire che Nettie e Lucy ci avrebbero attaccati. Ero pronto a distrug-gere la mia unica alleata, il centro della mia esistenza, quando Peter tornò e mi raccontò della sua nuova vita con Charlotte, mi parlò di alternative che nemmeno mi sognavo. Non combattevano da cinque anni, nonostante a-vessero incontrato molti di noi su al Nord. Altri con i quali coesistere in tutta tranquillità. Una chiacchierata bastò a convincermi. Mi sentivo pronto ad andarmene, e in qualche modo sollevato perché non sarei stato costretto a uccidere Maria. Avevamo vissuto insieme per tanto tempo, quasi gli stessi anni di Edward e Carlisle, ma il nostro legame non fu mai altrettanto forte. Quando vivi per combattere, per il sangue, le relazioni che stringi sono fragili e facili a rompersi. Me ne andai senza rimpianti.
Viaggiai con Peter e Charlotte per un paio d'anni, godendomi questo nuovo mondo senza lotte. Ma il senso di depressione non mi abbandonò. Non capivo quale fosse il problema, fino a che Peter non si accorse che, dopo aver cacciato, stavo sempre peggio. Ci pensai su. Anni di battaglie e carneficine mi avevano quasi privato della mia umanità. Ero diventato un incubo, un mostro dei più orribili. Tuttavia, ogni volta che trovavo una nuova vittima umana, un barlume di memoria della mia vita passata si ri-svegliava. Nello stupore che provavano davanti alla mia bellezza rivedevo Maria e le altre con gli occhi con cui le vidi nell'ultima notte di Jasper Whitlock. Quella memoria traslata era più forte per me che per ogni altro vampiro, perché potevo sentire ciò che sentiva la mia preda. Persino mentre la uccidevo. Hai visto come riesco a manipolare le emozioni di chi mi è vicino, Bella, ma non ti rendi conto di come quelle stesse sensazioni si ri-percuotano su di me. Ogni giorno vi sono immerso. Trascorsi il primo se-colo della mia vita in un mondo di vendette sanguinarie. L'odio era il mio compagno di vita. La situazione migliorò un po' quando lasciai Maria, ma continuavo a provare l'orrore e la paura delle mie prede. La situazione di-venne insopportabile. La depressione peggiorò, e abbandonai anche Peter e Charlotte. La loro educazione li proteggeva dal disgusto che sentivo io. A loro bastava rimanere lontani dalla guerra. Io ero stanco di uccidere: di uc-cidere in generale, anche solo gli umani. Eppure ero condannato a farlo. Avevo scelta? Provai a trattenermi, ma così non facevo che aumentare la mia sete e cedere a istinti peggiori. Dopo un secolo di gratificazioni imme-diate, l'autodisciplina era una sfida... complicata. Ancora oggi ho qualche problema».
Jasper era preso dalla sua storia, proprio come me. Mi sorprese che la sua espressione desolata sfociasse in un sorriso pacifico.
«Ero a Filadelfia. Nel mezzo di una tormenta, fuori casa, di giorno: una situazione in cui non mi sentivo affatto a mio agio. Sapevo che se fossi re-stato fermo sotto la pioggia avrei attirato l'attenzione, così m'infilai in una bettola semideserta. I miei occhi erano abbastanza scuri, nessuno li avrebbe notati. Ma ciò voleva anche dire che avevo voglia di sangue, e non ero tranquillo. Lei era là... ad aspettarmi, ovviamente», ridacchiò. «Saltò giù dallo sgabello vicino al bancone non appena entrai nel locale e si diresse verso di me sorprendendomi. Sembrava che volesse attaccarmi. Era l'unica interpretazione possibile, visto il mio passato. Ma sorrideva. E le emozioni che stava provando non le avevo mai sentite prima.
"Mi hai fatto aspettare parecchio", disse».
Non mi ero accorta che Alice mi si era avvicinata di nuovo.
«Tu hai chinato la testa, da bravo gentiluomo del Sud, e hai risposto: "Mi dispiace, signorina"». Alice rise al ricordo.
Jasper ricambiò il sorriso. «Mi offristi la mano e la presi senza chiedermi il senso di ciò che stavo facendo. Per la prima volta in almeno un secolo sentii nascere la speranza».
Jasper prese la mano di Alice.
Lei rispose sorridendo. «Ero davvero sollevata. Temevo che non saresti arrivato mai».
Si guardarono negli occhi, felici, e quando Jasper si rivolse a me aveva ancora sul volto quell'espressione beata.
«Alice mi spiegò di avere incontrato Carlisle e la sua famiglia. Stentavo a credere che si potesse vivere così. Ma mi fece ben sperare. E andammo a cercarli».
«Anche loro si sono presi una bella paura», disse Edward, alzando gli occhi. Poi rivolse lo sguardo verso di me e aggiunse: «Io ed Emmett era-vamo fuori a caccia. Jasper si presentò coperto di ferite di battaglia, por-tandosi dietro questo mostriciattolo», e per gioco dette una gomitata ad A-lice, «che salutò tutti chiamandoli per nome e chiese subito di mostrarle la sua stanza».
Alice e Jasper risero in coro, soprano e basso.
«Quando tornai a casa, trovai tutte le mie cose in garage», aggiunse E-dward.
Alice si strinse nelle spalle. «La tua stanza era quella con la vista miglio-re».
Risero tutti insieme.
«È una bella storia», dissi.
Tre paia di occhi controllarono che non fossi impazzita.
«Intendo l'ultima parte», mi difesi. «Il lieto fine con Alice».
«Alice ha fatto la differenza», confermò Jasper. «Qui il clima è salutare per me».
Ma quel momento di sollievo fu solo un intervallo.
«Un esercito», sussurrò Alice. «Perché non me l'hai detto?».
Gli altri erano di nuovo assorti, concentrati su Jasper.
«Ho pensato che stessi interpretando gli indizi in modo sbagliato. In fondo, qual è il motivo? Perché qualcuno dovrebbe creare un esercito a Se-attle? Non ci sono precedenti qui, non ci sono faide. Non ha senso neanche dal punto di vista territoriale; nessuno rivendica niente da queste parti. Qualche gruppo nomade passa di qui ogni tanto, ma non c'è nessuno che lotta per questo territorio. Nessuno da cui difenderlo. Mi è già capitato di vedere una situazione del genere. E non c'è altra spiegazione. A Seattle c'è un esercito di vampiri appena nati. Meno di venti, direi. Il problema è che non sono affatto allenati. Chiunque sia stato a trasformarli, li ha soltanto i-stigati. La situazione peggiorerà di sicuro. E i Volturi interverranno presto. A dire la verità, sono sorpreso che aspettino tanto».
«Che possiamo fare?», chiese Carlisle.
«Se vogliamo evitare di coinvolgere i Volturi dobbiamo eliminare i neo-nati, e dobbiamo farlo subito». L'espressione di Jasper era dura. Ora che conoscevo la sua storia capivo quanto potesse sentirsi turbato. «Vi inse-gnerò come. Non sarà semplice agire in città. Ai neonati non importa fare le cose di nascosto, a noi sì. Questo ci imporrà dei limiti che loro non hanno. Forse possiamo attirarli con un'esca».
«Forse non ce ne sarà bisogno». La voce di Edward si fece cupa. «Non viene in mente a nessuno che in questa zona l'unica minaccia che potrebbe spingere qualcuno a creare un esercito... siamo noi?».
Jasper serrò gli occhi, mentre Carlisle li spalancò, scioccato.
«Qui vicino c'è anche la famiglia di Tanya», disse Esme, piano, come se non volesse accettare le parole di Edward.
«I neonati non stanno devastando l'Alaska, Esme. Dobbiamo prendere in considerazione l'idea che noi potremmo essere l'obiettivo».
«Non ci stanno cercando», insistette Alice. «O forse... non lo sanno. Non ancora».
«Che c'è?», chiese Edward, curioso e agitato. «A cosa stai pensando?».
«Barlumi», disse Alice. «Quando cerco di capire cosa sta succedendo, non riesco ad avere un quadro preciso, niente in concreto. Ma sto avendo queste visioni fulminee. Che non sono sufficienti a darmi un'idea precisa. È come se qualcuno stesse cambiando opinione, e passasse da una serie di azioni a un'altra così in fretta da non concedermi una percezione chiara...».
«Indecisione?», chiese Jasper incredulo.
«Non lo so...».
«Non sono indecisi», borbottò Edward. «Lo sanno. O almeno qualcuno sa che non avrai una premonizione chiara finché non prenderanno una de-cisione. È qualcuno che ci vuole evitare. Sta giocando con i buchi nelle tue visioni».
«Chi potrebbe saperlo?», sussurrò Alice.
Gli occhi di Edward erano freddi come il ghiaccio. «Aro ti conosce alla perfezione».
«Ma se avesse deciso di venire lo vedrei...».
«Forse non vuole sporcarsi le mani».
«Magari è un favore», suggerì Rosalie, parlando per la prima volta. «Qualcuno del Sud... che ha già avuto problemi con la legge. Qualcuno che avrebbe già dovuto soccombere sta approfittando di una seconda op-portunità, a patto che si occupi della faccenda... Questo spiegherebbe il ri-tardo nella reazione dei Volturi».
«Perché?», chiese Carlisle, ancora sotto shock. «Non vedo perché i Vol-turi...».
«Io l'ho visto». Edward espresse il suo disaccordo con calma. «Sono sorpreso che tutto sia avvenuto così in fretta, perché c'erano altri pensieri più forti. Aro vedeva me e Alice al suo fianco. Il presente e il futuro, l'on-niscienza virtuale. È rimasto ossessionato da un'idea così seducente. Non pensavo che l'avrebbe abbandonata presto, la desiderava troppo. Eppure, può darsi che a prevalere sia stato il pensiero di te, Carlisle, della nostra famiglia che cresce e si rafforza. Gelosia e paura, non perché possiedi più di quanto abbia lui, ma perché hai già ciò che lui desidera. Cercava di non pensarci, ma non è riuscito a reprimerlo del tutto. L'idea di scatenare la competizione è nata in quel momento; esclusa la loro, la nostra è la comu-nità più grande che abbiano mai visto...».
Lo guardai, terrorizzata. Non me l'aveva mai detto e sapevo perché. A-desso il sogno di Aro mi risultava evidente. Edward e Alice con indosso mantelle lunghe e nere, che vivono al suo fianco, con gli occhi freddi e i-niettati di sangue...
Carlisle interruppe il mio incubo. «Sono troppo impegnati con la loro missione. Non infrangerebbero mai le regole. Va contro tutto ciò che hanno fatto finora».
«Dopo verranno a ripulire tutto. Un doppio tradimento», disse Edward con voce severa. «Non lasceranno traccia».
Jasper si chinò in avanti e scosse la testa. «No, Carlisle ha ragione. I Volturi non infrangono le regole. Inoltre è tutto troppo improvvisato. Que-sta... persona, questa minaccia, non sa cosa sta facendo. È un principiante, ci giurerei. Non posso credere che i Volturi siano coinvolti in questa storia. Ma lo saranno».
Tutti si scambiarono sguardi pietrificati dalla tensione.
«Allora, andiamo», ruggì Emmett. «Che stiamo aspettando?».
Carlisle ed Edward si scambiarono un'occhiata d'intesa, poi Edward an-nuì.
«Abbiamo bisogno di te, Jasper, devi spiegarci come fare a distruggerli», disse infine Carlisle. Il tono di voce era duro, ma vidi il terrore nei suoi occhi. Nessuno più di Carlisle odiava la violenza.
C'era qualcosa che mi preoccupava, ma non capivo cosa. Ero tramortita, terrorizzata, spaventata a morte. E ora, in quello stato, sentivo che mi sfuggiva un dettaglio importante. Che avrebbe dato senso a quella confu-sione. Che l'avrebbe giustificata.
«Avremo bisogno di aiuto», disse Jasper. «Secondo voi la famiglia di Tanya vorrà... Altri cinque vampiri maturi farebbero una differenza enorme. Kate ed Eleazar dalla nostra parte costituirebbero un bel vantaggio. Sarebbe un'impresa facile, con il loro aiuto».
«Glielo chiederemo», rispose Carlisle.
Jasper gli porse un cellulare. «Dobbiamo fare in fretta».
Non avevo mai visto Carlisle, la calma fatta persona, tanto turbato. Prese il telefono e si avvicinò alle finestre. Compose un numero, si portò il rice-vitore all'orecchio e posò l'altra mano sul vetro. Fissava la nebbia mattutina con un'espressione spaventata e incerta.
Edward mi prese per mano e mi spinse sulla poltrona bianca. Mi sedetti accanto a lui e lo fissai mentre osservava Carlisle.
Parlava sottovoce e rapido, non era facile cogliere cosa dicesse. Lo sentii salutare Tanya, poi presentò la situazione troppo in fretta perché potessi capire. Tuttavia, era evidente che i vampiri dell'Alaska avessero intuito cosa succedeva a Seattle.
All'improvviso la voce di Carlisle cambiò.
«Ah», disse e scattò per la sorpresa. «Non sapevamo che Irina avesse re-agito così».
Edward mugugnò qualcosa accanto a me e chiuse gli occhi. «Maledizio-ne. Maledetto Laurent, che marcisca nel profondo dell'inferno».
«Laurent?», sussurrai, bianca in volto. Edward non rispose, concentrato com'era sui pensieri di Carlisle.
Il mio fugace incontro con Laurent la primavera precedente mi era rima-sto bene impresso. Ricordavo ogni parola che disse, prima di essere inter-rotto da Jacob e la sua banda.
Se vuoi saperlo, sono venuto qui per farle un favore...
Victoria. Laurent era stato il primo a essere raggirato da lei: lo aveva mandato in perlustrazione, per controllare quanto fosse difficile arrivare a me. Non era sopravvissuto ai lupi e non aveva potuto fare rapporto.
Nonostante avesse mantenuto i contatti con Victoria dopo la morte di James, aveva formato anche nuovi legami e nuove relazioni. Era andato a vivere con la famiglia di Tanya in Alaska - Tanya, la bionda rossiccia, l'a-mica più cara che i Cullen avevano tra i vampiri, praticamente una di fa-miglia. Laurent era stato con loro almeno un anno, prima di morire.
Carlisle stava ancora parlando, la sua voce non era esattamente suppli-chevole. Persuasiva, ma con mordente. Poi il mordente ebbe la meglio sulla persuasione.
«Non se ne parla nemmeno», disse Carlisle severo. «C'è una tregua in corso. Loro non l'hanno rotta e nemmeno noi. Mi dispiace sapere che... Certo. Ce la caveremo bene anche da soli».
Riappese senza aspettare la risposta. Continuò a fissare la nebbia.
«Qual è il problema?», chiese Emmett a Edward.
«Il legame tra Irina e Laurent era più forte di quanto pensassimo. Ora lei ce l'ha con i lupi perché hanno ucciso lui e salvato Bella. Vuole...». Fece una pausa e mi guardò dall'alto.
«Vai avanti», dissi, con tutta la calma possibile.
Mi guardò torvo. «Vuole vendetta. Annientare il branco. Scambierebbero il loro aiuto con la nostra autorizzazione».
«No!», gridai.
«Non ti preoccupare», disse con un tono secco. «Carlisle non lo accette-rebbe mai». Esitò, poi fece un sospiro. «E nemmeno io. Laurent se l'è cer-cata», questo fu quasi un ringhio, «e mi sento ancora in debito nei confronti dei lupi per ciò che hanno fatto».
«Non va bene», disse Jasper. «È una battaglia alla pari. Siamo più abili a combattere, ma siamo meno di loro. Vinceremo, ma a quale prezzo?». Il suo sguardo teso incrociò Alice per un istante.
Quando capii cosa intendeva, avrei voluto urlare a squarciagola.
Avremmo vinto, ma avremmo perso. Qualcuno non sarebbe sopravvis-suto.
Mi guardai intorno, fissai i loro volti uno a uno: Jasper, Alice, Emmett, Rose, Esme, Carlisle... Edward, i volti della mia famiglia.

14
Dichiarazione

«Non puoi farla sul serio», dissi. Era mercoledì. «Hai completamente perso la testa!».
«Di' quel che vuoi», rispose Alice. «La festa si farà».
La fissai incredula, con gli occhi talmente sgranati che pensavo sarebbero usciti dalle orbite e caduti nel vassoio.
«Calmati, Bella! Non c'è motivo per non farla. E poi, ho già spedito gli inviti».
«Ma... Ecco... Io... Tu... Sei una pazza!», farfugliai.
«Mi hai già comprato il regalo», ricordò. «Non devi far altro che venire».
Mi sforzai di restare calma. «Visti gli avvenimenti di questi giorni, una festa non è proprio il massimo».
«Gli avvenimenti di questi giorni sono i tuoi esami, e per celebrarli niente è meglio di una festa, anche se è un po' fuori moda».
«Alice!».
Sbuffò, poi provò a essere seria. «Dobbiamo sistemare un paio di cose, che richiedono del tempo. Nell'attesa, possiamo sempre festeggiare un lieto evento: il giorno del diploma - del primo diploma - arriva una sola volta nella vita. Non sarai più umana, Bella. È un'occasione unica per te».
Edward, in silenzio durante tutto il nostro battibecco, le lanciò un'oc-chiata ammonitrice. Lei gli rispose con una linguaccia. Fece bene: la sua vocina non avrebbe mai sovrastato il baccano della mensa. E nessuno a-vrebbe capito il significato delle sue parole.
«Quali sono le cose che dobbiamo sistemare?», chiesi decisa a non la-sciarmi distrarre.
Edward rispose a voce bassa. «Secondo Jasper potremmo farci aiutare. La famiglia di Tanya non è l'unica alternativa. Carlisle sta cercando di rin-tracciare dei nostri vecchi amici e Jasper è andato e trovare Peter e Charlotte. Sta pensando di chiamare Maria... ma nessuno in realtà vuole coinvolgere quelli del Sud».
Alice rabbrividì. «Non dovrebbe essere così difficile convincerli ad aiu-tarci», continuò. «Nessuno vuole ricevere visite dall'Italia».
«Ma questi amici non sono... vegetariani, vero?», dissi, usando il so-prannome con cui i Cullen stessi si definivano.
«No», rispose Edward, impassibile.
«Qui? A Forks?».
«Sono nostri amici», mi rassicurò Alice. «Andrà tutto bene. Non ti pre-occupare. Poi Jasper ci darà un paio di lezioni su come eliminare i neona-ti...».
A Edward brillarono gli occhi e un sorriso gli illuminò per un momento la faccia. All'improvviso sentii lo stomaco pieno di schegge di ghiaccio af-filate.
«Quando partirete?», domandai seria. Non riuscivo a sopportare l'idea che qualcuno potesse non tornare. E se fosse stato Emmett, tanto coraggioso e avventato da non badare alla propria incolumità? O Esme, così dolce e materna da non riuscire a immaginarla in combattimento? O Alice, tanto piccola e fragile? Oppure... non riuscivo nemmeno a pensare al suo nome.
«Tra una settimana», disse Edward disinvolto. «C'è tempo a sufficienza per organizzarci».
Le schegge di ghiaccio si agitarono nello stomaco, nauseandomi all'i-stante.
«Sei quasi livida, Bella», commentò Alice.
Edward mi abbracciò e mi strinse forte. «Andrà tutto bene. Credimi».
Certo, pensai. Dovevo credergli. Non sarebbe toccato a lui restare ad a-spettare, tutto solo, senza sapere se il proprio amore sarebbe tornato a casa o meno.
E allora ebbi un'idea. Forse non avrei dovuto aspettare. Una settimana era più che sufficiente.
«Avete bisogno di aiuto», dissi piano.
«Sì», Alice piegò la testa quando sentì che il tono della mia voce era cambiato.
Risposi guardandola in faccia. La mia voce fu poco più che un sussurro. «Potrei aiutarvi io».
Edward s'irrigidì all'istante e mi strinse fortissimo. Fece un sospiro che suonò come un sibilo.
Ma a rispondere fu Alice, calma. «Davvero, non saresti affatto d'aiuto».
«Perché no?», domandai; sentivo la disperazione nella mia voce. «Otto è meglio di sette. E abbiamo tutto il tempo».
«Non abbastanza per far sì che tu possa aiutarci, Bella», replicò fredda. «Ricordi come Jasper ha descritto i neonati? Non saresti in grado di com-battere. Non potresti controllare i tuoi istinti e ciò ti renderebbe un bersa-glio facile. E poi Edward, per proteggerti, si esporrebbe a pericoli inutili». Incrociò le braccia, soddisfatta della sua logica inoppugnabile.
Sapevo che aveva ragione. Sprofondai nella poltrona, insieme alle mie speranze deluse. Accanto a me Edward si rilassò.
Mi sussurrò all'orecchio. «Non perché tu abbia paura».
«Oh», disse Alice con sguardo assente. Poi fece un'espressione imbron-ciata. «Non sopporto chi disdice all'ultimo minuto. Tocca rifare la lista de-gli invitati. Siamo a sessantacinque...».
«Sessantacinque!». Strabuzzai di nuovo gli occhi. Non sapevo di avere tanti amici. Conoscevo davvero così tanta gente?
«Chi ha disdetto?», domandò Edward, ignorandomi.
«Renée».
«Cosa?». Restai a bocca aperta.
«Voleva farti una sorpresa il giorno dell'esame, ma qualcosa è andato storto. Ti ha lasciato un messaggio».
Per un momento mi godetti il sollievo. Qualsiasi cosa fosse andata storta, gliene sarei stata eternamente grata. Se fosse venuta a Forks in quel momento... Meglio non pensarci. La mia testa sarebbe esplosa.

Giunta a casa trovai un messaggio in segreteria. La mia sensazione di sollievo di poco prima riaffiorò quando udii mia madre descrivere l'inci-dente di Phil sul campo da gioco: durante la dimostrazione di una palla a effetto si era scontrato con un ricevitore rompendosi il femore. Ingessato com'era, dipendeva completamente da lei e non era il caso che lo abbando-nasse in un frangente del genere. Mia madre si stava ancora scusando, quando il messaggio s'interruppe.
«Bene, almeno una ce n'è», sospirai.
«Cosa?», domandò Edward.
«Una persona di cui non devo preoccuparmi. Questa settimana non verrà uccisa».
Alzò gli occhi al cielo.
«Perché tu e Alice non mi ascoltate?», chiesi. «È una questione seria».
Sorrise. «Fiducia».
«Fantastico», borbottai. Presi il telefono e composi il numero di Renée. Sapevo che sarebbe stata una conversazione lunga... a cui non avrei dovuto contribuire granché.
Restai in ascolto e la rassicurai ogni volta che mi concesse di aprire boc-ca: non ero delusa, non ero arrabbiata, non ero offesa. Doveva concentrarsi su Phil, aiutarlo a rimettersi in sesto. La salutai con un «guarisci presto» per Phil e promisi di chiamarla per raccontarle ogni minimo dettaglio degli esami di fine anno. Infine fui costretta a sfruttare la scusa del mio disperato bisogno di studiare e riagganciai.
La pazienza di Edward era infinita. Aspettò tranquillo che finissi di par-lare, giocando con i miei capelli e sorridendo ogni volta che alzavo gli oc-chi. Forse era un atteggiamento superficiale notare certi dettagli mentre a-vrei dovuto pensare a ben altro, ma quel sorriso mi toglieva ancora il respi-ro. Era talmente bello che a volte era difficile pensare ad altro, difficile concentrarsi sui problemi di Phil, sulle scuse di Renée o sugli eserciti di vampiri nemici. In fin dei conti ero un essere umano.
Riagganciai e mi alzai sulle punte dei piedi per baciarlo. Mi afferrò per i fianchi e mi sollevò sul bancone della cucina, per non farmi sporgere trop-po. Ottima soluzione. Lo abbracciai all'altezza del collo e mi sciolsi contro il suo petto.
Come sempre, mi spinse via troppo presto.
Misi il broncio. Scoppiò a ridere, mentre si districava dal groviglio delle mie gambe e delle mie braccia. Si sporse verso il bancone e mi appoggiò dolcemente le braccia sulle spalle.
«Lo so, pensi che abbia una specie di autocontrollo perfetto e irremovi-bile, ma non è così».
«Magari», sospirai.
Ricambiò il sospiro.
«Domani dopo la scuola», disse cambiando argomento, «vado a caccia con Carlisle, Esme e Rosalie. Solo un paio d'ore e non ci separeremo un at-timo. Alice, Jasper ed Emmett ti terranno d'occhio».
«Uffa», borbottai. Il giorno dopo iniziavano gli esami, avrei passato sol-tanto mezza giornata a scuola. Avevo matematica e storia, le due materie che mi spaventavano, sarei stata quasi tutto il giorno senza vederlo e mi sarei preoccupata tantissimo. «Non sopporto i babysitter».
«È una cosa passeggera», promise.
«Jasper si annoierà. Emmett mi prenderà in giro».
«Si comporteranno in maniera impeccabile».
«Esatto», borbottai.
E poi mi ricordai che avevo un'alternativa. «Sai... Non vado a La Push dal giorno del falò».
Scrutai attentamente il suo volto in cerca di un mutamento d'espressione. Strizzò giusto un pochino gli occhi.
«Là sarò al sicuro», gli dissi.
Ci pensò per qualche secondo. «Forse hai ragione».
La sua espressione era calma, anche troppo. Fui sul punto di chiedergli se preferiva che restassi a Forks, ma poi pensai che Emmett mi avrebbe presa in giro e cambiai argomento. «Sei già assetato?», chiesi, avvicinandomi per osservare la leggera ombra sul fondo dei suoi occhi. Le iridi erano dorate.
«In realtà no». Sembrava non voler rispondere e ciò mi sorprese. Attesi una spiegazione.
«Dobbiamo aumentare la nostra forza, il più possibile», spiegò circo-spetto. «Probabilmente continueremo a cacciare, sperando in un bel botti-no».
«Serve per restare in forma?».
Cercò qualcosa nella mia espressione, ma c'era soltanto curiosità.
«Sì», disse infine. «Il sangue umano è quello che ci rende più forti, anche se di poco. Jasper ci ha pure pensato - come sai è contrario all'idea, ma è un tipo pratico - però non arriverà nemmeno a proporlo. Sa bene come reagirebbe Carlisle».
«Sarebbe d'aiuto?», domandai calma.
«Non importa. Non cambieremo il nostro modo di essere».
Corrugai la fronte. Se fosse servito a pareggiare le forze... e rabbrividii all'idea di veder morire un estraneo per proteggere lui. Mi spaventai, ma non fui in grado di reprimere del tutto quel pensiero.
Cambiò di nuovo discorso. «Ovviamente è per questo che sono così forti. I neonati sono saturi di sangue umano: il loro, che reagisce al cambiamento. Penetra nei tessuti e li rafforza. Il loro corpo lo consuma lentamente, come ha detto Jasper, e la forza inizia a diminuire soltanto dopo un anno».
«Quanto sarò forte, io?».
Sorrise. «Più di me».
«Anche più di Emmett?».
Il sorriso si allargò. «Certo. Fammi un favore e sfidalo a braccio di ferro. Sarebbe una bella esperienza per lui».
Scoppiai a ridere. Era tutto così assurdo.
Poi sospirai e saltai giù dal bancone, non potevo più rimandare. Dovevo prepararmi in fretta, e bene. Per fortuna avevo l'aiuto di Edward, un inse-gnante fenomenale, che sapeva tutto. Il problema maggiore era costituito dagli scritti. Se non fossi stata attenta e concentrata, nel compito di storia avrei parlato delle guerre tra vampiri nel Sud.
Feci una pausa per chiamare Jacob, ed Edward sembrò a suo agio come quando avevo chiacchierato con Renée. Giocò di nuovo con i miei capelli.
Sebbene fosse pomeriggio inoltrato, la mia telefonata lo svegliò e sulle prime restò imbambolato. Lo sentii ravvivarsi quando gli chiesi se potevo andare a fargli visita il giorno dopo. La scuola dei Quileute aveva chiuso i battenti, era in vacanza, perciò mi disse di andarlo a trovare appena potevo. Ero contenta di avere un'alternativa ai babysitter. C'era un briciolo di di-gnità in più nel trascorrere la giornata con Jacob.
Una parte di quella dignità scomparve quando Edward insistette per ac-compagnarmi fino al confine, come una bambina scambiata tra i suoi tutori.
«Allora, come sono andati gli scritti?», chiese Edward per la strada, tanto per fare due chiacchiere.
«Il compito di storia era facile, ma non sono sicura di quello di matema-tica. Mi è sembrato che tornasse tutto, perciò probabilmente ho sbagliato».
Rise. «Sono sicuro che te la sei cavata. Certo, se sei davvero preoccupata posso corrompere il signor Varner e farti promuovere con il massimo dei voti».
«Ah, grazie ma è meglio di no».
Rise di nuovo, ma smise dopo l'ultima curva, quando scorgemmo la macchina rossa lì ad aspettarci. Aggrottò la fronte, si concentrò e poi, dopo aver parcheggiato, sbuffò.
«Cosa c'è che non va?», chiesi, con la mano sulla portiera.
Scosse la testa. «Niente». Con gli occhi socchiusi fissò l'altra macchina attraverso il parabrezza. Avevo già visto quello sguardo.
«Non stai ascoltando quello che dice Jacob, vero?».
«Non è facile ignorare chi urla».
«Ah». Ci pensai un attimo. «E cosa urla?», sussurrai.
«Sono certo che te lo dirà lui stesso», disse Edward sarcastico.
Avrei insistito volentieri, ma Jacob suonò il clacson, due colpi impazien-ti.
«Che maleducato», borbottò Edward.
«Jacob è fatto così», dissi, e scattai prima che Jacob rischiasse di far spazientire davvero il vampiro.
Nel salire sulla vecchia Golf, salutai Edward, che da quella distanza sembrava davvero sconvolto per via del clacson... o dei pensieri di Jacob. Ma i miei occhi erano stanchi, forse mi sbagliavo.
Desideravo che Edward mi seguisse. Desideravo che entrambi scendes-sero dall'auto, si stringessero la mano e fossero amici: che fossero Edward e Jacob invece che vampiro e licantropo. Era come tenere di nuovo in mano due calamite potenti e tentare di forzare la natura a cambiare le proprie leggi...
«Ehi, Bells». La sua voce era allegra, ma stanca. Lo guardai attentamente in volto, mentre ci muovevamo. Guidava più veloce di quanto avrei fatto io, ma più lento di Edward, sulla strada per La Push.
Jacob era strano, sembrava quasi malato. Aveva le palpebre gonfie e la faccia contratta. Ciocche ispide sparate qua e là gli coprivano parte del viso.
«Tutto bene, Jake?».
«Sono solo stanco», cercò di cambiare discorso prima di essere sopraf-fatto da uno sbadiglio. Poi chiese: «Cosa ti va di fare oggi?».
Lo guardai per un momento. «Per adesso andiamo semplicemente da te, e stiamo un po' lì», suggerii. Non sembrava in condizione di fare altro. «Le moto possiamo prenderle dopo».
«Certo, certo», disse e sbadigliò di nuovo.
La casa di Jacob era stranamente vuota e deserta. Mi resi conto che con-sideravo Billy una specie di installazione permanente lì dentro.
«Dov'è tuo padre?».
«Dai Clearwater. Ci va spesso da quando è morto Harry. Sue si sente molto sola».
Jacob si sedette sul vecchio divano che era poco più grande di una pol-trona e si schiacciò su un lato per farmi posto.
«Oh. È gentile da parte sua. Povera Sue».
«Sì... ha qualche problema, al momento...». Ebbe un'incertezza. «Con i figli».
«Certo, dev'essere difficile per Seth e Leah crescere senza il padre...».
Annuì, perso nei suoi pensieri. Prese il telecomando e accese la TV quasi senza pensarci. Sbadigliò.
«Che hai, Jake? Sembri uno zombie».
«Ho dormito due ore stanotte, e quattro la notte precedente», rispose. Stiracchiò lentamente le lunghe braccia e quando le ripiegò sentii le giun-ture scricchiolare. Stese il braccio sinistro lungo lo schienale della poltrona, alle mie spalle, e lasciò cadere la testa all'indietro, contro il muro, per ripo-sarsi. «Sono distrutto».
«Perché non dormi?».
Fece una smorfia. «Sam fa il difficile. Non si fida dei tuoi succhiasangue. Da due settimane sto facendo doppio turno, finora nessuno mi ha toccato con un dito, ma lui non ne vuole sapere. Perciò per il momento sono da solo».
«Doppio turno? Per proteggermi? Jake, non va bene! Devi dormire. Io sono al sicuro».
«Non è un problema». All'improvviso gli occhi gli si fecero più vigili. «Ehi, poi hai scoperto chi è entrato in camera tua? C'è qualche novità?».
Ignorai la seconda domanda. «No, non abbiamo scoperto niente sullo... sconosciuto che mi ha fatto visita».
«Allora continuerò a vigilare», disse mentre chiudeva le palpebre.
«Jake...», iniziai a lamentarmi.
«Ehi, è il minimo che posso fare... ti ho giurato che sarò tuo schiavo in eterno. A vita».
«Ma io non voglio uno schiavo!».
Non aprì gli occhi. «E allora cosa vuoi, Bella?».
«Voglio il mio amico Jacob. E non lo voglio mezzo morto, né ferito in un tentativo maldestro...».
Mi zittì. «Vedila così: spero di riuscire a scovare un vampiro da uccidere, va bene?».
Non risposi. Lui mi guardò, sperando di cogliere una mia reazione.
«Sto scherzando, Bella».
Fissai la TV.
«Allora, hai qualche piano speciale per la settimana prossima? Stai per diplomarti. Grande. È fantastico». La sua voce si perse e il suo volto, già contratto, sembrava davvero stravolto. Chiuse gli occhi, non per la stan-chezza, ma per il dispiacere. Capii che il diploma per lui aveva un signifi-cato orrendo, benché la mia decisione stesse andando in fumo.
«No, niente di speciale», dissi misurando le parole, nella speranza che notasse il mio tono rassicurante e non chiedesse ulteriori spiegazioni. Me-glio non toccare l'argomento. Da una parte, non mi sembrava in grado di sostenere una conversazione su temi così complicati. Dall'altra, sapevo che avrebbe dato troppo peso ai miei scrupoli. «Be', devo andare a una festa. La mia». Lo dissi con un tono di disgusto. «Alice adora le feste e ha invitato tutta la città a casa sua. Sarà terribile».
Mentre parlavo spalancò gli occhi e un sorriso di sollievo alleviò il suo sfinimento. «Non sono stato invitato. Sono offeso», mi punzecchiò.
«Considerati invitato. In teoria sarebbe la mia festa, dovrei poter invitare chi pare a me».
«Grazie», rispose sarcastico e richiuse gli occhi.
«Mi farebbe piacere se venissi», dissi senza sperarci. «Sarebbe più di-vertente. Per me, intendo».
«Certo, certo», borbottò. «Sarebbe davvero... saggio...». La sua voce si affievolì.
Un paio di secondi dopo russava già.
Povero Jacob. Studiai il suo viso, perso nei sogni, e mi piacque molto. Il sonno aveva abbattuto le difese e allontanato le amarezze. Era tornato a es-sere il mio migliore amico, ciò che era stato fino a che non erano iniziate quelle assurdità da licantropi. Sembrava molto più giovane. Sembrava il mio Jacob.
Mi rannicchiai sul divano, in attesa del suo risveglio. Speravo che dor-misse abbastanza da recuperare un po' del sonno arretrato. Presi il teleco-mando, ma il mio zapping non servì a nulla. Mi fermai su una trasmissione di cucina, nonostante sapessi, mentre la guardavo, che non mi sarei mai impegnata fino a quel punto per far da mangiare a Charlie. Jacob continuava a russare, un po' più forte. Alzai il volume della TV.
Ero stranamente rilassata, quasi assonnata. Quella casa mi sembrava più sicura della mia, forse perché là nessuno sarebbe venuto a cercarmi. Mi accoccolai sul divano e decisi di fare anch'io un sonnellino. E l'avrei fatto davvero, se Jacob non avesse russato così forte. Perciò, invece di appiso-larmi, lasciai che la mia mente divagasse.
Gli esami erano finiti, ed era stata una passeggiata. Tranne che per ma-tematica, ma del voto finale m'importava poco. Il liceo ormai era un ricordo. E non sapevo esattamente cosa pensare. Non potevo essere obiettiva, dato che la mia vita da umana era agli sgoccioli.
Mi chiedevo per quanto tempo ancora Edward avrebbe usato la scusa "No, perché hai paura". Forse avrei dovuto puntare i piedi, prima o poi.
Dal punto di vista pratico, sapevo che avrebbe avuto più senso chiedere a Carlisle di trasformarmi subito dopo la consegna dei diplomi. Forks stava diventando pericolosa quasi come una zona di guerra. Anzi, Forks era zona di guerra. Oltretutto... mi forniva una buona scusa per non andare alla festa. Risi di me stessa, al pensiero di volermi trasformare per ragioni così frivole. Che stupida...
Ma Edward aveva ragione: non ero ancora pronta.
E non volevo badare al lato pratico. Doveva farlo Edward. Non era un desiderio razionale. Ero sicura che due secondi dopo il morso, non appena il veleno avesse iniziato a bruciarmi nelle vene, non mi sarebbe importato più di chi mi avesse trasformato. Perciò non dovevo dargli così tanta im-portanza.
D'altra parte, era difficile spiegarmi perché tenessi così tanto alla sua presenza. Contava che fosse lui a fare la scelta, a volermi con sé a tal punto da non permettere a nessun altro di trasformarmi. Era un pensiero infantile, ma mi piaceva l'idea che fossero le sue labbra l'ultima bella cosa che avrei sentito. Un altro enorme motivo di disagio, che non avrei mai ammesso di fronte ad altri, era che volevo essere contagiata dal suo veleno. Così gli sarei appartenuta in un modo tangibile, reale.
Ma sapevo che per niente al mondo avrebbe rinunciato all'idea del ma-trimonio, che era il modo più ovvio di rimandare, e fino a quel momento aveva funzionato. Cercai di immaginare come sarei riuscita a dire ai miei genitori che mi sarei sposata entro l'estate. Come lo avrei detto ad Angela, Ben e Mike. Ma non trovavo le parole. Sarebbe stato più facile raccontargli che stavo per diventare una vampira. Ed ero sicura che almeno mia madre, se le avessi esposto la verità in ogni dettaglio, si sarebbe opposta più strenuamente al matrimonio che alla mia trasformazione. Reagii con una smorfia al pensiero della sua espressione sconvolta.
Poi, solo per un secondo, ebbi di nuovo l'assurda visione di Edward e me, seduti sotto un portico, con indosso vestiti d'altri tempi. Tempi in cui nessuno si sarebbe sorpreso nel vedermi l'anello al dito. Un mondo sempli-ce, dove l'amore era definito in modo semplice. Uno più uno fa due...
Jacob russava e si girò dall'altra parte. Il braccio gli cadde dalla spalliera del divano e m'immobilizzò, incollandomi al suo corpo.
Santo cielo, quanto pesava! E quanto riscaldava. Iniziai a sudare dopo pochi secondi.
Provai a scivolare via da quella presa senza svegliarlo, ma fui costretta a spingerlo via e quando sentì il braccio cadere spalancò gli occhi. Balzò in piedi e iniziò a guardarsi intorno, in preda all'ansia.
«Che è successo?», chiese disorientato.
«Sono stata io, Jake. Scusa se ti ho svegliato».
Si girò a guardarmi e sbatté gli occhi confuso. «Che ci fai qui?».
«Ehi, bell'addormentato!».
«Oddio! Sono crollato, mi dispiace! Per quanto tempo ho dormito?».
«Un paio di dimostrazioni del cuoco. Ho perso il conto».
Si buttò di nuovo sul divano, accanto a me.
«Oddio, mi dispiace davvero».
Gli passai la mano sui capelli, cercando di ravvivare un po' quel disordine selvaggio. «Non devi sentirti in colpa. Sono contenta che sei riuscito a dormire un po'».
Fece uno sbadiglio e si stiracchiò. «In questi giorni non sono buono a nulla. Non mi meraviglia che Billy non sia mai in casa. Sono di un noio-so...».
«Sei in gamba», lo rassicurai.
«Su, usciamo. Ho bisogno di fare due passi o crollo di nuovo».
«Jake, torna a dormire. Sto bene. Chiamo Edward e mi faccio venire a prendere». Nel dirlo, mi tastai le tasche e mi resi conto che erano vuote. «Cavolo, ti devo chiedere in prestito il cellulare, mi sa che il suo l'ho la-sciato in macchina». Iniziai a preparare le mie cose.
«No!», insistette lui, prendendomi per mano. «Ti prego, resta. Non ti ve-do mai. Non riesco a credere di avere sprecato tutto questo tempo».
Mentre parlava mi spinse giù dal divano e poi uscì, abbassando la testa per passare dalla porta. Mentre Jacob dormiva, la temperatura era scesa; l'aria era incredibilmente fredda per questa stagione - forse stava per arrivare una tormenta. Sembrava febbraio, non giugno.
L'aria invernale svegliò del tutto Jacob, che si mise a camminare su e giù davanti a casa sua, trascinandomi con sé.
«Sono uno stupido», brontolò tra sé.
«Che c'è, Jake? Ti sei addormentato». Mi strinsi nelle spalle.
«Ti volevo parlare. Non riesco a crederci».
«Parlami ora», dissi.
Jacob mi fissò per un attimo negli occhi, poi distolse lo sguardo in fretta e si girò verso gli alberi.
Quasi sembrava arrossire, ma non era facile dirlo, scura com'era la sua pelle.
All'improvviso ricordai le parole di Edward a proposito di ciò che Jacob urlava nella sua testa. Iniziai a mordicchiarmi il labbro.
«Ascolta», disse Jacob. «Pensavo di farlo in maniera un po' diversa». Sembrava ridere di sé. «Con più calma», aggiunse. «Volevo stare attento ai particolari, ma...», e guardò le nuvole, che si facevano più scure mano a mano che il tempo passava, «ormai sono fuori tempo massimo».
Rise di nuovo, nervosamente. Stavamo ancora camminando, piano.
«A cosa ti riferisci?», domandai.
Fece un sospiro profondo. «Ho una cosa da dirti. La sai già... ma credo di dovertela dire in modo chiaro e tondo. Tanto per non lasciare spazio a fraintendimenti».
Mi fermai di colpo, e lui con me. Liberai la mano dalla sua stretta e in-crociai le braccia. D'un tratto ero sicura di non voler sapere cosa aveva da dirmi.
Abbassò le sopracciglia e un'ombra apparve nei suoi occhi profondi. E-rano neri come la pece, quando fissarono i miei.
«Bella, sono innamorato di te», disse con tono fermo e sicuro. «Bella, ti amo. E voglio che tu scelga me invece che lui. So che non provi gli stessi sentimenti, ma ho bisogno di dirtelo, così sarai in grado di scegliere. Non voglio che il silenzio tra noi diventi un ostacolo».

15
Scommessa

Lo fissai per un minuto interminabile, senza parole. Non sapevo cosa di-re.
Quando notò la mia espressione sbalordita, perse l'aria seriosa.
«Okay», disse sorridendo. «È tutto».
«Jake...». Sentivo un grosso nodo in gola. Qualsiasi cosa fosse, provai a rimuoverla. «Non posso, voglio dire non... Devo andare...».
Mi voltai, ma lui mi prese per le spalle e mi costrinse a girarmi di nuovo.
«No, aspetta. Lo so, Bella. Ma senti, dimmi soltanto una cosa. Vuoi che me ne vada e che non ci vediamo più? Sii sincera».
Era difficile concentrarsi sulla domanda e impiegai un minuto per ri-spondere. «No, non voglio», ammisi alla fine.
Jacob sorrise di nuovo. «Ecco».
«Sì, ma la ragione per cui ti voglio accanto non è la stessa per cui tu mi vuoi accanto a te», obiettai.
«Allora spiegami perché vuoi che non esca dalla tua vita».
Ci pensai bene. «Quando non ci sei, mi manchi. Quando sei contento», specificai, misurando le parole, «sono contenta anch'io. Ma potrei dire la stessa cosa di Charlie, lo sai. Sei uno di famiglia. Ti voglio bene, ma non ti amo».
Scosse la testa, impassibile. «Però vuoi che ti stia vicino».
«Sì», sospirai. Era impossibile farlo desistere.
«E allora ti resterò vicino».
«Non vedi l'ora di prendere una batosta, eh», borbottai.
«Già». Mi sfiorò la guancia destra con la punta delle dita. Con uno schiaffo la allontanai.
«Ti sforzeresti di comportarti un po' meglio, per favore?», chiesi irritata.
«No, non credo. Sta a te decidere, Bella. O mi prendi per come sono - cattive maniere comprese - o devi rinunciare».
Lo fissai, frustrata. «Sei crudele».
«Come te».
Questa frase mi colpì e indietreggiai inconsapevolmente. Aveva ragione. Se non fossi stata crudele - e ingorda - gli avrei detto che non lo volevo nemmeno come amico e me ne sarei andata. Era sbagliato provare a restare amici se gli faceva male. Non sapevo cosa stessi facendo lì, ma all'improv-viso capii che era uno sbaglio. «Hai ragione», sussurrai.
Rise. «Ti perdono. Ma cerca solo di non arrabbiarti troppo con me. Per-ché ultimamente ho deciso che non desisterò. Le cause perse sono la mia passione».
«Jacob». Fissavo i suoi occhi scuri nella speranza che mi prendesse sul serio. «Io amo lui, Jacob. È tutta la mia vita».
«Ami un po' anche me», aggiunse. Alzò la mano quando iniziai a prote-stare. «Non allo stesso modo, lo so. Ma non è detto che sia lui la tua vita. Non più. Forse lo era prima, ma poi se n'è andato. E ora deve fare i conti con la conseguenza di quella scelta: me».
Scossi la testa. «Sei impossibile».
Di colpo si fece serio. Mi prese il mento tra le mani, lo tenne fermo e non riuscii a distogliere gli occhi dal suo sguardo intenso.
«Finché il tuo cuore batterà, Bella», disse, «sarò qui... e combatterò. Non dimenticare le alternative che hai».
«Non ne ho bisogno», ribattei cercando di liberarmi dalla stretta, senza riuscirci. «E i miei battiti cardiaci sono contati, Jacob. Ci siamo quasi».
Affilò lo sguardo. «Motivo in più per lottare, lottare ancora più dura-mente, finché posso», sussurrò.
Mi teneva ancora per il mento - le sue dita stringevano troppo forte, mi facevano male - e d'un tratto vidi nei suoi occhi il riflesso di ciò che stava per accadere.
Provai a oppormi balbettando un «no», ma era troppo tardi.
Le sue labbra premettero sulle mie e soffocarono la protesta. Mi baciò con rabbia, brusco, mentre con la mano mi teneva stretta la nuca, rendendo inutile ogni tentativo di fuga. Provai a spingerlo via con tutte le mie forze, ma quasi non se ne accorse. Le sue labbra erano morbide e malgrado la rabbia si adattarono subito alla forma delle mie, calde e sconosciute.
Lo afferrai per le guance e cercai di spingerlo via, ma non ci riuscii nemmeno stavolta. Le sue labbra aprirono a forza le mie e sentii il suo re-spiro caldo in bocca. D'istinto, lasciai cadere le braccia lungo i fianchi e restai passiva. Aprii gli occhi senza provare a opporre resistenza... in attesa che smettesse.
Funzionò. La rabbia sembrò svanire. Premette le labbra dolcemente sulle mie un'altra volta, due... tre. Mi finsi una statua e attesi.
Alla fine mi lasciò il mento e si allontanò.
«Hai finito?», domandai inespressiva.
«Sì», sospirò. Sorrise e chiuse gli occhi.
Tirai indietro il braccio, e poi lo mossi in avanti, colpendolo sulla bocca con tutta la forza che avevo.
Si sentì uno scricchiolio.
«Ahia! Ahia!», gridai, saltando come una pazza per il dolore, con la mano stretta al petto. Era rotta, lo sentivo.
Jacob mi fissava scioccato. «Stai bene?».
«No, maledizione! Mi hai rotto la mano!».
«Bella, ti sei rotta la mano. Ora smetti di saltellare e lasciami dare un'oc-chiata».
«Non mi toccare! Vado immediatamente a casa!».
«Prendo la macchina», disse calmo. Non si sfregava nemmeno la ma-scella, come fanno nei film. Patetico.
«No, grazie», sibilai. «Preferisco farmela a piedi». Mi voltai verso la strada. Erano solo tre chilometri fino al confine. Non appena mi fossi al-lontanata da lui, Alice mi avrebbe visto e avrebbe mandato qualcuno a prendermi.
«Lascia che ti accompagni a casa», insistette. Incredibile, ebbe la faccia tosta di cingermi la vita con un braccio.
Mi scansai. «Fantastico!», urlai. «Accomodati! Non vedo l'ora di scoprire cosa ti farà Edward! Spero che ti spezzi l'osso del collo. Sei un CANE! Prepotente, disgustoso e idiota!».
Jacob alzò gli occhi. Mi trascinò fino alla portiera e mi aiutò a salire. Quando si sedette alla guida, si mise a fischiettare.
«Davvero non ti ho fatto male?», chiesi, furibonda e seccata.
«Stai scherzando? Se non ti fossi messa a urlare, non mi sarei nemmeno accorto che stavi cercando di colpirmi. Non sarò duro come la pietra, ma non sono nemmeno così morbido».
«Ti odio, Jacob Black».
«Mi piace. L'odio è un'emozione forte, passionale».
«Te la faccio vedere io la passione», borbottai tra i denti. «L'assassinio è il crimine passionale per antonomasia».
«Oh, andiamo», disse tutto contento, sul punto di ricominciare a fischiet-tare. «Di sicuro è stato meglio che baciare una pietra».
«Non ci sei andato nemmeno vicino».
Increspò le labbra. «E dai, ammettilo».
«Neanche per idea».
Sembrò seccato, ma solo per un attimo, poi si riprese. «Sei pazza. Non ho esperienza in questo genere di cose, ma secondo me è stato davvero in-credibile».
Risposi con un grugnito.
«Stanotte ci ripenserai. Mentre lui ti crederà addormentata, tu starai va-gliando le alternative».
«Se stanotte ti penserò, sarà perché avrò un incubo».
Rallentò a passo d'uomo, si voltò verso di me e mi fissò con i suoi occhi scuri, grandi e seri. «Prova solo a pensare a come sarebbe, Bella», disse con voce morbida e incalzante. «Con me non saresti costretta a cambiare niente. Charlie sarebbe contento se mi scegliessi. Potrei difenderti come fa il tuo vampiro, forse meglio. E ti farei felice, Bella. Ti darei tante cose che lui non può darti. Scommetto che non ti bacia mai come ho fatto io, perché ti farebbe del male. Io non ti farei mai del male, Bella, mai».
Alzai la mano infortunata.
Sospirò. «Non è stata colpa mia. Avresti dovuto saperlo».
«Jacob, non riesco a essere felice senza di lui».
«Non hai mai provato», ribatté. «Quando se n'è andato hai sprecato tutte le tue energie per non dimenticarlo. Potresti essere felice se lasciassi per-dere. Potresti essere felice con me».
«Non voglio essere felice con nessun altro. Solo con lui».
«Non potrai mai essere sicura di lui come puoi esserlo di me. Se ti ha la-sciato una volta, potrebbe farlo di nuovo».
«Invece no», risposi a denti stretti. Il dolore del ricordo mi ferì come un colpo di frusta. Mi venne voglia di reagire. «Anche tu mi hai lasciata una volta», gli ricordai in tono freddo. Ripensai alle settimane in cui si era na-scosto, alle parole che mi aveva detto nel bosco accanto a casa sua...
«Non l'ho mai fatto», si difese con vigore. «Mi avevano ordinato di non dirtelo che non eri al sicuro insieme a me! Ma non ti ho mai lasciata! Ve-nivo a casa tua, di notte, come adesso. Soltanto per assicurarmi che tu stessi bene».
Non volevo permettergli di farmi sentire in colpa.
«Portami a casa. Mi fa male la mano».
Contrariato, ricominciò a guidare a velocità normale, guardando la strada. «Pensaci, Bella».
«No», dissi decisa.
«Lo farai. Stanotte. Io penserò a te, mentre tu penserai a me».
«Te l'ho detto. Un incubo».
Mi sorrise. «Anche tu mi hai baciato».
Rimasi a bocca aperta e, senza pensarci, strinsi i pugni. La mano rotta si fece sentire e mi lamentai.
«Va tutto bene?», chiese.
«Non l'ho fatto».
«Credo di riconoscere la differenza».
«No che non la riconosci: io non ti ho baciato, ho cercato di respingerti, imbecille che non sei altro».
Rise di gola, forte. «Suscettibile. Fin troppo sulla difensiva, direi».
Respirai a fondo. Non si poteva discutere con lui, era bravo a rigirare i miei discorsi. Mi concentrai sulla mano, cercando di stendere le dita e di stabilire dove fosse la frattura. Sentii delle fitte acute sulle nocche. Gemetti.
«Mi dispiace davvero per la mano», disse, e sembrò quasi sincero. «La prossima volta che provi a picchiarmi, usa una mazza da baseball o un piede di porco, va bene?».
«Me ne ricorderò», brontolai.
Non mi resi conto di dove stavamo andando finché non vidi la strada di casa mia.
«Perché mi hai portato qui?», domandai.
Mi guardò privo di espressione. «Non avevi detto che volevi andare a casa?».
«Già. Immagino che tu non mi possa portare da Edward. O forse sì?», dissi a denti stretti.
Il panico gli attraversò il volto e sentii di averlo finalmente punto nel vi-vo.
«Questa è casa tua, Bella», disse calmo.
«Sì, ma ci vive un medico?», domandai, sollevando di nuovo la mano.
«Ah». Ci pensò su. «Ti porto all'ospedale. Oppure ci penserà Charlie».
«Non voglio andare all'ospedale, è imbarazzante e superfluo».
Fermò la vecchia Golf di fronte a casa mia e si mise a riflettere. L'auto di Charlie era parcheggiata nel vialetto.
Feci un sospiro. «Vai a casa, Jacob».
Scesi dalla macchina, goffa, e mi diressi verso casa. Sentii il motore spegnersi e fui più sorpresa che infastidita nel trovarmi accanto Jacob.
«Cos'hai intenzione di fare?», chiese.
«Ci metto del ghiaccio, e chiamo Edward per dirgli di passarmi a pren-dere e portarmi da Carlisle, che mi fascerà la mano. Poi, se sarai ancora qui, andrò a cercare un piede di porco».
Non rispose. Lasciò che entrassi, tenendomi la porta aperta.
Passammo in silenzio per il soggiorno, Charlie era seduto sul divano.
«Salve, ragazzi», disse e fece per alzarsi. «È un piacere vederti qui, Jake».
«Ciao, Charlie», Jacob rispose senza pensarci, poi tacque. Io mi diressi in cucina.
«Che ha fatto?», chiese Charlie.
«Pensa di essersi rotta una mano», sentii dire a Jacob. Andai al frigorifero e tirai fuori la vaschetta del ghiaccio.
«Come ha fatto?». Dal momento che era mio padre, pensai che avrebbe dovuto preoccuparsi di più e divertirsi di meno alle mie spalle.
Jacob rise. «Mi ha picchiato».
Anche Charlie rise e io m'imbronciai mentre sbattevo la vaschetta contro il bordo del lavandino. Il ghiaccio cadde nel lavello, ne raccolsi una man-ciata con la mano sana e la avvolsi nello strofinaccio che stava sul bancone.
«Perché ti ha picchiato?».
«Perché l'ho baciata», disse Jacob, senza provare nemmeno un briciolo di vergogna.
«Buon per te, ragazzo mio».
A denti stretti andai al telefono. Chiamai Edward al cellulare.
«Bella?», rispose al primo squillo. Sembrava più che sollevato: era feli-cissimo. Sentii il motore della Volvo in sottofondo; era già in macchina, perfetto. «Hai dimenticato il cellulare... Scusa, ma Jacob ti ha accompagnata a casa?».
«Sì», mormorai. «Per favore, puoi passare a prendermi?».
«Arrivo», disse d'un fiato. «Ma che c'è che non va?».
«Vorrei che Carlisle vedesse la mia mano. Credo di essermela rotta».
In soggiorno regnava il silenzio, mi chiedevo quando Jacob se ne sarebbe andato. Sorrisi beffarda immaginando il suo disagio.
«Che è successo?», domandò Edward senza particolari inflessioni.
«Ho preso a pugni Jacob», ammisi.
«Bene», disse Edward secco. «Mi dispiace che ti sia fatta male, però».
Feci una risata, perché sembrava soddisfatto come Charlie.
«Vorrei averne fatto a lui», sospirai delusa. «Invece non l'ho nemmeno scalfito».
«Ci penso io», si offrì.
«Speravo che me lo dicessi».
Ci fu una breve pausa. «Non è una frase da te», disse, preoccupato. «Che ha fatto?».
«Mi ha baciata», ruggii.
L'unica cosa che udii all'altro capo del telefono fu un motore che accele-rava.
In soggiorno Charlie aveva ripreso a parlare. «Forse è meglio che tu te ne vada, Jake», suggerì.
«Credo che rimarrò qui ancora un po', se non ti dispiace».
«Assisterai al tuo funerale», mormorò Charlie.
«Il cane è ancora lì da te?», disse Edward quando riaprì bocca.
«Sì».
«Sono dietro l'angolo», rispose cupo e la linea cadde.
Quando riappesi, sorridente, udii la sua macchina nel viale. I freni prote-starono mentre inchiodava davanti a casa. Andai ad aprirgli la porta.
«Come va la mano?», chiese Charlie, quando gli passai accanto. Non sembrava a suo agio. Jacob invece stava sbracato accanto a lui sul divano, bello comodo.
Indicai l'impacco ghiacciato: «È gonfia».
«Forse dovresti prendertela con gente della tua taglia», mi suggerì Char-lie.
«Forse». Proseguii verso la porta. Edward mi aspettava.
«Fammi vedere», mormorò. Esaminò la parte infortunata con gentilezza, attento a non farmi male. Le sue mani erano fredde quasi quanto il ghiaccio e il contatto mi fece bene.
«Credo tu abbia ragione, è rotta», disse. «Sono orgoglioso di te. Devi es-serti impegnata».
«Ce l'ho messa tutta», sospirai. «Ma evidentemente non è stato abba-stanza».
Mi baciò la mano con dolcezza. «Ci penso io», promise. Poi chiamò Ja-cob, con un tono di voce calmo e piano.
«Calma, calma», disse Charlie con cautela.
Lo sentii alzarsi dal divano. Jacob raggiunse per primo l'ingresso, senza fare rumore, e Charlie lo seguì a breve distanza. Jacob era ansioso e impa-ziente.
«Non tollero litigi, d'accordo?». Charlie guardò Edward. «Posso andare a mettermi il distintivo, se avete bisogno di un divieto ufficiale».
«Non ce n'è bisogno», disse Edward asciutto.
«Perché non arresti me, papà?», suggerii. «Quella che tira i cazzotti sono io».
Charlie alzò un sopracciglio. «Vuoi sporgere denuncia, Jake?».
«No». Jacob sorrise, incorreggibile. «Un giorno o l'altro lo farò».
Edward fece una smorfia.
«Papà, non è che hai una mazza da baseball da qualche parte? Vorrei prenderla in prestito per un minuto».
Charlie mi guardò impassibile. «Ora basta, Bella».
«Facciamo vedere la mano a Carlisle prima che tu finisca in prigione», disse Edward. Mi cinse le spalle con il braccio e mi trascinò verso la porta.
«Splendido», dissi appoggiandomi a lui. Non ero più così arrabbiata ora che Edward mi era accanto. Mi sentivo sicura e la mano non mi faceva più così male.
Mentre camminavamo lungo il marciapiede, sentii Charlie farfugliare qualcosa, concitato, alle mie spalle.
«Che fai? Sei pazzo?».
«Un minuto, Charlie», rispose Jacob. «Non ti preoccupare, torno subito».
Mi voltai e vidi Jacob che ci seguiva. Si fermò solo per chiudere la porta in faccia a Charlie, che rimase lì con un'espressione tra il sorpreso e il tur-bato.
Sulle prime Edward lo ignorò e mi accompagnò all'auto. Mi aiutò a salire, chiuse la porta e si voltò ad affrontare Jacob, sul marciapiede. Mi sporsi dal finestrino, ansiosa. Charlie ben visibile, sbirciava da dietro la tenda del soggiorno.
La posizione di Jacob era disinvolta, a braccia conserte, ma i muscoli del volto erano contratti.
Edward parlò con un tono di voce pacifico e gentile, così che le sue pa-role risuonarono ancora più minacciose: «Non ti uccido adesso, perché turberei Bella».
«Uffa», grugnii.
Edward si voltò e lanciò un sorriso fugace. La sua espressione era calma.
«A mente fredda te ne pentiresti», disse sfiorandomi la guancia con la punta delle dita.
Poi si voltò di nuovo verso Jacob. «Ma se la riporti di nuovo a casa ferita - e non m'importa nulla di chi è la colpa: fa lo stesso se inciampa o se un meteorite cade dal cielo e la colpisce in pieno - se me la riporti in uno stato di salute che non è quello in cui era quando te l'ho lasciata, ti spezzo le gambe. Lo capisci, randagio che non sei altro?».
Jacob alzò gli occhi al cielo.
«E chi ha voglia di tornare?», sussurrai.
Edward continuò, come se non mi avesse sentito. «E se ti azzardi un'altra volta a baciarla, ti spezzo la mascella al posto suo», promise, con quel tono di voce ancora gentile, vellutato e micidiale.
«E che farai se sarà lei a baciarmi?», biascicò Jacob, arrogante.
«Ma per piacere!», sbuffai.
«Se è quello che vuole, non avrò nulla da obiettare». Edward alzò le spalle, impassibile. «Magari è meglio aspettare che te lo dica chiaramente, invece di interpretare a modo tuo il linguaggio del suo corpo. Ma fai come vuoi, la faccia è la tua».
Jacob sorrise.
«Ti piacerebbe», borbottai.
«Certo che gli piacerebbe», disse Edward tra i denti.
«Bene, se hai finito di rovistare nella mia testa», disse Jacob piuttosto seccato, «perché non vi prendete finalmente cura della sua mano?».
«Un'altra cosa», disse Edward in tutta calma. «Sono anche pronto a bat-termi per lei. Dovresti saperlo. Non do niente per scontato, e ci metterei il doppio della forza con cui ti batteresti tu».
«Bene», ruggì Jacob. «Non è divertente picchiare qualcuno che si tira indietro».
«Lei è mia». La voce bassa di Edward si incupì all'improvviso, come se stesse per perdere le staffe. «E non ho detto che mi batterei in maniera lea-le».
«Nemmeno io».
«Buona fortuna».
Jacob annuì. «Sì, vediamo chi è più uomo».
«Ben detto... cucciolo».
Jacob fece una smorfia, poi si ricompose e si sporse oltre Edward per sorridermi. Gli lanciai un'occhiataccia.
«Spero che il dolore passi presto. Mi dispiace davvero che ti sia fatta male».
Mi girai dall'altra parte, come una bambina.
Non mi voltai finché Edward non fece il giro dell'auto per tornare al po-sto di guida, perciò non so se Jacob rientrò in casa o se rimase lì a guar-darmi.
«Come stai?», chiese Edward, mentre ci allontanavamo.
«Sono irritata».
Ridacchiò. «Mi riferivo alla mano».
Alzai le spalle. «Ne ho viste di peggio».
«Già», confermò, accigliandosi. Parcheggiò in garage. Emmett e Rosalie erano lì. Le gambe perfette di Rosalie, riconoscibili anche fasciate dai jeans, spuntavano da sotto l'enorme jeep di Emmett. Lui le era accanto, con la mano tesa verso di lei. Mi ci volle un po' per capire che stava facendo da assistente.
Emmett ci guardò con curiosità, mentre Edward mi aiutava a scendere dalla macchina, con cautela. Puntò lo sguardo sulla mano che tenevo ap-poggiata al petto.
Emmett sorrise. «Caduta di nuovo, Bella?».
Lo guardai fiera. «No, Emmett. Ho preso a pugni un licantropo».
Emmett mi strizzò l'occhio e scoppiò a ridere.
Mentre io ed Edward proseguivamo, Rosalie parlò, da sotto la macchina. «Jasper vincerà la scommessa», disse soddisfatta.
Emmett smise di ridere all'istante e mi fissò con sguardo inquisitore.
«Quale scommessa?», chiesi.
«Su, andiamo da Carlisle», disse Edward. Fissava Emmett e scuoteva la testa in modo impercettibile.
«Quale scommessa?», ripetei, voltandomi verso di lui.
«Grazie, Rosalie», bisbigliò stringendo l'abbraccio e trascinandomi in casa.
«Edward...», brontolai.
«È puerile», disse scrollando le spalle. «Emmett e Jasper scommettono su tutto».
«Emmett me lo dirà». Feci per tornare indietro, ma il suo braccio fortis-simo non me lo permise.
Sospirò. «Hanno scommesso su quante volte... inciamperai, il primo an-no».
«Ah», feci una smorfia, nel tentativo di nascondere il terrore che provai quando capii a cosa si riferivano. «Hanno scommesso su quante persone ucciderò?».
«Sì», ammise controvoglia. «Rosalie pensa che il tuo caratteraccio farà vincere Jasper».
Mi sentii importante. «Jasper scommette forte».
«Si sentirà meglio se avrai difficoltà ad adattarti. È stanco di essere l'a-nello debole».
«Certo, si sentirà sicuramente meglio. Spero di riuscire a farci scappare un paio di omicidi in più, se ciò lo rende felice. Perché no?». Stavo blaterando, con voce monotona. Avevo titoli di giornale e liste di nomi davanti agli occhi...
Edward mi strinse forte. «Non devi preoccupartene adesso. Anzi, se non vuoi non te ne dovrai mai preoccupare».
Gemetti ed Edward, che la scambiò per una fitta di dolore, mi spinse in fretta verso casa.
La mano era rotta, ma non c'era nessun danno preoccupante, solo una piccola frattura in una nocca. Non volevo il gesso e Carlisle disse che an-dava bene anche una semplice steccatura, ma solo se promettevo di non toglierla mai. Lo promisi.
Edward capì che il peggio era passato quando Carlisle iniziò a steccarmi la mano con cura. Per un paio di volte mi chiese se sentissi dolore, ma per fortuna non era così.
Come se avessi avuto bisogno di ulteriori preoccupazioni.
Tutte le storie di Jasper sui vampiri freschi di trasformazione mi si erano fissate nella mente fin dall'inizio. Ora che sapevo della scommessa di Jasper ed Emmett, quelle storie riapparvero, più vivide che mai. Chissà cosa c'era in palio. Quale premio può motivare qualcuno che ha tutto?
Sapevo che sarei stata diversa. Speravo di diventare forte come diceva Edward. Forte, veloce, e soprattutto bellissima. Capace di restare al fianco di Edward e di sentirmi davvero alla sua altezza.
Cercavo di non pensare troppo al fatto che sarei diventata anche qual-cos'altro. Un essere feroce. Assetato di sangue. Forse non sarei riuscita a trattenermi dall'uccidere la gente. Estranei, persone che non mi avevano fatto nulla di male. Come il numero crescente di vittime a Seattle, che ave-vano famiglie, amici e un futuro. Persone che avevano una vita. Rischiavo di diventare il mostro che li strappava a tutto questo.
Ma, tutto sommato, sopportavo anche quel pensiero perché mi fidavo di Edward ciecamente e sapevo che mi avrebbe impedito di compiere gesti di cui avrei potuto pentirmi. Mi avrebbe portato persino in Antartide a caccia-re pinguini, se glielo avessi chiesto. E avrei fatto il possibile per essere una brava persona. Una brava vampira. Questo pensiero mi avrebbe fatto sorri-dere, se non fossi stata preoccupata.
Perché, se in qualche modo fossi diventata uno degli incubi descritti da Jasper, avrei davvero continuato a essere me stessa? E se il mio unico de-siderio fosse stato uccidere, che ne sarebbe stato di ciò che desideravo ora?
Edward era ossessionato dal bisogno di non farmi perdere nessuna espe-rienza da essere umano. La consideravo un'ossessione stupida. Fintanto che stavo con lui, non potevo chiedere altro.
Fissavo il suo volto, mentre guardava Carlisle bendarmi la mano. Ciò che desideravo di più al mondo era lui, soltanto lui. Questo sentimento sarebbe cambiato? Sarebbe potuto cambiare?
Esisteva un'esperienza umana a cui non ero disposta a rinunciare?

16
Svolta

«Non ho niente da mettermi!», mi lamentai davanti allo specchio.
I miei vestiti, dal primo all'ultimo, erano accatastati sul letto; i cassetti e l'armadio erano svuotati. Fissavo le nicchie depredate, nella speranza di trovare qualcosa di adatto.
La gonna beige era appoggiata alla spalliera della sedia a dondolo, in at-tesa che scovassi qualcosa da abbinarci. Qualcosa che mi facesse sembrare bella e adulta. Qualcosa che dicesse "occasione speciale". Ma non avevo più idee.
Era quasi ora di andare ed ero ancora in tuta da ginnastica. Se non trova-vo nulla di più adatto - e al momento non è che avessi tante speranze - sarei andata alla cerimonia con quella.
Guardavo perplessa la pila di vestiti sul letto.
La cosa buffa era che sapevo esattamente cosa avrei indossato se l'avessi avuta: la camicetta rossa che mi avevano rubato. Tirai un pugno al muro con la mano sana.
«Stupido, noioso e ladro di un vampiro!», urlai.
«Che ho fatto?», chiese Alice.
Stava elegantemente appoggiata alla finestra aperta, sembrava davvero che fosse lì da sempre.
«Toc toc», aggiunse con un sorriso.
«È davvero così difficile bussare e aspettare che qualcuno ti apra la por-ta?».
Lanciò una scatola bianca, piatta, sul letto. «Sono di passaggio. Pensavo che magari avessi bisogno di qualcosa da metterti».
Guardai il pacco in cima alla pila del mio guardaroba insoddisfacente e feci una smorfia.
«Ammettilo», disse Alice. «Ti ho salvato la vita».
«Mi hai salvato la vita», mormorai. «Grazie».
«Be', almeno una cosa l'ho indovinata. Non sai quant'è irritante non poter "vedere" le cose come al solito. Mi sento così inutile. Così... normale». Nel pronunciare la parola rabbrividì per il disgusto.
«Chissà che sensazione orrenda. Normale. Santo cielo».
Rise. «Almeno non ho avuto a che fare con il tuo fastidioso ladro, e a-desso devo solo capire cosa mi sfugge a Seattle».
Quando pronunciò queste parole e unì le due situazioni in un'unica frase, scattò la molla. Il qualcosa che sfuggiva da giorni, la connessione impor-tante che non riuscivo a cogliere, d'un tratto mi apparve chiaro. Restai a guardarla senza cambiare espressione.
«Non la apri?», domandò. Di fronte alla mia reazione lenta sospirò e aprì la scatola. Tirò fuori qualcosa e me lo mostrò, ma non riuscivo a concen-trarmi su cosa fosse. «Carini, non ti pare? Ho scelto il blu, perché Edward dice che ti dona».
Non la stavo ascoltando.
«Fa lo stesso», sussurrai.
«Che c'è?», chiese. «Non hai niente di simile. Anzi, a parte la gonna non hai proprio niente!».
«No, Alice! Lascia perdere i vestiti! Ascoltami!».
«Non ti piace?». Sul suo viso apparve la delusione.
«Ascolta, Alice, non capisci? Sono gli stessi! Quello che è entrato qui a rubare le mie cose e i vampiri di Seattle. Sono insieme!».
I vestiti le scivolarono di mano e ricaddero nella scatola.
Alice capì e la sua voce si fece all'improvviso aspra. «Cosa te lo fa pen-sare?».
«Ricorda cos'ha detto Edward. C'è qualcuno che usa i buchi nelle tue vi-sioni per impedirti di vedere i neonati. E pensa anche a cos'hai detto tu sul tempismo straordinario: il ladro è stato attento a non entrare in contatto con me, come se sapesse che l'avresti visto. Credo che tu abbia ragione: Alice, lo sapeva. Anche lui ha usato quei buchi. Quante probabilità ci sono che due persone, separatamente, non solo ti conoscano abbastanza da comportarsi così, ma abbiano deciso di farlo nello stesso momento? Non c'è possibilità. È una persona sola. La stessa. Chi sta organizzando l'esercito è venuto anche qui a catturare il mio odore».
Alice non era abituata a essere colta di sorpresa. S'irrigidì e rimase zitta, talmente a lungo che iniziai a contare i secondi, mentalmente. Restò im-mobile per due minuti. Poi alzò gli occhi su di me.
«Hai ragione», disse con voce cupa. «Certo che hai ragione. E se la metti su questo piano...».
«Edward non ha capito», sussurrai. «Era una prova... per vedere se a-vrebbe funzionato. Se poteva entrare e uscire indisturbato senza fare niente di prevedibile. Per esempio, provare a uccidermi... E non ha preso le mie cose per dimostrare di avermi trovato. È venuto a prendere il mio odore... per consentire anche agli altri di trovarmi».
Restò a guardarmi scioccata. Sapeva bene che avevo ragione.
«Oh, no», balbettò.
Non mi aspettavo più che le mie emozioni avessero un senso. Al pensiero che qualcuno avesse creato un esercito di vampiri - l'esercito che aveva ucciso barbaramente decine e decine di persone a Seattle - con il chiaro proposito di uccidere me, mi sentii sollevata.
Da una parte, era scomparsa la sensazione di avere ignorato chissà quale dettaglio importante.
Ma c'era dell'altro, e non era cosa da poco.
«Bene», sussurrai, «possiamo rilassarci. Nessuno sta cercando di stermi-nare i Cullen, in fin dei conti».
«Se pensi che la situazione sia cambiata, ti sbagli di grosso», disse a denti stretti. «Se qualcuno vuole uccidere uno di noi, dovrà passare sul cadavere di tutti gli altri».
«Grazie, Alice. Ma finalmente abbiamo scoperto cosa cercano davvero. Questo ci aiuterà».
«Forse», borbottò, e si mise a camminare su e giù per la stanza.
Toc, toc. Qualcuno bussò con forza alla porta.
Balzai in piedi. Alice quasi non se ne accorse.
«Non sei ancora pronta? Faremo tardi!», protestò Charlie, piuttosto teso. Quasi come me, era allergico alle occasioni importanti. Nel suo caso il problema era che non amava vestirsi elegante.
«Dammi un minuto», dissi con voce rauca.
Restò zitto per mezzo secondo. «Stai piangendo?».
«No. Sono nervosa. Vattene».
Lo sentii scendere le scale con passo pesante.
«Devo andare», sussurrò Alice.
«Perché?».
«Edward sta arrivando. Se sente...».
«Vai, vai!», le urlai subito. Edward avrebbe perso le staffe se avesse sa-puto. Non potevo tenerlo all'oscuro ancora per molto, ma la cerimonia della consegna dei diplomi non era certo il momento migliore per vedere le sue reazioni.
«Mettile», ordinò Alice, mentre scappava dalla finestra.
Obbedii e iniziai a vestirmi mezzo imbambolata.
Avevo pensato di farmi un'acconciatura complicata ma non ne ebbi il tempo, così lasciai i capelli sciolti e anonimi come sempre. Non importava. Non mi preoccupai di guardarmi allo specchio, perciò non sapevo come mi stavano la gonna e la maglietta di Alice. Mi buttai sulla spalla l'orribile toga gialla di poliestere e scesi le scale di corsa.
«Sei proprio carina», disse Charlie, con la voce rotta dall'emozione. «Vestiti nuovi?».
«Sì», borbottai, intenta a concentrarmi. «È un regalo di Alice. Grazie».
Edward arrivò appena un paio di minuti dopo che sua sorella se n'era andata. Non ebbi il tempo di fingere una calma di facciata. Ma, finché viaggiammo sull'auto della polizia di Charlie, non riuscì a chiedermi nulla.
La settimana precedente, quando aveva saputo che volevo andare alla cerimonia di consegna dei diplomi con la macchina di Edward, Charlie si era impuntato. Non potevo dargli torto: i genitori hanno dei diritti, il giorno della cerimonia. Avevo ceduto volentieri ed Edward aveva proposto sorridendo che andassimo tutti insieme. Dato che Carlisle ed Esme non a-vevano nulla in contrario, Charlie non poté obiettare nulla e accettò a ma-lincuore. E ora Edward stava sul sedile posteriore dell'auto della polizia di mio padre, dietro il pannello divisorio di vetro, con un'espressione divertita - probabilmente dovuta a quella altrettanto divertita di mio padre e al ghi-gno che gli illuminava il viso ogni volta che vedeva Edward nello spec-chietto retrovisore. Quasi sicuramente, se Charlie mi avesse rivelato i propri pensieri, mi sarei arrabbiata parecchio.
«Tutto bene?», sussurrò Edward mentre mi aiutava a scendere dalla macchina, nel parcheggio della scuola.
«Nervosa», risposi, e non era affatto una bugia.
«Sei così bella», disse.
Sembrò voler aggiungere qualcos'altro, ma Charlie, con una manovra tutt'altro che disinvolta, s'intromise e mi abbracciò.
«Sei agitata?», mi chiese.
«Non molto», ammisi.
«Bella, è un'occasione importante. Hai finito il liceo. Ora ti aspetta il mondo degli adulti. L'università. Andrai a vivere da sola... Non sarai più la mia bambina». Sembrava davvero commosso.
«Papà», brontolai. «Per favore, non ti mettere a piangere sulla mia spal-la».
«E chi piange?», esclamò. «Non dirmi che non sei elettrizzata».
«Non so, papà. Penso di non aver ancora realizzato cosa sta succedendo».
«È bello che Alice abbia organizzato la festa. Hai bisogno di tirarti un po' su».
«Certo. Ho proprio bisogno di una festa».
Charlie rise del mio tono di voce e mi abbracciò forte. Edward guardava le nuvole, con la mente altrove.
Mio padre dovette lasciarci davanti alla porta secondaria della palestra ed entrare come tutti i genitori dall'entrata principale.
Ci fu un pandemonio quando la signorina Cope della segreteria e il signor Varner, il professore di matematica, cercarono di disporci in ordine alfabetico.
«Qui davanti, signor Cullen», abbaiò Varner.
«Ehi, Bella!».
Alzai lo sguardo e vidi Jessica Stanley sbracciarsi dal fondo della fila con un gran sorriso.
Edward mi diede un rapido bacio, sospirò e andò tra quelli con la lettera C. Alice non c'era. Cosa stava facendo? Voleva saltare la cerimonia della consegna dei diplomi? Che pessima scelta di tempo, la mia. Forse avrei dovuto aspettare che fosse passata, per capire cos'era successo.
«Sono qui, Bella!», Jessica mi chiamò di nuovo.
Percorsi tutta la fila per prendere posto accanto a lei, curiosa di scoprire il perché di quell'improvvisa gentilezza, Quando mi avvicinai vidi Angela, poco più indietro, guardare Jessica con la stessa curiosità.
Jess blaterò qualcosa prima che fossi abbastanza vicina da capire.
«...così sorprendente. Voglio dire, sembra che ci siamo conosciute ieri, ed eccoci qua a ritirare insieme i diplomi», esultò. «Riesci a credere che è finita? Avrei voglia di urlare!».
«Anch'io», mugugnai.
«È davvero incredibile. Ti ricordi del tuo primo giorno qui? Ti ricordi? Siamo diventate subito amiche, dal primo istante. Fantastico. E adesso io sto per partire per la California, tu per l'Alaska. Mi mancherai proprio tanto! Devi promettermi che ogni tanto ci vedremo! Sono così contenta che anche tu avrai la tua festa. È tutto perfetto. Perché per un po' di tempo non ci siamo frequentate granché e adesso ce ne andiamo...».
Non la finiva più, e senz'altro quell'improvviso ritorno di fiamma era dovuto alla nostalgia per la fine della scuola e alla gratitudine per l'invito alla festa, invito che non era stato affatto un'idea mia. Mi sforzai di ascol-tarla mentre m'infilavo la toga. Tutto sommato ero contenta che le cose con Jessica finissero bene.
Perché era una fine, anche se Eric, lo studente promosso con i voti mi-gliori e incaricato di pronunciare il discorso, avrebbe proclamato che si trattava di «un inizio», oltre a tutte le sciocchezze che si dicono in quelle occasioni. Forse valeva più per me che per gli altri, ma quel giorno tutti ci stavamo lasciando qualcosa alle spalle.
La cerimonia fu rapidissima. Mi sembrò di aver premuto il tasto dell'a-vanzamento veloce. Qualcuno ci aveva chiesto di fare così in fretta? Anche Eric fece in un attimo; era nervoso, le sue parole e le sue frasi si rincorre-vano, perdendo ogni significato. Il preside Greene iniziò a chiamarci per nome, uno a uno, senza aspettare troppo; gli studenti della prima fila do-vettero correre. La povera signorina Cope s'impappinò più volte nel pas-sargli i diplomi.
Vidi Alice, che era apparsa all'improvviso, saltellare danzando sul palco per prendere il suo, tutta concentrata. Edward la seguiva con un'espressione confusa, ma per nulla agitato. Solo loro due riuscivano a indossare con disinvoltura quelle toghe gialle e sembrare sempre impeccabili. Spiccavano tra la folla, con la loro bellezza e la loro grazia ultraterrene. E dire che all'inizio anch'io li avevo scambiati per esseri umani. Due angeli con le ali spiegate avrebbero dato meno nell'occhio.
Sentii il preside chiamare il mio nome e mi alzai in piedi, in attesa che la fila davanti a me si muovesse. Sapevo che in fondo alla sala c'era chi faceva il tifo per me e mi guardai intorno per vedere Jacob e Charlie darsi di gomito e incoraggiarsi a vicenda. Riuscii appena a vedere la testa di Billy accanto a Jake. Feci il possibile per lanciare loro un sorriso forzato.
Il signor Greene finì di chiamarci, continuò a consegnare i diplomi, e sorrideva stanco mentre gli sfilavamo davanti.
«Congratulazioni, signorina Stanley», mormorò mentre Jess prendeva il suo.
«Congratulazioni, signorina Swan», disse e mi porse il diploma che af-ferrai con la mano sana.
«Grazie», sussurrai.
E questo fu tutto.
Restai accanto a Jessica nel gruppo dei diplomati. Jess aveva gli occhi arrossati e non smetteva di asciugarsi le lacrime con la manica del vestito.
Il preside disse qualcosa che non riuscii a sentire, e tutti intorno a me si misero a ridere e a gridare. Piovvero cappelli gialli. Tolsi il mio troppo tardi e riuscii soltanto a farlo cadere per terra.
«Oh, Bella!», singhiozzò Jess, coperta dall'improvviso boato che seguì il discorso del preside. «Non riesco a credere che siamo diplomate».
«Non riesco a credere che è finita», mormorai.
Mi buttò le braccia al collo. «Devi promettermi che non ci perderemo di vista».
Anch'io la abbracciai e mi sentii un po' a disagio nello sviare la sua ri-chiesta. «Sono contenta di averti conosciuta, Jessica. Sono stati due anni magnifici».
«Certo che sì», sospirò e tirò su con il naso. Poi gridò «Lauren!», iniziò a sbracciarsi e s'insinuò nella massa di toghe gialle. Le famiglie si stavano avvicinando, ci pressavano gli uni addosso agli altri.
Cercai con gli occhi Angela e Ben, ma erano circondati dai parenti. Mi sarei congratulata con loro più tardi.
Allungai il collo, in cerca di Alice.
«Congratulazioni», mi sussurrò all'orecchio Edward e nel frattempo mi cinse i fianchi. Parlava a voce bassa; non aveva fretta che raggiungessi quel traguardo.
«Ehm, grazie».
«A quanto pare il nervosismo non è ancora passato», notò.
«Eh, no».
«Che problema c'è? La festa? Non sarà così terribile».
«Forse hai ragione».
«Chi stai cercando?».
Le mie occhiate non erano discrete come credevo. «Alice... dov'è?».
«Ha ritirato il diploma ed è corsa via».
La sua voce cambiò. Alzai lo sguardo per vedere la sua espressione con-fusa, mentre fissava l'uscita secondaria della palestra, e presi una decisione impulsiva, una di quelle che non ero mai stata capace di soppesare.
«Preoccupato per Alice?», domandai.
«Ehm...». Non volle rispondermi.
«A cosa stava pensando? Per tenerti lontano, dico».
Abbassò gli occhi su di me, in un lampo, e li socchiuse sospettoso. «Stava traducendo l'inno nazionale americano in arabo. Finito quello, è passata al linguaggio dei segni coreano».
Risi nervosa. «Immagino che sia stato sufficiente a tenerle la mente oc-cupata».
«Tu sai cosa sta nascondendo», mi accusò.
«Certo». Accennai un sorriso. «È un'idea mia».
Mi guardò confuso. Intanto vidi che Charlie si stava facendo largo tra la folla.
«Conoscendo Alice», sussurrai in fretta, «ti terrà all'oscuro di tutto fino a dopo la festa. Ma siccome vorrei tanto che la festa venisse cancellata, be', non ti arrabbiare, non ci fare caso, va bene? È sempre meglio sapere più cose possibile. A qualcosa ti servirà».
«Ma cosa stai dicendo?».
Vidi la testa di Charlie sparire e riapparire in mezzo alle altre teste, mentre mi cercava. Mi chiamò e fece un cenno con la mano.
«Ora calmati, okay?».
Edward annuì, imbronciato.
Sottovoce, gli spiegai velocemente le mie deduzioni. «Penso che ti sbagli, non ci stanno attaccando da più fronti. Il fronte, secondo me, è uno sol-tanto... e il bersaglio sono io. È tutto collegato, deve esserlo. Una persona, una sola, sta giocando con le visioni di Alice. L'estraneo in camera mia era una prova per vedere se fosse possibile aggirarle. Senz'altro è lo stesso, che cambia idea di continuo, ha a che fare coi neonati e mi ha rubato i vestiti: è tutto collegato. È a loro che serve il mio odore».
Impallidì talmente che stentai a finire il discorso.
«Nessuno che vuole attaccare voi, non vedi? E va bene così. Esme, Alice e Carlisle sono al sicuro!».
Aveva sgranato gli occhi, intimorito, con lo sguardo spiritato e sconvolto. Sapeva che avevo ragione, esattamente come lo aveva intuito Alice.
Gli posai una mano sulla guancia. «Calma», implorai.
«Bella!», esultò Charlie, facendosi largo tra le famiglie stipate una ac-canto all'altra.
«Congratulazioni, bambina mia!». Non smise di urlare, malgrado fosse appiccicato al mio orecchio. Mi buttò le braccia al collo e, nel farlo, scansò via Edward.
«Grazie», borbottai preoccupata dall'espressione di Edward. Non aveva ancora assunto il suo tipico autocontrollo. Le mani gli erano rimaste a mezz'aria, allungate verso di me, come sul punto di afferrarmi e portarmi via di corsa. Io invece mi ero quasi ripresa e scappare non mi sembrava una cattiva idea.
«Jacob e Billy se ne sono andati, avevano da fare. Ti sei accorta che c'e-rano?», chiese Charlie e fece un passo indietro senza togliermi le mani dalle spalle. Si era voltato - probabilmente si sforzava di escludere Edward, e in quel momento era meglio così. Edward, a bocca aperta, aveva ancora gli occhi spiritati.
«Sì», rassicurai Charlie, cercando di prestargli attenzione. «Li ho anche sentiti».
«Sono stati carini a venire», disse Charlie.
Annuii.
Okay, dirlo a Edward non era stata una buona idea. Alice aveva fatto be-ne a tenere per sé certi pensieri. Avrei dovuto aspettare di essere sola con lui o con i suoi fratelli. Senza oggetti fragili - come una finestra, una mac-china... un edificio scolastico - a portata di mano. La sua espressione ri-svegliò le mie paure, e non solo. E dire che non c'era più traccia della paura: la rabbia si era impadronita dei suoi lineamenti.
«Allora, dove vuoi che andiamo a cena?», chiese Charlie. «Scegli pure, hai carta bianca».
«So cucinare».
«Non essere sciocca. Vuoi che andiamo al Lodge?», chiese in preda all'entusiasmo.
Non amavo molto il ristorante preferito di Charlie, ma a quel punto non faceva molta differenza. Non sarei stata comunque in grado di mangiare.
«Certo, al Lodge, fantastico», dissi.
Charlie sorrise a trentadue denti, poi sospirò. Si girò in direzione di E-dward, ma senza arrivare a guardarlo in faccia.
«Vieni anche tu, Edward?».
Lo fissai con occhi imploranti. Edward tornò in sé appena un attimo prima che Charlie si voltasse per vedere perché non gli aveva ancora rispo-sto.
«No, grazie», disse Edward in tono severo e con un'espressione dura e fredda.
«Hai un appuntamento con i tuoi?», chiese Charlie e si rabbuiò. Con lui Edward era sempre più educato di quanto meritasse e quell'improvvisa o-stilità lo prese in contropiede.
«Certo. Se volete scusarmi...», Edward si voltò di scatto e se ne andò, facendosi largo tra la folla che si stava diradando. Si mosse molto rapida-mente, troppo agitato per fingere come al solito.
«Che ho detto?», chiese Charlie con espressione colpevole.
«Non ti preoccupare, papà», lo rassicurai. «Non credo sia colpa tua».
«Avete litigato di nuovo?».
«Nessuno litiga. Fatti gli affari tuoi».
«Tu sei un mio affare».
Alzai gli occhi. «Andiamo a cena».
Il Lodge era affollato. Lo avevo sempre trovato troppo caro e pacchiano, ma in città era l'unica cosa che ricordasse un ristorante serio, perciò in certe occasioni era sempre pieno. Fissavo imbronciata la testa d'alce impagliata appesa alla parete, con il suo sguardo depresso, mentre Charlie mangiava delle ottime costolette di maiale e parlava con i genitori di Tyler Crowley seduti dietro di lui. C'era parecchia confusione: i presenti erano stati tutti alla cerimonia della consegna dei diplomi, e quasi tutti chiacchieravano con persone sedute ad altri tavoli, spesso dietro i loro, come nel caso di Charlie.
Io davo le spalle alle finestre e resistetti alla voglia di voltarmi e cercare gli occhi che mi sentivo addosso. Sapevo che non avrei visto nulla, così come sapevo che non mi avrebbe mai lasciata sola, neanche per un secondo. Non dopo quello che gli avevo detto.
La cena si trascinava. Charlie era impegnato a chiacchierare e mangiava troppo lentamente. Staccavo dei bocconi dal mio hamburger e ne infilavo dei pezzi nel tovagliolo, quando ero sicura che la sua attenzione era rivolta da qualche altra parte. Tutto sembrava durare un'eternità, ma ogni volta che guardavo l'orologio, e in realtà lo facevo più spesso del necessario, le lancette sembravano quasi immobili.
Alla fine Charlie ricevette il resto e lasciò la mancia sul tavolo. Mi alzai in piedi.
«Hai fretta?», mi chiese.
«Voglio aiutare Alice con i preparativi», affermai.
«Okay». Si allontanò per dare la buonanotte a tutti. Io andai ad aspettarlo in macchina.
Mi appoggiai alla portiera del passeggero, in attesa che Charlie lasciasse la festa improvvisata. Nel parcheggio faceva quasi buio, le nuvole erano così fitte che non avrei saputo dire se il sole fosse già tramontato o meno. L'aria sembrava pesante, come se stesse per piovere.
Qualcosa si mosse nell'ombra.
Il mio respiro affannoso si trasformò in un sospiro quando Edward ap-parve dal nulla.
Senza dire una parola, mi strinse forte a sé. Mi prese il mento con una delle sue mani fredde e mi sollevò il volto per premere le sue labbra dure sulle mie. Notai la tensione della sua mascella.
«Come stai?», gli chiesi non appena mi lasciò respirare.
«Non troppo bene», mormorò. «Ma ho ritrovato l'autocontrollo. Mi di-spiace averlo perso, prima».
«Ho sbagliato io. Avrei dovuto aspettare a dirtelo».
«No. Avrei dovuto saperlo. Non riesco a credere di non essermene reso conto da solo».
«Hai molto a cui pensare».
«Tu invece no?».
Mi baciò di nuovo, all'improvviso, senza lasciarmi il tempo di risponde-re. Si tirò indietro dopo un attimo. «Charlie sta arrivando».
«Gli chiederò di accompagnarmi a casa tua».
«Va bene, vi seguo».
«No, non è necessario», provai a dire, ma se n'era già andato.
«Bella?». Charlie mi chiamò dalla porta del ristorante, sbirciando nell'o-scurità.
«Sono qui fuori».
Charlie s'incamminò verso la macchina, lamentandosi della mia fretta.
«Allora, come ti senti?», mi chiese mentre viaggiavamo verso nord. «È stato un giorno importante per te».
«Sto bene», mentii.
Rise, se n'era accorto anche lui. «Preoccupata per la festa?», tirò a indo-vinare.
«Certo», mentii di nuovo.
Stavolta non se ne accorse. «Non sei mai stata un tipo da feste».
«Chissà da chi ho preso», mormorai.
Charlie alzò le spalle. «Sei veramente carina. Non ho neanche pensato a farti un regalo. Mi dispiace».
«Non essere sciocco, papà».
«Non è una sciocchezza. Ho l'impressione di non fare mai per te tutto quello che dovrei».
«Non essere ridicolo. Fai il tuo dovere alla grande. Il papà migliore del mondo. E...». Non era facile parlare di sentimenti insieme a Charlie, ma proseguii, dopo essermi schiarita la voce. «E sono davvero contenta di es-sere venuta a vivere con te, papà. È stata l'idea migliore che abbia mai avu-to. Perciò non ti preoccupare, è solo un momento di pessimismo post-diploma».
Sbuffò. «Forse. Ma sono sicuro di aver fallito almeno un paio di volte. Voglio dire, guardati la mano!».
Mi osservai le mani. La sinistra era ancora steccata, ma ci pensavo rara-mente. La nocca infortunata non faceva più così male.
«Non ti ho mai insegnato a tirare i cazzotti. Probabilmente ho sbagliato a non farlo».
«Ma non stavi dalla parte di Jacob?».
«Non importa da che parte sto: se qualcuno ti bacia senza avere il tuo permesso devi essere in grado di difenderti senza farti del male. Non hai tenuto il pollice dentro al pugno, vero?».
«No, papà. È carino da parte tua, carino e folle allo stesso tempo, ma non credo che queste lezioni mi avrebbero aiutato. Jacob ha la testa proprio dura».
Charlie rise. «La prossima volta colpiscilo allo stomaco».
«La prossima volta?», chiesi incredula.
«Ehi, non essere troppo dura con lui. È giovane».
«È odioso».
«È sempre un tuo amico».
«Certo», sospirai. «Ma non so davvero come comportarmi con lui, papà».
Charlie annuì lentamente. «La cosa giusta non è sempre la più ovvia, A volte quella che è la cosa giusta per te, non lo è per qualcun altro. Perciò... buona fortuna, ti auguro di capire presto come comportarti».
«Grazie», borbottai secca.
Charlie rise di nuovo, poi aggrottò la fronte. «Se la festa si fa troppo sfrenata...», iniziò.
«Non ti preoccupare, papà. Ci saranno anche Carlisle ed Esme. Sono certa che puoi venire anche tu, se vuoi».
Charlie fece una smorfia, mentre guardava la strada. Amava le feste quanto me.
«Dov'è che si entra?», chiese. «Dovrebbero indicare meglio il vialetto: al buio è impossibile trovarlo».
«Dopo la prossima curva, credo». Increspai le labbra. «È vero, hai ra-gione: è impossibile trovarlo. Alice ha detto di aver disegnato una cartina sugli inviti, ma si perderanno tutti ugualmente». Sorrisi all'idea.
«Forse», disse Charlie, mentre la strada curvava verso est. «O forse no».
Il velluto nero dell'oscurità s'interruppe poco prima del vialetto dei Cul-len. Qualcuno aveva ricoperto di lucine intermittenti i due alberi affacciati sulla strada. Era impossibile non vederli.
«Alice», dissi con un tono acido.
«Caspita», disse Charlie mentre percorrevamo il vialetto. Gli alberi all'entrata non erano gli unici illuminati. Ogni due metri circa una torcia indicava il cammino verso la grande casa bianca. Per tutto il tragitto: cinque chilometri.
«Quando ci si mette, fa le cose per bene, vero?», borbottò Charlie, stupe-fatto.
«Sicuro che non vuoi entrare?».
«Sicurissimo. Divertiti, piccola».
«Grazie mille, papà».
Rideva tra sé quando scesi dall'auto e chiusi la portiera. Lo seguii con lo sguardo mentre se ne andava, con il sorriso sulle labbra. Sospirando salii le scale che mi portavano alla festa. Dovevo tener duro.

17
Alleanza

«Bella?».
Sentii la voce morbida di Edward alle mie spalle. Mi voltai e lo vidi salire gli scalini del portico, con la sua solita eleganza, i capelli scompigliati dalla corsa. Mi strinse a sé, d'improvviso, come aveva fatto nel parcheggio, e mi baciò di nuovo.
Quel bacio mi spaventò. Edward era troppo teso, troppo rigido quando appoggiò le labbra sulle mie, come se avesse paura che non restasse più molto tempo.
Non dovevo pensarci, visto che nelle ore seguenti avrei dovuto compor-tarmi da essere umano. Mi allontanai da lui.
«Vediamo di superare indenni questa stupida festa», borbottai, senza in-crociare il suo sguardo.
Mi prese il volto fra le mani perché lo fissassi.
«Non permetterò che ti succeda nulla».
Gli toccai le labbra con le dita della mano sana. «Non sono preoccupata per me».
«Perché non ne sono sorpreso?», borbottò tra sé. Fece un respiro pro-fondo e poi sorrise dolcemente. «Pronta per festeggiare?», domandò.
Feci una smorfia.
Mi tenne la porta, cingendomi la vita con l'altro braccio. Restai basita per un minuto, poi scossi la testa.
«Incredibile».
Edward alzò le spalle. «Alice è sempre Alice».
L'interno di casa Cullen era stato trasformato in una discoteca di quelle che non esistono nella vita reale, ma soltanto in TV.
«Edward!», gridò Alice da dietro un altoparlante enorme. «Ho bisogno di un consiglio». Gesticolava indicando un mucchio di CD impilati. «Dob-biamo mettere musica conosciuta, o rassicurante? Oppure», e indicò un'altra pila di CD, «educarli a gusti migliori?».
«Vada per la rassicurante», si raccomandò Edward. «Non è detto che il buon esempio serva a qualcosa...».
Alice annuì seria e iniziò a buttare i CD educativi in una scatola. Mi ac-corsi che si era cambiata, indossava pantaloni di pelle rossi e un top di paillette. Le luci intermittenti rosse e viola illuminavano la sua pelle in maniera singolare.
«Non mi sento abbastanza elegante».
«Sei perfetta», dissentì Edward.
«Te la caverai», aggiunse Alice.
«Grazie», sospirai. «Credete davvero che verrà qualcuno?». Chiunque avrebbe notato il tono di speranza nella mia voce. Alice fece una smorfia.
«Verranno tutti», rispose Edward. «Muoiono dalla voglia di entrare nella misteriosa casa dei Cullen».
«Favoloso», mugugnai.
Non li potevo aiutare in nulla. Anche se sapevo che avrei smesso di dormire e che sarei diventata molto più rapida in tutto, dubitavo che sarei mai riuscita a essere efficiente quanto Alice.
Edward non mi lasciò nemmeno per un secondo, mi trascinò con sé anche quando salì a cercare Jasper e Carlisle per raccontare loro della mia in-tuizione. Li ascoltai terrorizzata mentre parlavano dell'imminente attacco all'esercito di Seattle. A Jasper non andava che gli avversari fossero in su-periorità numerica, ma purtroppo non era riuscito a contattare nessun altro potenziale alleato, a parte la famiglia di Tanya. Non cercò di nascondere la disperazione, come avrebbe fatto Edward. Si vedeva chiaramente che non gli piaceva scommettere con una posta così alta.
Non potevo restare sola ad aspettare che gli altri tornassero a casa. Non ce l'avrei fatta. Sarei impazzita.
Suonarono al campanello.
Di colpo, tutto divenne irrealmente normale. Un sorriso perfetto, genuino e caldo rimpiazzò la tensione sul viso di Carlisle. Alice alzò il volume della musica e a passo di danza andò ad aprire la porta.
Era un gruppo di miei amici appena scesi dal Suburban di Mike, troppo nervosi o troppo timidi per arrivare alla spicciolata. Jessica fu la prima a entrare, Mike la seguì a ruota. Tyler, Conner, Austin, Lee, Samantha... per-sino Lauren, che entrò per ultima, con il suo sguardo critico da ficcanaso. Erano tutti curiosi e vennero sopraffatti dallo stupore quando si accomoda-rono nel salone addobbato come per un rave d'alta classe. La stanza non era vuota: tutti i Cullen avevano preso posto, pronti a mettere in scena la loro solita, perfetta farsa umana. Persino io, come loro, avevo la sensazione di recitare.
Andai a salutare Jess e Mike, nella speranza che l'inquietudine della mia voce passasse per agitazione. Prima che potessi raggiungere gli altri, il campanello suonò di nuovo. Feci entrare Angela e Ben e lasciai la porta aperta, perché Eric e Katie stavano salendo i gradini.
Non avevo tempo di lasciarmi prendere dal panico. Dovevo parlare con tutti e sforzarmi di essere sempre allegra, una buona padrona di casa. Seb-bene la festa fosse anche in onore di Alice ed Edward, le congratulazioni e i ringraziamenti furono tutti per me. Magari perché i Cullen avevano un aspetto strano sotto le luci di Alice. O forse perché quelle luci creavano un'atmosfera vaga e misteriosa. Non era l'ambiente adatto a far sentire a proprio agio un normale essere umano, vicino a uno come Emmett. Lo vidi sorridere a Mike da una parte all'altra del buffet, i suoi denti brillarono sotto le luci rosse e Mike fece istintivamente un passo indietro.
Forse il proposito di Alice era proprio mettermi al centro dell'attenzione, un posto che a suo avviso avrei dovuto occupare più spesso. Provava sem-pre a farmi vivere secondo l'idea di esistenza umana che si era fatta lei.
La festa fu un successone, nonostante l'ansia generata dalla presenza dei Cullen, ma forse ciò diede solo un brivido in più alla serata. La musica era coinvolgente, le luci ipnotiche. A giudicare da quanto impiegò a svanire, pure il cibo doveva essere squisito. In poco tempo il salone fu stipato di gente, senza mai diventare soffocante. Probabilmente erano venuti tutti gli studenti dell'ultimo anno e quasi tutti quelli del penultimo. I corpi si muo-vevano al ritmo che rimbombava sul pavimento e pareva che la festa, da un momento all'altro, potesse trasformarsi in un ballo sfrenato.
Non fu difficile come avevo pensato. Seguii l'esempio di Alice, m'intrat-tenni a chiacchierare un minuto con ciascuno. Bastava poco per acconten-tare tutti. Di certo era la festa migliore che fosse mai stata organizzata a Forks. Alice era soddisfattissima: nessuno avrebbe dimenticato quella se-rata.
Feci il giro della stanza e tornai da Jessica. Chiacchierava eccitata, senza sosta, non ci si doveva nemmeno sforzare di ascoltarla perché non le im-portava che qualcuno le rispondesse. Edward era accanto a me e non mi la-sciò sola un attimo. Mi teneva stretta per la vita, avvicinandomi e allonta-nandomi da sé in maniera impercettibile, a seconda dei pensieri che gli af-follavano la mente, pensieri che probabilmente era meglio non conoscere.
Perciò mi preoccupai quando mi tolse il braccio dalla vita per allontanar-si.
«Resta qui», mi sussurrò all'orecchio. «Torno subito».
Non ebbi neppure il tempo di chiedergli il motivo della fuga e attraversò la folla con la solita grazia, quasi senza sfiorare i corpi accalcati. Lo fissai torva, mentre Jessica urlava sulla musica, tirandomi per il braccio, senza accorgersi che non l'ascoltavo affatto.
Lo vidi infilarsi nell'angolo buio dietro la porta della cucina, dove le luci brillavano a intermittenza. Si sporgeva verso qualcuno, ma per via della folla non riuscii a vedere chi fosse.
Mi alzai sulle punte dei piedi e allungai il collo. Proprio allora una luce rossa gli illuminò la schiena e scintillò sulle paillette del top di Alice. Le luci le sfiorarono il viso per mezzo secondo, ma bastò.
«Scusami un momento, Jess», mormorai sciogliendo il braccio dalla stretta. Non attesi una sua reazione e non mi preoccupai di averla offesa con il mio gesto brusco.
Mi feci largo tra i corpi, lasciandomi spingere in qua e in là. Qualcuno ballava. Corsi verso la porta della cucina.
Edward se n'era andato, ma Alice era ancora là, al buio, con lo sguardo vitreo: l'espressione vuota di chi ha appena visto con i suoi occhi un inci-dente terribile. Con una mano stringeva lo stipite della porta, come se a-vesse bisogno di tenersi a qualcosa.
«Che c'è, Alice, che c'è? Che hai visto?». La pregavo a mani giunte, im-plorante.
Fissava il vuoto. Seguii il suo sguardo e lo vidi incrociare quello di E-dward, dall'altra parte della stanza. La sua espressione era fredda, dura come il marmo. Si voltò e sparì nell'ombra sotto la scala.
Proprio in quel momento suonò il campanello, dopo ore di silenzio, e A-lice si voltò verso la porta, confusa e poi disgustata.
«Chi ha invitato i licantropi?», mi chiese arrabbiata.
Mi rabbuiai. «Colpa mia».
Ero convinta di aver ritirato l'invito. Tutto sommato, mai mi sarei imma-ginata che Jacob sarebbe venuto.
«Bene, allora te ne occupi tu, io devo parlare con Carlisle».
«No, Alice, aspetta!». Cercai di afferrarla per un braccio, ma se n'era già andata e la mia mano strinse l'aria.
«Mannaggia!», brontolai.
Lo sapevo. Alice aveva visto ciò che stava aspettando e io, onestamente, non credevo di reggere la tensione tanto da poter andare ad aprire la porta. Il campanello suonò di nuovo, a lungo: qualcuno lo teneva premuto. Voltai le spalle alla porta, con un gesto deciso, e perlustrai con lo sguardo la stanza buia, in cerca di Alice.
Poi mi diressi verso le scale.
«Ehi, Bella!».
Jacob aveva sfruttato un momento di tregua della musica per far tuonare la sua voce profonda. Malgrado i miei propositi, quando sentii pronunciare il mio nome alzai lo sguardo verso di lui.
Feci una smorfia.
Non era solo, i licantropi erano tre. Jacob era riuscito a entrare, affiancato da Quil ed Embry. Gli altri due erano tesissimi, si guardavano intorno come se fossero appena entrati in una cripta infestata da fantasmi. Embry teneva la porta con mano tremante e stava girato su un fianco, pronto a scappare.
Jacob mi salutava con la mano. Era più calmo degli altri due, anche se aveva il naso arricciato per il disgusto. Ricambiai il suo cenno di saluto - avrei preferito che fosse un addio - e mi voltai in cerca di Alice. M'infilai in uno spazio tra le schiene di Conner e Lauren.
Spuntò dal nulla, mi appoggiò una mano sulla spalla e fece per spingermi verso il buio della cucina. Sfuggii alla presa, ma a quel punto mi strinse il polso della mano sana per allontanarmi dalla folla.
«Che accoglienza!», commentò.
Scrollai via la mano e gli lanciai un'occhiataccia. «Che ci fai tu qui?».
«Mi hai invitato, te lo ricordi?».
«Nel caso in cui il mio gancio destro non sia stato eloquente, ti traduco il gesto in parole: era il mio modo per annullare l'invito».
«Non essere maleducata. Ti ho portato un regalo e tutto il resto».
Incrociai le braccia sul petto. Non volevo litigare con Jacob proprio in quel momento. Volevo scoprire cosa aveva visto Alice e di cosa stessero discutendo Edward e Carlisle. Allungai il collo per cercarli, sbirciando oltre Jacob.
«Riportalo dove l'hai comprato, Jake. Adesso ho da fare...».
Ma lui mi bloccò la strada, reclamando la mia attenzione.
«Non posso riportarlo indietro, non l'ho comprato in un negozio... l'ho fatto io. Mi ci è voluto anche parecchio tempo».
Distolsi di nuovo lo sguardo, ma non vedevo nessuno dei Cullen. Dov'e-rano andati tutti quanti? Scrutai la stanza buia.
«Oh, andiamo, Bell. Non far finta che io non ci sia!».
«Non sto facendo finta». Non li vedevo da nessuna parte. «Ascolta, Jake, al momento sono molto impegnata».
Mi mise la mano sotto il mento e mi alzò il viso. «Potrei avere la sua at-tenzione tutta per me almeno per qualche secondo, signorina Swan?».
Mi liberai dalla presa. «Non mi toccare, Jacob», sibilai.
«Scusa!», disse subito, alzando le mani in segno di resa. «Mi dispiace davvero. Anche per quel che è successo l'altro giorno. Non avrei dovuto baciarti in quel modo. Ho sbagliato. Credo... insomma, forse mi sono illuso che anche tu lo volevi».
«Illuso: non esiste aggettivo migliore!».
«Sii gentile. Potresti anche accettare le mie scuse, sai».
«Perfetto. Scuse accettate. Ora, se mi vuoi scusare tu un momento...».
«Okay», brontolò e la sua voce cambiò tanto da costringermi a smettere di cercare Alice per guardarlo bene in faccia. Fissava il pavimento, a occhi bassi. Sembrava quasi imbronciato.
«Forse è meglio se vai dai tuoi veri amici», disse con lo stesso tono di sconfitta. «Ho capito».
«Ehi, Jake, se dici così è un colpo basso», risposi scocciata.
«Ah, sì?».
«Dovresti saperlo». Mi avvicinai a lui e cercai di guardarlo negli occhi. Lui evitò i miei, rialzando la testa.
«Jake?».
Non reagì.
«Ehi, hai detto di avermi fatto un regalo, no?», chiesi. «L'hai detto tanto per dire? Dov'è?». Il mio tentativo di fingere entusiasmo non fu molto bril-lante, ma funzionò. Abbassò gli occhi e mi fece una smorfia.
Continuai con la mia goffa scusa e gli offrii la mano aperta. «Sto aspet-tando».
«Va bene», borbottò sarcastico. Frugò nella tasca posteriore dei jeans e ne estrasse un sacchettino di tessuto a trama larga, coloratissimo, legato con dei cordoncini in pelle. Lo posò sul palmo della mia mano.
«Che carino, Jake. Grazie!».
Sbuffò. «Il regalo è dentro, Bella».
«Ah».
I nodi mi davano qualche problema. Rassegnato, riprese il pacchetto e sciolse il laccio, tirando il cordino giusto. Tenni il palmo teso per prendere il sacchetto, ma lui lo capovolse e rovesciò qualcosa di argenteo sulla mia mano. Degli anelli di metallo tintinnarono, colpendosi l'uno con l'altro.
«Non ho fatto il braccialetto», ammise. «Soltanto il ciondolo».
A uno degli estremi del bracciale d'argento era allacciato un piccolo og-getto di legno. Lo presi tra le dita per osservarlo da vicino. La figurina ri-produceva con dettagli precisissimi un lupo in miniatura, molto realistico. L'aveva intagliato in un legno marrone rossiccio, che richiamava il colore della sua pelle.
«È bellissimo», sussurrai. «L'hai fatto tu? Come?».
Si strinse nelle spalle. «Me lo ha insegnato Billy. Lui è più bravo di me».
«È difficile crederti», mormorai, rigirandomi il piccolo lupo tra le mani.
«Ti piace davvero?».
«Sì, è incredibile, Jake».
Sorrise, prima felice, poi stizzito. «Insomma, ho pensato che potrebbe aiutarti a ricordarti di me ogni tanto. Sai come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore».
Ignorai la sua insinuazione. «Vieni, dai, aiutami a metterlo».
Tesi il braccio sinistro, perché il destro era ancora steccato. Allacciò il gancetto senza problemi, nonostante sembrasse troppo piccolo per le sue grandi dita.
«Lo indosserai?», chiese.
«Certo che sì».
Mi fece uno di quei suoi sorrisi felici che mi piacevano tanto.
Lo ricambiai per un attimo, poi i miei occhi perlustrarono di nuovo la stanza, alla ricerca ansiosa di un segno di Edward o di Alice.
«Perché sei così distratta?», domandò Jacob.
«Non è niente», mentii cercando di sembrare presente. «Grazie del regalo, davvero. Mi piace tantissimo».
«Bella?». Aggrottò la fronte, gettando un'ombra profonda nei suoi occhi. «Sta succedendo qualcosa, vero?».
«Jake, io... no, non è nulla».
«Non mentire, lo sai che non ci riesci. È meglio se mi dici cosa sta suc-cedendo. Certe cose dobbiamo saperle», disse lasciandosi scappare il plu-rale.
Probabilmente aveva ragione, i lupi dovevano sapere ciò che stava acca-dendo. Peccato che non fossi ancora sicura di cosa si trattasse. Soltanto A-lice avrebbe potuto spiegarmelo, ma ancora non la trovavo.
«Jacob, te lo dirò. Lasciami solo capire cosa sta succedendo, va bene? Devo parlare con Alice».
Comprese e gli si illuminarono gli occhi. «La sensitiva ha avuto una vi-sione».
«Sì, proprio quando sei arrivato».
«Ha a che fare con il succhiasangue che è entrato in camera tua?», do-mandò alzando la voce per la confusione della musica.
«In effetti, sì», ammisi.
Ci pensò su un minuto e inclinò la testa da una parte, mentre mi guardava in faccia. «Mi stai nascondendo qualcosa... qualcosa di importante».
Perché mentire di nuovo? Mi conosceva troppo bene. «Sì».
Jacob mi fissò per un momento, poi si voltò a cercare i suoi compagni, in piedi accanto alla porta, sulla difensiva e a disagio. Quando colsero la sua espressione, si mossero subito, sfilando agili tra gli invitati come se stessero ballando anche loro. Trenta secondi dopo erano accanto a Jacob e mi sovrastavano.
«Su, racconta», chiese Jacob.
Embry e Quil guardarono in faccia prima lui e poi me, perplessi e all'erta.
«Jacob, non so tutto». Mi guardai attorno, stavolta in cerca di aiuto. Mi avevano messo alle strette, in tutti i sensi.
«Dicci cosa sai, allora».
Incrociarono tutti e tre le braccia sul petto, contemporaneamente. Fu di-vertente, anche se il gesto sembrò molto minaccioso.
Proprio allora vidi Alice scendere le scale, la sua pelle bianchissima spiccava sotto la luce viola.
«Alice!», gridai sollevata.
Si voltò verso di me non appena la chiamai, malgrado le vibrazioni dei bassi soffocassero qualsiasi altro suono. Mi sbracciavo con foga e notai la sua espressione divenire torva non appena si accorse dei tre lupi che mi sovrastavano.
Fino a un istante prima, però, sul suo viso c'erano state tensione e paura. Incerta, aspettai che mi raggiungesse.
Jacob, Quil ed Embry arretrarono, a disagio, Lei mi cinse la vita.
«Ho bisogno di parlarti», mi sussurrò all'orecchio.
«Jake, ci vediamo dopo...», borbottai e ci allontanammo.
Jacob stese il suo lungo braccio per impedirci di proseguire e appoggiò la mano alla parete. «Ehi, non così in fretta».
Alice lo fissò, con gli occhi spalancati e increduli. «Scusa?».
«Diteci cosa sta succedendo», domandò con un ringhio.
Jasper apparve quasi letteralmente dal nulla. Un secondo dopo Alice e io eravamo incollate al muro perché Jacob ci impediva di muoverci. Jasper si avvicinò al braccio di Jacob, con un'espressione che faceva davvero paura.
Jacob ritrasse lentamente il braccio. Fu la scelta migliore, considerato che probabilmente non voleva perderlo.
«Abbiamo il diritto di sapere», borbottò Jacob e inchiodò Alice con uno sguardo.
Jasper s'intromise e i tre licantropi si misero sulla difensiva.
«Ehi, calma», dissi con una risata forzata e isterica. «Siamo a una festa, ricordate?».
Nessuno badò alle mie parole. Jacob fissava Alice, mentre Jasper in-chiodava Jacob con lo sguardo. Alice si fece di colpo pensierosa: «Va bene, Jasper. Ha diritto di sapere».
Jasper non si rilassò.
Ero sicura che per la tensione mi sarebbe esplosa la testa. «Cosa vedi, Alice?».
Fissò Jacob per un secondo, poi si girò verso di me.
«La decisione è stata presa».
«State andando a Seattle?».
«No».
Mi sentii impallidire. Lo stomaco mi si chiuse. «Stanno arrivando», far-fugliai.
I giovani Quileute ci guardavano in silenzio, cercando di interpretare ogni emozione nascosta sui nostri visi. Erano immobili, anche se non del tutto calmi. Le loro mani tremavano.
«Sì».
«A Forks», sussurrai.
«Sì».
«Per...?».
Mi fissò negli occhi e annuì. «Uno di loro stringe la tua camicia rossa».
Provai a deglutire.
Dalla sua espressione si capiva che Jasper non era d'accordo. Non voleva che si parlasse di queste cose davanti ai licantropi, ma aveva qualcosa da dire. «Non possiamo lasciarli avvicinare. Non abbiamo abbastanza forze per proteggere la città».
«Lo so», disse Alice, desolata. «Ma non importa dove li fermeremo. Sa-remo sempre in pochi, e alcuni di loro verranno a cercarci anche qui».
«No!», sussurrai.
La musica sovrastò la mia voce. Tutto intorno a noi, i miei amici, i vicini e gli invidiosi mangiavano, ridevano e si muovevano al ritmo della musica, senza sapere che stavano per trovarsi faccia a faccia con il terrore, con il pericolo, forse con la morte. Per colpa mia.
«Alice», la chiamai con un filo di voce. «Devo andarmene».
«Non è una soluzione. Non abbiamo a che fare con un segugio. Prima di tutto verranno a cercarti qui».
«E allora dovrò andargli incontro!». Se la mia voce non fosse stata così roca e tesa, sarebbe stato un urlo. «Se trovano quel che cercano, forse an-dranno via e non faranno male a nessuno!».
«Bella!», protestò Alice.
«Ora basta», esclamò Jacob con voce bassa ma decisa. «Cosa sta arri-vando?».
Alice lo inchiodò con il suo sguardo di ghiaccio. «Vampiri. E sono pa-recchi».
«Perché?».
«Per Bella. È tutto quello che sappiamo».
«Sono troppi per voi?», domandò.
Jasper si risentì. «Abbiamo qualche vantaggio, cane. Sarà una lotta ad armi pari».
«No», disse Jacob, e un mezzo sorriso strano e fiero gli illuminò il viso. «Non sarà ad armi pari».
«Eccellente!», sibilò Alice.
Impietrita dalla paura, fissai i suoi lineamenti perfetti. La disperazione aveva ceduto il posto alla gioia.
Sorrise a Jacob e lui ricambiò.
«La visione è sparita, ovviamente», gli disse con voce soddisfatta. «È seccante, ma, tutto sommato, va bene così».
«Dobbiamo coordinarci», disse Jacob. «Non sarà facile per noi. Ma in fondo dovrebbe essere responsabilità nostra».
«Ora non esageriamo, però abbiamo davvero bisogno di aiuto. Non sa-remo troppo pignoli».
«Alt, alt, calma», li interruppi.
Jacob era chino su Alice, pronta all'azione. Entrambi erano accesi d'en-tusiasmo, ma con il naso arricciato per l'odore. Mi guardarono impazienti.
«Coordinarci?», ripetei a denti stretti.
«Non dirmi che vorresti tenerci lontani da tutto questo».
«Voi resterete fuori da tutto questo».
«La tua sensitiva non la pensa così».
«Alice... Digli di no!», insistetti. «Li uccideranno!».
Jacob, Quil, ed Embry scoppiarono a ridere.
«Bella», disse Alice con la sua voce confortante e tranquilla, «divisi, ci uccideranno tutti. Uniti...».
«Non avremo problemi», concluse Jacob. Quil rise di nuovo.
«Quanti sono?», chiese Quil impaziente.
«No!», gridai.
Alice non mi guardò nemmeno. «Dipende: oggi sono in venti, però stan-no diminuendo».
«Perché?», chiese Jacob, incuriosito.
«È una storia lunga», disse Alice guardandosi intorno. «E questo non è il posto adatto per raccontarla».
«Più tardi?», Jacob insistette.
«Sì», gli rispose Jasper. «Stavamo già pianificando una... riunione stra-tegica. Se volete combattere assieme a noi, avrete bisogno di addestramen-to».
I licantropi non furono granché contenti della seconda parte della frase.
«No!», urlai.
«Sarà davvero strano», disse Jasper pensieroso. «Non ho mai pensato di combattere insieme a dei licantropi. Non è mai successo prima, sono sicu-ro».
«Non c'è dubbio», confermò Jacob. Aveva fretta. «Dobbiamo tornare da Sam. A che ora ci vediamo?».
«A voi quando va bene?».
Tutti e tre alzarono gli occhi. «A che ora?», ripeté Jacob.
«Alle tre in punto?».
«Dove?».
«Nella foresta di Hoh, circa tre chilometri a nord della base delle guardie forestali. Se venite da ovest sarete in grado di seguire le nostre scie».
«Ci saremo».
Fecero per andarsene.
«Aspetta, Jake!», urlai. «Per favore! Non farlo!».
Si fermò e si voltò per sorridermi, mentre Quil ed Embry si dirigevano impazienti verso la porta. «Non essere ridicola, Bells. Mi stai facendo un regalo molto più bello di quello che ti ho fatto io».
«No!», urlai di nuovo. Il suono di una chitarra elettrica annegò la mia voce.
Non rispose e corse a raggiungere i suoi amici, che erano già usciti. Im-potente, lo guardai svanire nel buio.

18
Istruzioni

«È stata la festa più lunga della storia», protestai mentre tornavamo a ca-sa.
Edward sembrava d'accordo. «Ormai è finita», disse e per confortarmi mi accarezzò il braccio.
In fondo ero l'unica bisognosa di conforto. Edward stava benissimo; anzi, i Cullen stavano benissimo.
Mi avevano rassicurato tutti quanti. Alice, mentre stavo uscendo, si era alzata sulle punte per farmi una carezza sulla testa e con un'occhiata a Jasper era riuscita a tranquillizzarmi. Esme mi aveva dato un bacio in fronte e mi aveva promesso che tutto sarebbe andato per il meglio. Emmett si era messo a ridere, dopo aver protestato perché fare a pugni con i licantropi era una mia esclusiva... Grazie alla proposta di Jacob erano tutti più tranquilli, persino entusiasti, dopo tante settimane di tensione. La fiducia aveva scacciato il dubbio. La festa era finita in allegria, come una cerimonia in grande stile.
Ma non per me.
Ero spaventata - terrorizzata - all'idea che i Cullen combattessero per di-fendermi. Mi costava già troppo permetterglielo. Più di così non potevo.
E ora ci si erano messi anche Jacob e quei pazzi furiosi dei suoi fratelli, quasi tutti più giovani di me. Quei ragazzi ipermuscolosi e fuori taglia erano impazienti come per un picnic sulla spiaggia. Avevo i nervi a pezzi e a fior di pelle. Non sapevo per quanto tempo ancora sarei riuscita a non urlare.
Sussurrai, per tenere la voce sotto controllo. «Stanotte vengo con voi».
«Bella, sei sfinita».
«Credi che riuscirei a dormire?».
Si rabbuiò. «È un esperimento. Non sappiamo se è possibile... cooperare con loro. Non ti voglio fra i piedi».
Ovviamente questo aumentò il mio desiderio di accompagnarlo. «Se non mi porti con te, lo chiederò a Jacob».
Mi guardò torvo. Era un colpo basso, certo. Ma non mi potevano lasciare a casa.
Non rispose, e ormai eravamo da Charlie. La luce era accesa.
«Ci vediamo di sopra», mormorai.
Entrai in punta di piedi. Charlie era addormentato in soggiorno, traboc-cava dal divano troppo piccolo e russava così forte che non l'avrei svegliato nemmeno accendendo una sega elettrica.
Lo scrollai con vigore.
«Papà! Charlie!».
Grugnì, a occhi chiusi.
«Sono tornata. Ti farà male la schiena se continui a dormire qui. Dai, è ora di andare a letto».
Gli ci volle qualche altro scossone, gli occhi non gli si aprirono del tutto, ma riuscii a farlo alzare dal divano. Lo accompagnai a letto, dove crollò ancora vestito, e riprese a russare.
Di sicuro, per un po' non sarebbe venuto a cercarmi.
Edward mi aspettava in camera, mentre mi lavavo la faccia e indossavo i jeans e una felpa. Poi riposi nell'armadio i vestiti che mi aveva regalato A-lice e lui mi guardò con aria triste dalla sedia a dondolo.
«Vieni qui», gli dissi prendendolo per mano.
Lo spinsi sul letto e mi raggomitolai addosso a lui. Forse aveva ragione, ero abbastanza stanca da addormentarmi. Ma non lo avrei lasciato sgattaio-lare via da solo.
Mi avvolse nella coperta e poi mi abbracciò.
«Per favore, calmati».
«Certo».
«Andrà tutto bene, Bella. Lo sento». Sprizzava sollievo da tutti i pori.
Nessuno tranne me si preoccupava dell'incolumità di Jacob e dei suoi amici. Nemmeno Jacob e i suoi amici. Loro meno di tutti.
Intuì che stavo per perdere la testa. «Ascolta, Bella. Sarà una cosa da nulla. Coglieremo i neonati di sorpresa. Non possono sapere che esistono i licantropi. Nei ricordi di Jasper ho visto come agiscono in gruppo. Sono convinto che le tecniche di caccia dei lupi funzioneranno alla perfezione contro di loro. E una volta che li avremo separati e confusi, non ci resterà molto da fare. A qualcuno toccherà persino stare in disparte», scherzò.
«Una passeggiata», mormorai inerte, appoggiata al suo petto.
«Sssh». Mi accarezzò la guancia. «Vedrai. Ora non ti preoccupare».
Iniziò a canticchiare la mia ninna nanna, ma stranamente non mi calmai.
Le persone... insomma, vampiri e licantropi, ma chi se ne importava - le persone a cui volevo bene rischiavano di farsi del male. Per colpa mia. Di nuovo. Speravo che la mia sfortuna ci vedesse un po' meglio. Mi sembrava di urlare contro un cielo vuoto: È me che vuoi! Via di qui! Prendi me!
Provai a pensare al modo per costringere la mia sfortuna a prendere la mira e a colpirmi. Facile. Avrei dovuto solo aspettare, attendere il momento opportuno e...
Non mi addormentai. Il tempo passò sorprendentemente in fretta ed ero più che sveglia quando Edward mi fece alzare.
«Sei sicura che non vuoi restare qui a dormire?».
Gli lanciai un'occhiataccia.
Sospirò e mi prese in braccio prima di saltare giù dalla finestra. Poi sfrecciò per la foresta buia con me in spalla e si capiva che era euforico persino dal modo in cui correva. Correva come quando lo facevamo per divertimento, per sentire il vento nei capelli. Era il genere di cose che, in tempi più tranquilli, mi rendeva felice.
Arrivati nei pressi dell'ampia radura trovammo la sua famiglia al com-pleto, impegnata a chiacchierare, del tutto rilassata. Ogni tanto nel bosco risuonava la risata fragorosa di Emmett. Edward mi fece scendere e prose-guimmo a piedi, mano nella mano, fino a raggiungerli.
Mi ci volle un minuto, perché la luna era nascosta dietro le nuvole ed era buio pesto, ma mi resi conto che eravamo nel campo da baseball. Lo stesso posto in cui, più di un anno fa, la mia prima serata allegra con la famiglia Cullen era stata interrotta da James e dal suo clan. Era strano ritrovarsi lì di nuovo... come se il raduno non fosse completo, in assenza di James, Laurent e Victoria. Ma James e Laurent non sarebbero mai arrivati. Lo schema non si sarebbe ripetuto. Forse tutti gli schemi si erano rotti.
Sì, qualcuno era uscito dal seminato. Possibile che i Volturi fossero dav-vero così accomodanti?
Ne dubitavo.
Victoria mi era sempre sembrata una forza della natura - un uragano che soffia dritto verso la costa - inevitabile, implacabile, ma prevedibile. Forse era sbagliato sottovalutarla. Doveva essere in grado di adattarsi.
«Sai a cosa sto pensando?», domandai a Edward.
Lui rise. «No».
Quasi sorrisi.
«A cosa stai pensando?».
«Penso che sia tutto collegato. Non solo queste due cose, ma anche la terza».
«Non ti seguo».
«Sono successe tre cose brutte da quando sei tornato». Le contai sulle dita. «I neonati a Seattle. L'estraneo in casa mia. E, prima di tutto, la ri-comparsa di Victoria».
Mi guardò torvo mentre meditava sulle mie parole. «Perché dici così?».
«Perché sono d'accordo con Jasper: i Volturi amano le regole. Farebbero di certo un lavoro migliore». E se avessero voluto uccidermi, sarei già morta, pensai. «Ricordi di quando l'anno scorso ti sei messo sulle tracce di Victoria?».
«Sì». Aggrottò la fronte. «Non mi è riuscito granché bene».
«Alice mi ha detto che sei stato in Texas. L'hai seguita fin laggiù?».
Alzò le sopracciglia. «Sì. Ecco...».
«Ecco... l'idea potrebbe esserle venuta quando era là. Non si rende conto di quel che ha combinato e i neonati le sono sfuggiti di mano».
Scosse la testa. «Soltanto Aro sa esattamente come funzionano le visioni di Alice».
«Aro ne sa di più, ma può darsi che Tanya, Irina e il resto dei tuoi amici di Denali ne sappiano abbastanza, no? Laurent ha vissuto a lungo con loro. Era ancora in buoni rapporti con Victoria, continuava a farle dei favori, non credi che potrebbe averle spifferato tutto?».
Edward si accigliò. «Non è stata Victoria a entrare in camera tua».
«E se si fosse fatta dei nuovi amici? Pensaci, Edward. Se è lei la causa di ciò che succede a Seattle, di sicuro si è fatta un sacco di alleati. Nel senso che se li è creati».
Ci pensò su e alla fine annuì. «È possibile. Resto convinto che c'entrino anche i Volturi... Ma la tua teoria ha un fondamento. Le tue supposizioni combaciano perfettamente con la personalità di Victoria. Ha dimostrato fin dall'inizio una tendenza all'autoconservazione, forse è una sorta di talento. E questo piano le permetterebbe di non esporsi, restando semplicemente seduta dietro le quinte e lasciando che i neonati scatenino l'inferno. In que-sto modo non dovrebbe nemmeno preoccuparsi dei Volturi. Forse conta sul fatto che, anche se vincessimo noi, subiremmo perdite gravi. E dato che nessuno dei suoi sopravviverà, non avrà testimoni scomodi. E anche se ci fossero dei sopravvissuti», continuò concentrato, «scommetto che ha già progettato di ucciderli lei stessa... Forse è così, ma sono convinto che abbia almeno un compagno più maturo degli altri. Chi ha risparmiato tuo padre non era un novellino...».
Aggrottò le sopracciglia, e all'improvviso mi sorrise, di ritorno da quel sogno a occhi aperti. «Sì, è plausibile. Comunque dobbiamo essere pronti a tutto finché non ne saremo sicuri. Oggi sei molto perspicace», aggiunse. «Incredibile».
Sospirai. «Forse è soltanto il posto che mi ispira. La sento così vicina... come se mi stesse osservando».
Vidi i muscoli della sua mascella tendersi al solo pensarci. «Non ti toc-cherà, Bella», disse.
I suoi occhi, però vagavano tra gli alberi, nell'oscurità. Scrutò le ombre con un'espressione molto strana. Le labbra scoprirono i denti e i suoi occhi brillarono di una luce diversa. Una specie di speranza selvaggia e fiera.
«Non sai cosa darei perché fosse davvero qui vicino», mormorò. «Victo-ria, o chiunque altro abbia mai pensato di farti del male. Per avere la pos-sibilità di eliminarla con le mie mani, stavolta».
Rabbrividii per la brama di vendetta e la ferocia nella sua voce, intrecciai le mie dita strette alle sue e sperai di essere forte abbastanza da prolungare quella presa per l'eternità.
Eravamo insieme alla sua famiglia e notai che Alice non era più ottimista come gli altri. Stava in disparte, imbronciata, e guardava Jasper che si stiracchiava e si riscaldava come prima di una gara di atletica.
«Alice non sta bene?», sussurrai.
Edward, tornato in sé, ridacchiò. «I licantropi non sono ancora arrivati, perciò non può vedere cosa succederà. Quando è cieca si sente a disagio».
Alice era seduta più lontano, ma lo sentì. Alzò lo sguardo da terra e gli fece una linguaccia. Lui rise di nuovo.
«Ciao, Edward», salutò Emmett. «Ciao, Bella. Ti ha portata ad allenarti con noi?».
Edward ringhiò a suo fratello. «Per favore, Emmett, non farle venire in mente certe idee».
«I vostri ospiti quando arrivano?», chiese Carlisle a Edward.
Edward si concentrò per un momento.
«Tra un minuto e mezzo. Ma dovrò fare da interprete. Non si fidano ab-bastanza di noi, perciò non verranno in forma umana».
Carlisle annuì. «È una situazione complicata. Dovremmo essergli grati per il solo fatto che vengono».
Fissai Edward spalancando gli occhi. «Vengono sotto forma di lupi?».
Annuì, attento alla mia reazione. Mi sentii soffocare, pensando alle due volte in cui avevo visto Jacob trasformato in lupo: la prima nella radura con Laurent, la seconda nel viottolo nella foresta, quando Paul si era arrabbiato con me... Due ricordi intrisi di terrore.
Una luce strana balenò negli occhi di Edward, come se si fosse improv-visamente ricordato di una cosa niente affatto piacevole. Si voltò in fretta e tornò da Carlisle e dagli altri.
«Preparatevi: ci stanno tenendo d'occhio».
«Che intendi?», domandò Alice.
«Sssh», avvertì Edward e guardò dietro di lei, nel buio.
All'improvviso il cerchio informale dei Cullen si ruppe a formare una fi-la, con Jasper ed Emmett ai lati. Da come Edward mi si avvicinò, intuii che li sentiva nei pressi. Gli strinsi forte la mano.
Provai a sbirciare tra i rami, ma non vidi nulla.
«Maledizione», borbottò Emmett. «Hai mai visto una cosa del genere?».
Esme e Rosalie si scambiarono un'occhiata sorpresa.
«Cos'è?», sussurrai più piano che potevo. «Non vedo niente».
«Il branco è cresciuto di numero», mi disse Edward all'orecchio.
Eppure gli avevo detto che Quil si era unito a loro, no? Mi sforzavo di distinguere i sei lupi nell'oscurità. Alla fine qualcosa brillò nel buio: i loro occhi, più in alto di dove avrebbero dovuto essere. Mi ero scordata di quanto erano grossi. Più o meno come dei cavalli, ma più massicci per via dei muscoli e del pelo. E avevano denti come coltelli, impossibile non no-tarli.
Vedevo soltanto gli occhi. Concentrandomi, mi resi conto che erano più di sei paia. Uno, due, tre... Li contai rapidamente. Due volte.
Erano in dieci.
«Incredibile», disse Edward in modo quasi inudibile.
Carlisle fece un passo in avanti, lento ma deciso. Fu un movimento pru-dente, con lo scopo di rassicurarli.
«Benvenuti», disse ai lupi invisibili.
«Grazie», rispose Edward in un tono vago e piatto. Capii subito che in realtà era stato Sam a parlare. Guardai gli occhi che brillavano al centro della fila, quelli più in alto, quelli del lupo più grosso di tutti. Nell'oscurità era impossibile distinguere le sagome dei grandi lupi neri.
Edward parlò con la stessa voce distaccata, riportando le parole di Sam. «Guarderemo e ascolteremo, ma nulla più. È tutto ciò che possiamo chie-dere al nostro autocontrollo».
«È più che sufficiente», rispose Carlisle. «Mio figlio», indicò Jasper, teso e pronto, «ha esperienza in questo campo. Ci insegnerà come lottano i neonati, come possiamo sconfiggerli. Sono sicuro che potrete applicare queste indicazioni al vostro modo di cacciare».
«Sono diversi da voi?», chiese Sam per bocca di Edward.
Carlisle annuì. «Sono tutti giovanissimi: hanno giusto un paio di mesi, come vampiri. Sono davvero dei bambini, in un certo senso. Non conosco-no la strategia, hanno solo forza bruta. Stasera erano in venti. Dieci per noi e dieci per voi... non dovrebbe essere difficile. Potrebbero diminuire. I ne-onati si scontrano tra loro di continuo».
Un mormorio attraversò la fila dei lupi, un brontolio basso e simile a un ringhio, che in qualche modo esprimeva entusiasmo.
«Siamo in grado di prenderne in consegna anche di più, se necessario», tradusse Edward con un tono meno indifferente.
Carlisle sorrise. «Vedremo come si mette».
«Sapete quando e come arriveranno?».
«Attraverseranno le montagne tra quattro giorni, nella tarda mattinata. Non appena si avvicineranno, Alice ci aiuterà a intercettarli».
«Grazie delle informazioni. Terremo gli occhi aperti».
Emisero un sibilo e all'unisono gli occhi si abbassarono verso il suolo.
Il silenzio durò per due battiti di cuore, poi Jasper entrò nello spazio che separava i vampiri dai licantropi. Non mi fu difficile vederlo: la sua pelle brillava nel buio come gli occhi dei lupi. Lanciò un'occhiata guardinga verso Edward, che annuì e voltò le spalle ai lupi. Era chiaramente a disagio.
«Carlisle ha ragione». Jasper parlò solo a noi; sembrava cercasse di i-gnorare gli spettatori dietro di sé. «Si azzuffano come bambini. Le cose più importanti da ricordare sono due: primo, non lasciate che vi stringano tra le braccia e, secondo, non cercate di attaccarli in maniera prevedibile. È ciò che si aspettano. Se vi avvicinate di lato e continuate a muovervi, li confonderete e non reagiranno con prontezza. Emmett?».
Emmett uscì dalla fila con un sorriso stampato sul volto.
Jasper indietreggiò verso l'estremità della fila dei nemici alleati. Indicò a Emmett di avvicinarsi.
«Okay, inizia Emmett. È l'esempio migliore per simulare l'attacco di un neonato».
Emmett affilò lo sguardo. «Proverò a non romperti nulla», mormorò.
Jasper sorrise. «Volevo dire che Emmett fa affidamento sulla sua forza fisica. Ha un modo di attaccare molto diretto. I neonati non adotteranno tecniche sottili. Attaccami nella maniera più semplice, Emmett».
Jasper indietreggiò ancora di qualche passo, in evidente stato di tensione.
«Okay, Emmett. Prova a prendermi».
Sparì dalla mia vista: quando Emmett lo attaccò come un orso, sorriden-do e ringhiando allo stesso tempo, Jasper divenne un'immagine sfocata. Anche Emmett era veloce, velocissimo, ma non quanto lui. Sembrava in-consistente, come un fantasma, e le grandi mani di Emmett diedero più volte l'impressione di averlo catturato, ma in realtà strinsero l'aria. Accanto a me, Edward si sporgeva in avanti, con gli occhi puntati sul combattimen-to. Poi Emmett si bloccò.
Jasper lo aveva preso alle spalle, i denti a pochi centimetri dalla sua gola.
Emmett lanciò un'imprecazione.
Dai lupi venne un mormorio di approvazione.
«Da capo», insistette Emmett, stavolta senza sorridere.
«Tocca a me», protestò Edward. Le mie dita strinsero le sue.
«Tra un minuto», disse Jasper con un ghigno. «Prima voglio far vedere una cosa a Bella».
Fece cenno ad Alice di alzarsi in piedi e io restai a guardare in preda all'ansia.
«So che sei preoccupata per lei», mi disse mentre Alice avanzava tran-quilla nello spiazzo. «Voglio dimostrarti perché non è necessario».
Sapevo che Jasper non avrebbe mai fatto del male ad Alice, ma non fu semplice vederlo in posizione di attacco di fronte a lei. Alice rimase im-mobile, lanciò un'occhiata ingenua a Emmett e sorrise tra sé. Jasper si spo-stò in avanti, poi strisciò alla sua sinistra. Lei chiuse gli occhi.
Il mio cuore batté forte quando Jasper avanzò a grandi passi in direzione di Alice.
Poi fece un salto e sparì. Riapparve alle spalle di Alice, che non sembrava essersi spostata di un centimetro.
Jasper volteggiò e le si lanciò di nuovo contro, per poi acquattarsi dietro di lei come la prima volta; per tutto il tempo Alice restò ferma, sorridente, a occhi chiusi.
Mi concentrai su Alice.
In effetti, si era mossa ma io non me n'ero accorta, distratta com'ero dagli attacchi di Jasper. Faceva un breve passo avanti nel secondo esatto in cui Jasper le andava incontro. Fece un altro passo quando Jasper cercò di afferrarla per la vita, sibilando.
Jasper si fece sotto e Alice iniziò a muoversi più veloce. Stava danzando: disegnava spirali, volteggiava e girava su se stessa. Jasper era il suo partner: affondava i colpi, cercava di afferrarla, ma non la toccava mai, come se ogni movimento facesse parte di una coreografia. Alla fine Alice scoppiò a ridere.
All'improvviso, gli era salita sulle spalle e gli aveva appoggiato le labbra sul collo. «Preso!», disse e gli baciò la gola.
Jasper alzò le spalle e scosse la testa. «Sei davvero un mostriciattolo spaventoso».
I lupi mormorarono di nuovo. Questa volta sembravano intimoriti.
«È giusto che imparino a rispettarci», bisbigliò Edward divertito. Poi, a voce più alta, disse: «Tocca a me».
Mi strinse la mano prima di lasciarla.
Alice tornò al proprio posto accanto a me. «Fico, eh?», chiese con aria soddisfatta.
«Molto», commentai, senza togliere gli occhi da Edward che si muoveva verso Jasper in silenzio, agile e attento come un gatto selvatico.
«Ti ho tenuta d'occhio, Bella», sussurrò all'improvviso, a voce così bassa che riuscii a stento a sentirla, nonostante mi parlasse all'orecchio.
I miei occhi guizzarono verso i suoi, poi tornarono a Edward. Era con-centrato su Jasper, entrambi fecero delle finte, mentre lui si avvicinava.
Alice mi guardò con un'espressione di rimprovero.
«Lo avvertirò non appena i tuoi piani saranno definiti», disse minacciosa, ma sempre mormorando. «Non ti serve a nulla metterti in pericolo. Credi che uno dei due smetterebbe di lottare se tu morissi? Continuerebbero entrambi, lo faremmo tutti. Non puoi cambiare le cose, perciò fai la brava, d'accordo?».
Feci una smorfia e provai a ignorarla.
«Ti tengo d'occhio», ripeté.
Edward aveva messo Jasper alle strette, la lotta tra loro era ad armi pari, diversa dagli scontri precedenti. Jasper contava su secoli di esperienza, cercava di seguire l'istinto per quanto poteva, ma il pensiero anticipava sempre di un istante le sue azioni. Edward era appena più veloce, ma i mo-vimenti di Jasper gli risultavano strani. Si affrontarono più volte, emettendo ringhi istintivi, senza che nessuno dei due riuscisse a prendere il so-pravvento sull'altro. Era difficile starli a guardare, ma ancor di più disto-gliere lo sguardo. Si muovevano troppo in fretta per capire cosa facevano. Ogni tanto gli sguardi assorti dei lupi attiravano la mia attenzione. Di certo stavano cogliendo più dettagli di me - forse anche più del necessario.
Alla fine Carlisle si schiarì la voce. Jasper rise e fece un passo indietro. Edward si drizzò e gli sorrise.
«Torniamo al lavoro», disse Jasper. «È finita in pareggio».
Toccò a tutti, a Carlisle, poi a Rosalie, Esme e di nuovo Emmett. Sbirciai di nascosto, tremando di paura quando Jasper attaccò Esme. Fu lo scontro più difficile da seguire. Alla fine rallentarono, ma non abbastanza da permettermi di seguirli bene, e Jasper diede altre istruzioni.
«Vedi cosa sto facendo?», chiedeva. «Ecco, bene, così», li incoraggiava. «Concentrati sui lati. Non scordarti quali sono i punti che bersagliano. Continua a muoverti».
Edward era sempre molto concentrato, vedeva e ascoltava cose che gli altri non percepivano.
Mano a mano che i miei occhi si appesantivano, diventava difficile stare attenta. Da un po' non dormivo bene e stavo per battere il record delle ven-tiquattr'ore sveglia. Mi appoggiai a Edward e chiusi gli occhi.
«Abbiamo quasi finito», sussurrò.
Jasper confermò, poi si voltò per la prima volta verso i lupi, di nuovo a disagio. «Domani ci eserciteremo ancora e voi siete invitati ad assistere».
«Sì», rispose Edward con la voce fredda di Sam. «Ci saremo».
Poi Edward fece un sospiro, mi sfiorò il braccio e si allontanò per rag-giungere la sua famiglia.
«Il branco pensa che per loro sarebbe importante imparare a riconoscere i nostri odori per non rischiare di confondersi. Se riusciamo a stare fermi, sarà più facile».
«Certo», disse Carlisle a Sam. «Come volete».
Mentre si alzavano, dal branco dei lupi giunse un ringhio rauco e tetro.
Avevo gli occhi spalancati, la stanchezza ormai era un ricordo.
L'oscurità della notte iniziava a svanire. Il sole, ancora ben nascosto die-tro le montagne, iniziava a illuminare le nuvole. Mentre si avvicinavano riuscii a distinguere le sagome... i colori.
Sam era in testa al gruppo, come al solito. Enorme, quasi da non crederci, nero come la notte, un mostro uscito dai miei incubi nel vero senso della parola: dopo il mio primo incontro con loro, Sam e gli altri erano apparsi spesso nei miei sogni peggiori.
Ora che riuscivo a vederli tutti, ad associare i corpi agli occhi, mi sem-bravano più di dieci. Il branco era una presenza sconvolgente.
Con la coda dell'occhio mi accorsi di Edward, intento a scrutare ogni mia reazione.
Sam si avvicinò a Carlisle, che stava davanti a tutti. Dietro la sua coda, il resto del branco. Jasper s'irrigidì, mentre Emmett, all'altro capo della fila, sorrise rilassato.
Sam annusò Carlisle, con una specie di smorfia. Poi passò a Jasper.
Fissavo il branco minaccioso dei lupi. Ero sicura di poter riconoscere qualcuno dei nuovi acquisti. C'era un lupo grigio pallido molto più piccolo della media, con il pelo ritto per il disgusto. Un altro, color sabbia, sem-brava malfermo e scoordinato rispetto agli altri. Quando Sam lo lasciò solo, tra Carlisle e Jasper, lanciò un gemito.
Indugiai sul lupo che stava dietro a Sam. Aveva il pelo marrone rossiccio, più lungo di quello degli altri, molto irsuto. Era alto quasi quanto Sam, il secondo del gruppo in ordine di grandezza. Il suo atteggiamento era in-differente, distaccato, di fronte a quella che per il resto del branco era una prova.
L'enorme lupo rossiccio sembrò accorgersi del mio sguardo e mi fissò con i suoi occhi scuri e familiari.
Ricambiai, provando a convincermi di ciò che già sapevo. Sul mio viso c'erano meraviglia e rapimento.
Il lupo aprì la bocca e mi mostrò i denti. Sarebbe stata un'espressione spaventosa, non fosse stato per la lingua che penzolava da un lato, come in un sorriso da lupo.
Ridacchiai.
Il sorriso di Jacob si distese e mostrò i denti affilati. Uscì dal branco, i-gnorando gli sguardi degli altri. Camminò a passo svelto, oltrepassò Alice ed Edward e si fermò a mezzo metro da me. Lanciò a Edward una breve occhiata.
Lui restò immobile, una statua, senza perdermi di vista.
Jacob si piegò sulle zampe anteriori e abbassò la testa solo per arrivare con il muso all'altezza del mio volto, e scrutò la mia espressione proprio come stava facendo Edward.
«Jacob?», sussurrai.
Il ringhio di risposta gli risuonò in gola come una risata soffocata.
Allungai la mano e, con le dita che mi tremavano, toccai il pelo fulvo ai lati del muso.
Gli occhi scuri si chiusero e Jacob posò l'enorme testa sulla mia mano. Un gorgoglio gli risuonò in gola.
Il pelo era soffice e ruvido allo stesso tempo, caldo al contatto con la mia pelle. Vi feci scorrere le dita, curiosa, studiandone la struttura e lisciandolo sul collo, dove si faceva più scuro. Non mi ero accorta di quanto mi fossi avvicinata; a sorpresa, Jacob mi leccò tutta la faccia.
«Ehi! Jake, che schifo!», dissi. Mi allontanai da lui con un salto e lo col-pii sul muso, proprio quel che avrei fatto se fosse stato nelle sue sembianze umane. Lui si scansò e il latrato che gli uscì dalle fauci era chiaramente una risata.
Mi pulii la faccia con la manica del maglione e non riuscii a trattenermi dal ridere insieme a lui.
All'improvviso mi resi conto che ci stavano guardando tutti: i Cullen a-vevano un'espressione perplessa e in qualche modo disgustata, mentre i lupi erano maschere indecifrabili. Sam non sembrava contento.
E poi c'era Edward, teso e chiaramente deluso. Mi resi conto che si a-spettava un'altra reazione da me. Per esempio, un urlo e una fuga in preda al terrore.
Jacob ripeté il verso che ricordava una risata.
Gli altri lupi se ne stavano andando, senza staccare gli occhi dai Cullen. Jacob mi restò accanto e li guardò andare via. Sparirono presto nel fitto della foresta. Due soli rimasero vicino agli alberi, esitanti, in una posizione che ne rivelava tutta l'ansia.
Edward sospirò e ignorando Jacob mi si avvicinò. Poi mi prese per mano. «Andiamo?».
Prima che potessi rispondere, aveva alzato gli occhi verso Jacob.
«Non ho ancora definito tutti i dettagli», disse, rispondendo a una do-manda che Jacob aveva solo pensato.
Il lupo Jacob rispose con un ringhio cupo.
«È più complesso di quanto tu pensi», disse Edward. «Non ti preoccupa-re; farò in modo che tutto proceda nel modo migliore».
«Di cosa state parlando?», domandai.
«Di strategie», rispose Edward.
La testa di Jacob si mosse da una parte all'altra, per guardare prima lui, poi me. All'improvviso si alzò e corse verso il fitto della foresta. Mentre sfrecciava, notai per la prima volta un pezzo di tessuto nero, legato alla sua zampa posteriore.
«Aspetta», gridai, allungando automaticamente una mano per fermarlo. Ma scomparve tra gli alberi nel giro di pochi secondi, assieme agli altri due lupi.
«Perché se n'è andato?», chiesi irritata.
«Tornerà», disse Edward sospirando. «Vuole essere sicuro di parlare da solo con noi».
Fissai il punto della foresta in cui era scomparso Jacob, appoggiandomi di nuovo al fianco di Edward. Stavo per crollare, ma non volevo cedere.
Jacob riapparve, stavolta in forma umana. Era a torso nudo e aveva i ca-pelli arruffati e ispidi. Indossava soltanto dei pantaloncini corti e cammi-nava a piedi nudi sul terreno freddo. Era solo, ma avevo il sospetto che i suoi amici fossero nascosti tra gli alberi. Non gli ci volle molto ad attraver-sare la radura, anche se si tenne alla larga dai Cullen, che chiacchieravano tranquilli in disparte.
«Okay, succhiasangue», disse a pochi passi da noi. Era evidente che stava portando avanti la conversazione che mi ero persa. «Cosa c'è di così complicato?».
«Devo considerare ogni possibilità», disse Edward con tutta calma. «Che facciamo se qualcuno vi raggiunge?».
Jacob sbuffò all'idea. «Va bene, allora lasciamola nella riserva. Collin e Brady resteranno comunque di vedetta. Lì Bella sarà al sicuro».
Li guardai torva. «State parlando di me?».
«Volevo solo sapere che piani ha per te durante lo scontro», spiegò Ja-cob.
«Per me?».
«Non puoi restare a Forks, Bella». La voce di Edward era tranquilla. «Sanno dove cercarti. Che facciamo se qualcuno di loro sfugge alla batta-glia?».
Mi si chiuse lo stomaco e impallidii. «E Charlie?», chiesi preoccupata.
«Starà con Billy», mi rassicurò Jacob. «Mio padre è disposto a uccidere, pur di tenerlo al sicuro con sé. Non credo ci saranno problemi. È sabato, vero? C'è la partita».
«Questo sabato?», chiesi, con la testa che mi girava. Ero stordita e non riuscivo a tenere sotto controllo i pensieri. Corrugai la fronte. «Merda! Niente regalo di diploma».
Edward rise. «È il pensiero che conta», commentò. «Puoi regalare i bi-glietti a qualcun altro».
Ebbi subito un'idea. «Angela e Ben. Perlomeno rimarranno fuori città».
Mi accarezzò la guancia. «Non puoi far evacuare tutti», disse Edward gentile. «L'unica precauzione da prendere riguarda la tua incolumità. Te l'ho detto, non avremo nessun problema. Non possono essere così tanti da tenerci tutti impegnati».
«Allora, che ne dici di mandarla a La Push?», s'intromise Jacob, impa-ziente.
«Ci è già stata troppe volte», disse Edward. «Ha lasciato tracce dapper-tutto. Alice vede che verranno solo vampiri molto giovani, ma qualcuno li avrà pur creati. C'è qualcuno di esperto, dietro di loro. Chiunque sia, l'at-tacco potrebbe essere un semplice pretesto per distrarci. Alice vedrà se lui», e fece una pausa per guardarmi, «o lei decide di venire di persona. E quando prenderà la decisione, potremmo essere impegnati e non accorgercene. Forse conta proprio su questo. Non possiamo lasciarla dove sta di solito. Per sicurezza dovremo portarla in un posto in cui non sarà facile trovarla. Non voglio lasciare niente al caso».
Mentre Edward parlava lo fissavo preoccupata. Mi sfiorò il braccio.
«Sono soltanto in pensiero per te», precisò.
Jacob fece un gesto in direzione del bosco, indicando verso est il profilo svettante dei Monti Olimpici.
«Allora nascondiamola qui», suggerì. «Ci sono milioni di possibilità... posti che uno di noi può raggiungere in un attimo, se necessario».
Edward scosse la testa. «Il suo odore è troppo forte e, combinato con il mio, inconfondibile. Ovunque la portassi, lascerei una traccia. Le nostre tracce sono molto evidenti di per sé, e in combinazione con l'odore di Bella non sfuggirebbero alla loro attenzione. Non siamo sicuri della strada che faranno, perché nemmeno loro hanno deciso. Se incrociano il suo odore prima che li incontriamo...».
Entrambi fecero una smorfia, nello stesso momento, e s'incupirono.
«Le vedi anche tu le difficoltà».
«Dev'esserci un modo per sistemare tutto», mormorò Jacob. Fissò un punto in mezzo alla foresta, torcendo le labbra.
Persi l'equilibrio. Edward mi mise un braccio attorno alla vita e mi strinse a sé per tenermi in piedi.
«Devo portarti a casa. Sei distrutta. E Charlie si sveglierà tra poco...».
«Un attimo», disse Jacob, voltandosi di nuovo verso di noi con gli occhi sgranati. «Il mio odore ti disgusta, vero?».
«Ehi, niente male». Edward era due passi indietro. «È possibile». Si voltò verso la sua famiglia e chiamò Jasper.
Suo fratello si voltò curioso. Si avvicinò a noi, seguito a breve distanza da Alice, che aveva di nuovo un'espressione frustrata.
«Okay, Jacob». Edward annuì.
Jacob si voltò verso di me con un misto di emozioni sul volto. Era chia-ramente entusiasta di fronte a una nuova possibilità, ma anche un po' a di-sagio vicino ai suoi nemici-alleati. E poi toccò a me essere diffidente, quando allungò le braccia per prendermi.
Edward fece un respiro profondo.
«Proviamo a vedere se riesco a confondere abbastanza il tuo odore da nascondere le tracce», spiegò Jacob.
Guardai con sospetto le sue braccia aperte.
«Dovrai permettergli di portarti con sé, Bella», disse Edward. La sua voce era calma, ma riuscii a percepire un'ombra di disgusto.
Aggrottai la fronte.
Jacob alzò gli occhi al cielo, impaziente, e si chinò per prendermi tra le braccia.
«Non fare la bambina», borbottò.
Il suo sguardo corse a Edward, proprio come il mio. Il volto di Edward era calmo. Parlò a Jasper.
«Io sono troppo sensibile al profumo di Bella. Credo che sarebbe meglio se il test lo facesse qualcun altro».
Jacob si voltò e si diresse veloce verso il bosco. Non aprii bocca finché non sprofondammo nel buio. Non ero a mio agio tra le sue braccia. Era una situazione troppo intima - di certo starmi così vicino non gli faceva bene - e non potevo fare a meno di pensare a come si sentiva. Era come l'ultimo pomeriggio che avevamo trascorso insieme a La Push e non volevo ricor-darlo. Incrociai le braccia, seccata, quando la stretta si fece più forte e il ri-cordo più vivo.
Il tragitto non fu troppo lungo; facemmo un giro e tornammo alla radura da un'altra direzione, forse a una distanza pari a mezzo campo di football dal punto di partenza. Edward era là da solo e Jacob si diresse verso di lui.
«Ora puoi mettermi giù».
«Non vorrei mandare all'aria l'esperimento». Rallentò l'andatura e mollò la presa.
«Sei davvero irritante», sussurrai.
«Grazie».
Jasper e Alice apparvero dal nulla accanto a Edward.
Jacob fece un altro passo avanti e mi depositò a terra. Senza voltarmi, raggiunsi Edward e lo presi per mano.
«Allora?», chiesi.
«Se non tocchi niente, Bella, è impossibile che qualcuno si azzardi a en-trare nella sua scia per cercare il tuo odore», disse Jasper, con una smorfia. «Era quasi inesistente».
«Successo pieno», confermò Alice, arricciando il naso.
«E mi ha fatto venire un'idea».
«Che funzionerà», aggiunse Alice con sicurezza.
«Intelligente», confermò Edward.
«Come puoi sopportare una cosa del genere?», mi chiese Jacob a mezza voce.
Edward lo ignorò e mi rivolse lo sguardo, mentre spiegava. «Lasceremo - o meglio lascerai - una falsa scia verso la radura, Bella. I neonati saranno a caccia, il tuo odore li ecciterà e senza accorgersene seguiranno esattamente la strada che gli indicheremo. Alice ha già visto che andrà così. Quando riconosceranno il nostro odore, si separeranno e cercheranno di attaccarci su due fronti. Metà andrà nella foresta, dove all'improvviso si interrompe la visione...».
«Esatto!», sibilò Jacob.
Edward gli sorrise, un vero sorriso cameratesco.
Mi sentii male. Come potevano essere così eccitati al pensiero dello scontro? Come potevo sopportare che entrambi fossero in pericolo? Non potevo.
Non avrei potuto.
«Neanche per idea», disse Edward all'improvviso disgustato.
Trasalii, preoccupata che in qualche modo avesse colto il mio pensiero. Ma stava fissando Jasper.
«Lo so, lo so», si affrettò a rispondere Jasper. «Non l'ho nemmeno preso in considerazione, non sul serio, almeno».
Alice gli pestò un piede.
«Se Bella fosse davvero nella radura», spiegò Jasper, «li farebbe impaz-zire. Non sarebbero in grado di concentrarsi su nient'altro. Potremmo inca-strarli facilmente...».
Jasper arretrò, sotto lo sguardo di Edward.
«Certo, ma sarebbe troppo pericoloso per lei. Era soltanto un'idea pas-seggera», disse di filato. Però mi guardò con la coda dell'occhio, perso nei suoi pensieri.
«No», disse Edward con un tono di voce che non ammetteva repliche.
«Hai ragione», disse Jasper. Prese Alice per mano e tornò dagli altri. «Alla meglio dei tre?», lo sentii chiedere agli altri, prima che ricomincias-sero a esercitarsi.
Jacob gli lanciò un'occhiata nauseata.
«Jasper guarda le cose da una prospettiva strategica», disse Edward in difesa del fratello. «Considera ogni possibilità: è scrupoloso, non cinico».
Jacob sbuffò.
Senza rendersene conto si era avvicinato, preso com'era dal progetto. Ora distava da Edward solo un metro o due. In mezzo a loro, sentivo la tensione che irradiavano. Era come una corrente elettrica, una carica sgradevole.
Edward tornò a parlare di cose importanti. «La porterò qui venerdì po-meriggio, per lasciare la falsa scia. Tu ci puoi raggiungere più tardi, per condurla in un posto che ti dirò. Assolutamente fuori mano, facile da di-fendere ma difficile da individuare. Io prenderò un'altra strada».
«E poi? La lasciamo là con un cellulare?», chiese Jacob perplesso.
«Hai un'idea migliore?».
Jacob rispose compiaciuto. «A dir la verità, sì».
«Oh... complimenti, cane, non c'è male, davvero».
Jacob si voltò rapido verso di me, per mostrare di volermi coinvolgere nel discorso. «Abbiamo cercato di convincere Seth a restare di guardia con gli altri due giovani. È ancora agli inizi, ma è testardo e cocciuto. Perciò ho pensato a un nuovo compito: farà lui da cellulare».
Finsi di aver capito ma non ingannai nessuno.
«Trasformato in lupo, Seth Clearwater resterà in contatto con il branco», disse Edward. «La distanza è un problema?», aggiunse voltandosi verso Jacob.
«No».
«Cinquecento chilometri?», chiese Edward. «Impressionante».
Jacob continuò con il suo tono da bravo ragazzo. «È la distanza massima che abbiamo sperimentato», mi disse. «Ricezione perfetta».
Annuii distratta. Ero colpita dall'idea che anche il giovane Seth Clearwa-ter fosse già un licantropo e mi era difficile concentrarmi su quanto stessero dicendo. Ripensai al suo sorriso ampio, così simile a quello di Jacob da ragazzino; non poteva avere più di quindici anni, ammesso che li avesse. Il suo entusiasmo, la sera del falò, prese all'improvviso un nuovo significato...
«È una buona idea», ammise Edward riluttante. «Mi sentirò meglio se c'è Seth, anche senza la comunicazione istantanea. Non so se riuscirei a lasciare Bella là da sola. Guarda come ci siamo ridotti... Ci tocca fidarci dei licantropi!».
«E noi combattiamo con i vampiri invece che contro di loro!», Jacob i-mitò il tono di disgusto di Edward.
«Be', voi qualche vampiro di cui occuparvi lo avrete», disse Edward.
Jacob sorrise. «Siamo qui per questo».

19
Egoista

Edward mi riaccompagnò a casa portandomi in braccio, nel timore che non riuscissi ad aggrapparmi a lui. Probabilmente mi addormentai durante il tragitto.
Mi svegliai nel mio letto, la luce fioca entrava dalla finestra con una strana inclinazione. Sembrava quasi pomeriggio.
Sbadigliai e mi stiracchiai; le mie dita cercarono lui, ma non trovarono nulla.
«Edward?», sussurrai.
La mia mano incontrò qualcosa di freddo e liscio. La sua.
«Sei sveglia, finalmente?», mormorò.
Mugugnai qualcosa e sospirai, assente. «Ti ho dato molti falsi allarmi?».
«Non hai avuto pace. Non sei stata zitta un momento, tutto il giorno».
«Tutto il giorno?». Sbattei gli occhi e poi guardai di nuovo verso la fine-stra.
«È stata una notte lunghissima», mi disse rassicurante. «Ti sei meritata un giorno intero di riposo».
Mi sedetti sul letto, ma mi girava la testa. La luce entrava nella stanza da ovest. «Caspita».
«Hai fame?», mi chiese. «Vuoi fare colazione a letto?».
«Dopo», borbottai, stirandomi di nuovo. «Ho bisogno di alzarmi e sgranchirmi le gambe».
Mi tenne per mano fino in cucina e mi sorvegliò per tutto il tragitto come se stessi per cadere. Forse pensava che fossi sonnambula.
Cercai di sbrigarmi e misi a scaldare un paio di brioche. Mi guardai ri-flessa nel vetro.
«Oddio, sono uno straccio».
«È stata una notte lunghissima», ripeté. «Forse facevi meglio a restare qui a dormire».
«Certo! Per perdermi tutto. Devi iniziare ad accettare che ormai faccio parte della famiglia».
Sorrise. «Potrei anche abituarmi all'idea».
Mi sedetti con la mia colazione e lui si accomodò accanto a me. Quando presi la brioche, pronta a dare il primo morso, notai che mi fissava la mano. La guardai anch'io e mi accorsi che al polso avevo ancora il braccialetto che mi aveva regalato Jacob.
«Posso?», domandò allungando la mano verso il lupetto di legno.
Deglutii rumorosamente. «Certo!».
Giocherellò con la figurina, rigirandosela tra le dita. Per un attimo ebbi paura. Con una minima pressione avrebbe potuto farlo a pezzi.
Ma Edward non l'avrebbe mai fatto. Mi vergognai di averci pensato. Chiuse il lupo nella mano, per un momento, poi lo lasciò. Dondolò leggero al mio polso.
Provai a leggere l'espressione dei suoi occhi. Sembrava pensieroso; il re-sto lo teneva nascosto, se c'era un resto.
«A Jacob Black è permesso farti dei regali».
Non era una domanda, né un'accusa. Solo una constatazione. Ma sapevo che si riferiva al mio ultimo compleanno e alle mie scenate, a proposito dei regali che non volevo. Men che meno da Edward. Le mie ragioni non erano esattamente razionali, e d'altra parte tutti le avevano ignorate...
«Tu mi hai fatto dei regali», gli ricordai. «E sai che mi piacciono quelli fatti a mano».
Accennò una smorfia. «E quelli riciclati? Li accetti?».
«Che vuoi dire?».
«Questo braccialetto». Disegnò con le dita un cerchio attorno al mio pol-so. «Lo porterai per parecchio tempo?».
Alzai le spalle.
«Perché non vuoi ferire i suoi sentimenti», suggerì con tono acido.
«Sì, direi di sì».
«Allora sii corretta», disse mentre mi guardava la mano. Girò il palmo verso l'alto e passò il dito sulle vene del mio polso. «E indossa anche qual-cosa di mio».
«Che cosa?».
«Un portafortuna, qualcosa che mi trattenga nei tuoi pensieri».
«Tu sei sempre nei miei pensieri. Non ho bisogno di aiuto per ricordar-lo».
«Se ti regalassi una cosa, la indosseresti?», insistette.
«Un regalo riciclato?», chiesi.
«Sì, qualcosa che conservo da un po'». E fece uno dei suoi sorrisi ange-lici.
Se questa era l'unica sua reazione al regalo di Jacob, l'avrei accettato vo-lentieri. «Farò qualsiasi cosa, pur di renderti felice».
«Ti sei resa conto dell'ingiustizia?», domandò, e il suo tono si fece d'ac-cusa. «Io me ne sono accorto subito».
«Quale ingiustizia?».
Affilò lo sguardo. «Tutti possono farti regali. Tutti tranne me. Avrei vo-luto regalarti qualcosa per il diploma, ma non l'ho fatto. So che ti avrei messo in crisi più di chiunque altro. Tutto questo è terribilmente ingiusto. Come te lo spieghi?».
«Facile». E alzai le spalle. «Tu sei più importante di chiunque altro. E mi hai regalato te stesso. Questo è più di quanto io meriti, e ogni aggiunta da parte tua mi scombussola ancora di più».
Ci pensò un momento, poi alzò gli occhi. «Il modo in cui mi consideri è assurdo».
Continuai a masticare la brioche, con calma. Sapevo che non mi avrebbe ascoltato se gli avessi detto che in questo era un po' all'antica.
Il suo cellulare squillò.
Prima di rispondere, guardò il numero. «Che c'è, Alice?».
Ascoltò le parole della sorella e io attesi la sua reazione, in preda a un panico improvviso. Qualsiasi cosa gli avesse detto, non lo sorprese. Fece un paio di sospiri.
«L'avevo intuito», le disse, fissandomi negli occhi e aggrottando le so-pracciglia in segno di disapprovazione. «Ha parlato nel sonno».
Arrossii. Cosa avevo detto?
«Ci penso io», dichiarò.
Dopo aver riattaccato, mi lanciò un'occhiataccia. «C'è qualcosa che vor-resti dirmi?».
Ci pensai per un attimo. Dopo l'avvertimento di Alice della sera prima, potevo immaginare perché avesse chiamato. Poi ricordai i sogni tormentati di quel pomeriggio: inseguivo Jasper nel tentativo di trovare la radura nel labirinto del bosco, conscia che vi avrei incontrato Edward... Edward e i mostri che volevano uccidermi, ma non mi preoccupavo di loro, ormai a-vevo preso la mia decisione. A quel punto era facile intuire cos'avessi detto nel sonno.
Restai indecisa per un attimo, incapace di sostenere il suo sguardo. Lui non disse nulla.
«È un'idea di Jasper», dissi.
Grugnì qualcosa.
«Voglio rendermi utile. Voglio fare qualcosa», insistetti.
«Metterti nei guai non è utile».
«Jasper pensa di sì. In questo è lui l'esperto».
Edward m'inchiodò con lo sguardo.
«Non puoi tenermi alla larga da tutto», minacciai. «Non me ne starò in disparte, nella foresta, mentre voi rischiate la vita per me».
Alla fine lo vidi sforzarsi di non sorridere. «Alice non ti vede nella radu-ra, Bella. Ti vede girovagare nel bosco, disorientata. Non sarai in grado di trovarci e mi farai solo perdere un sacco di tempo, dopo, quando dovrò ve-nire a cercarti».
Tentai di mantenere la calma. «Questo perché Alice non tiene conto di Seth Clearwater», risposi educata. «Ovvio, anche se lo facesse, non sarebbe in grado di vedere nulla. Ma sembra che Seth ci tenga a essere presente, almeno quanto me. Non sarà difficile chiedergli di indicarmi la strada».
Un accenno di rabbia gli attraversò il volto, poi con un respiro profondo si ricompose. «Avrebbe potuto funzionare... se non me l'avessi detto. Ora dovrò chiedere a Sam di dare ordini precisi a Seth. Per quanto sia caparbio, Seth non potrà ignorare quel genere di ingiunzione».
Continuai a sorridere. «Ma perché Sam dovrebbe impartire certi ordini? Credo che sarebbe più disposto a fare un piacere a me che non a te».
Di nuovo si trattenne. «Forse hai ragione. Ma secondo me Jacob sarebbe fin troppo felice di dargli l'ordine».
Aggrottai la fronte. «Jacob?».
«Jacob è il comandante in seconda. Non te l'ha detto? Tutti sono tenuti a obbedire anche a lui».
Mi aveva presa in castagna e, a giudicare dal sorriso, lo sapeva bene. Corrugai la fronte. Jacob sarebbe stato di certo d'accordo con quella deci-sione. E mi aveva tenuta all'oscuro.
Edward approfittò del mio momentaneo stupore e continuò a parlare con voce fin troppo lieve e suadente.
«Sono rimasto affascinato dal modo di pensare del branco, stanotte. È meglio di una soap opera. Non avevo idea delle dinamiche in un branco così grande. Le tensioni individuali opposte alla psiche del gruppo... Asso-lutamente fantastico».
Stava cercando di distrarmi, ovviamente. Gli lanciai un'occhiataccia.
«Jacob ti nasconde un sacco di cose», disse con un ghigno.
Non risposi ma continuai a guardarlo, senza perdere il filo del discorso e in attesa di un suo cenno.
«Per esempio, hai notato il lupo grigio più piccolo, ieri sera?».
Annuii solo una volta, fredda.
Ridacchiò. «Prendono le loro storie così sul serio... e poi accadono cose a cui nemmeno le leggende sanno prepararli».
Feci un sospiro. «Va bene, mi arrendo. Di cosa stai parlando?».
«Hanno sempre dato per scontato che soltanto i pronipoti diretti del pri-mo lupo possono trasformarsi».
«E allora? Qualcuno che non è un discendente diretto si è trasformato?».
«No. Anche lei è una discendente».
Sbattei gli occhi e li spalancai. «Lei?».
Annuì. «Ti conosce. Si chiama Leah Clearwater».
«Leah è un licantropo!» gridai. «Cosa? Da quando? Perché Jacob non me l'ha detto?».
«Ci sono cose che non possono dire a nessuno, per esempio, quanti sono. Come ho detto prima, se Sam dà un ordine, il branco non può ignorarlo. Jacob è stato molto attento, non ha mai pensato niente di proibito in mia presenza. Certo, dopo la notte scorsa è tutto alla luce del sole».
«Non ci posso credere. Leah Clearwater!». All'istante ricordai quanto Jacob mi aveva raccontato di Leah e Sam, e di come avesse lasciato cadere il discorso dopo aver detto che Sam era costretto a subire lo sguardo accu-satore di Leah ogni giorno... e poi Leah al falò, con una lacrima sulla guancia quando il vecchio Quil aveva parlato del peso e del sacrificio che i figli dei Quileute condividono... E Billy che andava a trovare Sue per aiu-tarla a tenere a bada i ragazzi... Il vero problema era che entrambi i suoi figli erano licantropi!
Non avevo pensato molto a Leah Clearwater: avevo solo sofferto per la sua perdita di Harry e avevo provato compassione quando Jacob mi aveva raccontato la sua storia, di come lo strano imprinting tra Sam e sua cugina Emily le avesse spezzato il cuore. E adesso lei era parte del branco, sentiva i pensieri di Sam... e le era impossibile nascondere i propri.
È orribile, aveva detto Jacob. Tutto ciò di cui ti vergogni è lì in bella mostra, sotto gli occhi di tutti.
«Povera Leah», sussurrai.
Edward sbuffò. «Sta rendendo la vita decisamente impossibile a tutti. Forse non merita la tua compassione».
«Cosa intendi?».
«Per gli altri è già abbastanza difficile condividere ogni pensiero. La maggior parte dei membri del branco cerca di cooperare, di alleggerire le cose. Basta che uno solo di loro abbia pensieri cattivi, ed è un tormento per tutti».
«A me sembra che Leah abbia ragione da vendere».
«Oh, lo so», disse. «L'imprinting è una delle cose più strane che abbia mai visto, e di cose strane ne ho viste parecchie». Scosse la testa. «È im-possibile descrivere il legame tra Sam e la sua Emily, forse dovrei dire che è lui a essere suo. Sam non aveva scelta. Mi ricorda Sogno di una notte di mezza estate, con tutta la confusione creata dagli incantesimi delle fate... è come una magia». Sorrise. «È una sensazione forte, quasi come quella che provo per te».
«Povera Leah», dissi di nuovo. «Ma cosa intendi per pensieri cattivi?».
«Che sono sgradevoli per tutti, eppure Leah insiste nell'andarli a pesca-re», spiegò. «Embry, per esempio».
«Che problema c'è?», domandai sorpresa.
«Sua madre lasciò la riserva Makah diciassette anni fa, incinta di lui. Non è una Quileute. Tutti pensavano che il padre del bambino fosse rimasto nella riserva. Ma poi il figlio è entrato a far parte del branco».
«E allora?».
«I candidati alla paternità sono il padre di Quil Ateara, Joshua Uley e Billy Black, e, ovviamente, all'epoca erano tutti già sposati».
«No!», esclamai. Edward aveva ragione: era davvero una soap opera.
«Ora Sam, Jacob e Quil si chiedono chi di loro abbia un fratellastro. Tutti pensano che sia Sam, perché suo padre non ha rigato sempre dritto. Ma il dubbio rimane. Jacob non se l'è mai sentita di chiederlo direttamente a Billy».
«Caspita. Come hai fatto a scoprire tutto in una sola notte?».
«La mente del branco è affascinante. Pensano tutti insieme, e allo stesso tempo ognuno per conto suo. C'è così tanto da leggere!». Notai in lui un leggero rammarico, come qualcuno che è stato costretto a chiudere un libro proprio sul più bello. Risi.
«Il branco è affascinante», confermai. «Quasi come te, quando cerchi di distrarmi».
La sua espressione si fece di nuovo cortese e impassibile, perfetta per un giocatore di poker.
«Voglio venire anch'io nella radura, Edward».
«No», disse in un tono che non ammetteva repliche.
All'istante pensai a un'altra soluzione.
Non dovevo per forza stare nella radura, mi bastava avere Edward al mio fianco.
Crudele, mi accusai. Egoista, egoista, egoista! Non farlo! Ignorai il mio buon senso. Tuttavia non riuscii ad alzare gli occhi mentre parlavo. Il senso di colpa mi incollava lo sguardo al tavolo.
«Va bene, Edward, ascolta», sussurrai. «Le cose stanno così... Sono già impazzita una volta. Conosco i miei limiti. E non sopporto che tu mi lasci di nuovo».
Non volli vedere la sua reazione, temevo di scoprire quanto dolore gli stavo infliggendo. Sentii un respiro profondo, poi più nulla. Fissai il piano del tavolo di legno scuro e desiderai di potermi rimangiare tutto. Ma non l'avrei fatto. Non se la cosa sortiva il suo effetto.
All'improvviso sentii le sue braccia attorno a me, le sue mani che mi ac-carezzavano il viso e le braccia. Era lui a confortare me. Il senso di colpa iniziò a travolgermi. Ma l'istinto di conservazione fu più forte. Non avevo più dubbi, Edward era fondamentale per la mia sopravvivenza.
«Lo sai che non è così, Bella», mormorò. «Non sarò lontano, e tornerò presto».
«Non ce la faccio», insistetti, senza alzare lo sguardo. «Non posso restare ad aspettare, senza sapere se tornerai o no. Come farò a resistere, anche se tornerai presto?».
Sospirò. «Andrà tutto liscio, Bella. È inutile che ti preoccupi».
«Davvero?».
«Sì, davvero».
«E ve la caverete tutti?».
«Tutti quanti», promise.
«Perciò è proprio impossibile che vi segua anch'io nella radura?».
«Certo. Alice mi ha appena confermato che sono scesi a diciannove. Ce la faremo senza grandi sforzi».
«Va bene. Hai detto che sarà tanto semplice che a qualcuno toccherà stare in disparte», ripetei le parole che lui stesso aveva pronunciato la sera precedente. «Dicevi sul serio?».
«Sì».
Mi sembrava una mossa davvero scontata, avrebbe dovuto aspettarsela.
«Così semplice che tu potresti stare in disparte?».
Dopo un lungo silenzio, riuscii ad alzare gli occhi e lo guardai in volto.
Aveva di nuovo l'espressione da poker.
Incalzai: «Ci sono due possibilità. Forse il rischio è più grande di quello che mi vuoi far credere, e in tal caso è giusto che io sia presente, per aiutarvi come posso. Oppure... la faccenda è così semplice che gli altri ce la faranno anche senza di te. Quale delle due è giusta?».
Non rispose.
Sapevo cosa stava pensando: erano i miei stessi pensieri. Carlisle. Esme. Emmett. Rosalie. Jasper. Dovetti sforzarmi per pensare l'ultimo nome: Ali-ce.
Chissà, forse il mostro ero io. Un mostro vero, non quello che pensava di essere lui. Un mostro che fa del male alle persone. Che non guarda in faccia nessuno pur di raggiungere il suo scopo.
Il mio unico desiderio era di tenerlo al sicuro, insieme a me. C'era un li-mite a ciò che avrei sacrificato, per questo? Non ne ero sicura.
«Mi stai chiedendo di lasciarli combattere senza di me?», disse tranquillo.
«Sì». Fui sorpresa di riuscire a mantenere un tono pacato, malgrado il disgusto che sentivo. «Oppure di farmi partecipare. Una o l'altra cosa, pur-ché restiamo vicini».
Inspirò profondamente e poi espirò con calma. Mi prese il volto tra le mani e mi obbligò a incrociare il suo sguardo. Restammo a lungo occhi negli occhi. Cosa cercava? E cosa aveva trovato? Probabilmente il senso di colpa mi si leggeva in faccia. Lo sentivo nello stomaco e mi dava la nausea.
I suoi occhi nascondevano un sentimento che non riuscii a decifrare, poi fece scivolare una mano dal mio viso e prese il cellulare.
«Alice», disse. «Puoi venire a fare da babysitter a Bella per un po'?». Sollevò un sopracciglio in segno di sfida. «Devo parlare con Jasper».
Lei rispose di sì, decisa. Edward infilò il telefono in tasca e tornò a guardarmi.
«Cosa devi dire a Jasper?», sussurrai.
«Vado a discutere... se posso rimanere in disparte».
Gli si leggeva in faccia quanto fosse difficile per lui pronunciare quelle parole.
«Scusami».
Mi dispiaceva. Non volevo costringerlo a fare una cosa del genere. Non abbastanza, però, da fingere un sorriso e lasciare che andasse via senza di me. No, senza dubbio.
«Non ti scusare», disse, sorridendo appena. «Non avere mai paura di mostrare i tuoi sentimenti, Bella. Se ti fa star meglio...», alzò le spalle, «tu sei il mio primo pensiero».
«Non intendevo questo... non voglio che tu debba scegliere tra me e la tua famiglia».
«Lo so. Ma d'altra parte è quel che mi hai chiesto. Mi hai dato due alter-native e io ho scelto quella più accettabile. È così che funzionano i com-promessi».
Mi avvicinai a lui per appoggiare la fronte al suo petto. «Grazie», sus-surrai.
«Quando vuoi», rispose baciandomi i capelli, «ciò che vuoi».
Per un istante infinito restammo immobili. Tenevo il viso ancora sepolto nella sua camicia. Sentivo due voci. Una mi suggeriva di essere buona e coraggiosa, l'altra diceva alla prima di tenere la bocca chiusa.
«Chi è la terza moglie?», mi chiese all'improvviso.
«Eh?», esclamai, cercando di guadagnare tempo. Non ricordavo di aver fatto di nuovo quel sogno.
«La notte scorsa hai borbottato qualcosa in merito alla "terza moglie". Il resto aveva senso, ma in quel frangente mi sono proprio perso».
«Oh. Sì, certo. È una storia che ho sentito raccontare l'altra sera attorno al fuoco». Scrollai le spalle. «Deve avermi colpita molto».
Edward si scostò da me e inclinò la testa di lato, confuso dal tono incerto della mia voce.
Prima che potesse aprire bocca, Alice apparve sulla soglia della cucina con un'espressione tutt'altro che allegra.
«Ti perderai tutto il divertimento», brontolò.
«Ciao, Alice», la salutò. Con un dito mi alzò il mento e mi salutò con un bacio.
«Tornerò tardi stasera», mi promise. «Andrò a esercitarmi con gli altri, a riorganizzare i piani».
«Va bene».
«Non c'è molto da riorganizzare», disse Alice. «L'ho già detto a tutti. Emmett è contento».
Edward fece un sospiro. «Ovviamente».
Uscì dalla porta e mi lasciò sola con Alice.
Lei mi lanciò un'occhiataccia.
«Mi dispiace», dissi. «Credi che questo aumenterà i rischi?».
Sbuffò. «Ti preoccupi troppo, Bella. Ti verranno i capelli bianchi».
«Allora perché sei agitata?».
«Edward diventa un musone quando non può fare a modo suo. Sto sol-tanto immaginando la vita con lui nei prossimi mesi». Fece una smorfia. «Certo, se serve a non farti impazzire, ne varrà la pena. Ma spero che tu riesca a controllare il tuo pessimismo, Bella. È del tutto superfluo».
«Lasceresti combattere Jasper senza di te?», le chiesi.
Alice fece una smorfia. «È diverso».
«Certo».
«Vai a prepararti», mi ordinò. «Charlie sarà a casa tra un quarto d'ora, e se ti vede in queste condizioni non ti farà... più uscire».
Caspita, avevo davvero perso il giorno intero. Mi sentivo sprecata. Però ero contenta di non dover passare le giornate a dormire.
Quando Charlie rientrò ero presentabile: vestita e pettinata, stavo met-tendo in tavola la sua cena. Alice era seduta a quello che di solito era il po-sto di Edward, e ciò rese Charlie quasi felice.
«Salve, Alice! Come stai, tesoro?».
«Sto bene, Charlie, grazie».
«Finalmente ti vedo in piedi, dormigliona», mi disse, quando mi sedetti accanto a lui. Poi si voltò di nuovo verso Alice. «Parlano tutti della festa di ieri sera. Scommetto che avete ancora un bel po' da pulire».
Alice si strinse nelle spalle. Conoscendola, era tutto fatto.
«Ne è valsa la pena», disse. «È stata una bellissima festa».
«Dov'è Edward?», si sforzò di chiedere Charlie. «Sta aiutando nelle pu-lizie?».
Alice sospirò e si fece improvvisamente cupa. Probabilmente era tutta scena, ma la finzione fu talmente perfetta da insinuare il dubbio persino a me. «No, sta organizzando il fine settimana insieme a Emmett e Carlisle».
«Un'altra escursione?».
Alice annuì, sconsolata. «Sì. Andranno tutti, eccetto me. Alla fine dell'anno scolastico andiamo sempre a fare trekking, a mo' di festeggia-mento. Quest'anno preferirei darmi allo shopping, ma nessuno vuole ac-compagnarmi. Sono rimasta sola».
Fece un'espressione corrucciata, così affranta che Charlie si sporse au-tomaticamente verso di lei e allungò una mano per offrirle un aiuto. La guardai con sospetto. Cosa aveva in mente?
«Alice, tesoro, perché non vieni a stare da noi?», si offrì Charlie. «Non vorrai restartene tutta sola in una casa tanto grande».
Lei sospirò. Qualcosa mi schiacciò un piede sotto il tavolo.
«Ahi!».
Charlie si voltò verso di me. «Che c'è?».
Alice mi guardò frustrata. Non capiva perché non avessi reagito pronta-mente.
«Ho sbattuto il piede da qualche parte», borbottai.
«Ah». Charlie riprese il discorso con Alice. «Allora, che ne dici?».
Mi diede un altro pestone, meno violento.
«Papà, sai bene non abbiamo posto per gli ospiti. Immagino che Alice non voglia dormire sul pavimento...».
Charlie si morse le labbra. Alice rispolverò l'espressione affranta.
«Forse Bella potrebbe venire da te», suggerì. «Fino a che non torna il re-sto della truppa».
«Oh, lo faresti davvero, Bella?». Alice sorrise, raggiante. «Non ti dispia-cerebbe fare un po' di shopping insieme a me, vero?».
«No», sorrisi. «Vada per lo shopping».
«Quando partono?», chiese Charlie.
Alice fece un'altra smorfia. «Domani».
«Quando vuoi che venga?», le chiesi.
«Dopo pranzo, direi», mentre parlava si sfiorò il mento con un dito, pen-sierosa. «Non hai niente in programma per sabato, vero? Voglio andare a fare acquisti in città e credo che ci resterò tutto il giorno».
«Non a Seattle», s'intromise Charlie, increspando la fronte.
«Certo che no», rispose pronta Alice, nonostante entrambe sapessimo che Seattle sarebbe stata un posto molto sicuro quel sabato. «Pensavo a Olympia, magari...».
«Ti piacerà, Bella». Charlie era felice e sollevato. «Andate a fare il pieno di atmosfera cittadina».
«Certo, papà. Sarà fantastico».
Con una semplice conversazione Alice mi aveva garantito una via di fuga per il giorno della battaglia.
Edward tornò poco dopo e accolse il «Buon viaggio» di Charlie senza sorprendersi. Annunciò che sarebbero partiti al mattino presto e diede la buonanotte prima del solito. Alice se ne andò con lui.
Poco dopo, anch'io annunciai che me ne andavo a dormire.
«Non puoi essere stanca», protestò Charlie.
«Un po'», mentii.
«Non mi meraviglia che tu eviti le feste», borbottò, «se ti ci vuole così tanto per riprenderti».
Al piano di sopra trovai Edward disteso sul mio letto.
«Quand'è l'appuntamento con i lupi?», domandai.
«Tra un'ora».
«Perfetto. Jake e i suoi amici hanno bisogno di dormire un po'».
«Gli occorrono meno ore che a te», precisò.
Cambiai argomento, sicura che avrebbe cercato di convincermi a restare a casa. «Alice ti ha detto che mi rapirà di nuovo?».
Sorrise. «In realtà, no».
Lo fissai, confusa, e lui rise tranquillo.
«Sono l'unico che ha il permesso di prenderti in ostaggio, ricordi?», dis-se. «Alice andrà a caccia con tutti gli altri». Sospirò. «Per me non è indi-spensabile, al momento».
«Mi rapisci tu?».
Annuì.
Ci pensai per un istante. Non ci sarebbe stato nessun Charlie in ascolto e di vedetta al piano di sotto. E neanche un vampiro nei paraggi, pronto a in-tromettersi con i suoi sensi ipertrofici... Soltanto lui e io... da soli, sul serio.
«Tutto bene?», chiese preoccupato dal mio silenzio.
«Sì, insomma... eccetto una cosa».
«Che cosa?». Mi guardò con ansia. Roba da non crederci, ma in qualche modo sembrava dubitare di avermi convinta. Forse dovevo esprimermi meglio.
«Perché Alice non ha detto a Charlie che partite stasera?», domandai.
Rise, sollevato.
Il viaggio alla radura fu più piacevole rispetto alla sera precedente. Mi sentivo ancora in colpa, avevo paura, ma non ero più terrorizzata. Riuscivo a controllarmi. Pensavo a ciò che stava per accadere e, a conti fatti, forse, sarebbe andato tutto bene. Edward sembrava tranquillo di fronte alla pro-spettiva di perdersi lo scontro... perciò era difficile non assecondare il suo ottimismo. Non avrebbe mai piantato in asso la famiglia se non fosse stato così convinto. Forse Alice aveva ragione e mi stavo preoccupando per nul-la.
Arrivammo alla radura per ultimi.
Jasper ed Emmett stavano già combattendo, o meglio, si stavano riscal-dando, a giudicare dalle risate. Alice e Rosalie li guardavano, allungate per terra. Esme e Carlisle parlavano, poco distanti, con le teste vicine e le mani nelle mani, senza badare a nessuno.
La notte era più chiara della precedente, la luna splendeva attraverso le nubi leggere e riuscii a distinguere con facilità i tre lupi seduti in disparte, a una certa distanza l'uno dall'altro, in modo da controllare la situazione da diverse angolazioni.
Riconobbi subito Jacob; ci sarei riuscita anche se non avesse alzato lo sguardo al nostro arrivo.
«Dov'è il resto del branco?», chiesi.
«Non c'è bisogno che vengano tutti. In realtà ne sarebbe bastato uno, ma Sam non si fida abbastanza da mandare Jacob da solo. Lui sarebbe stato disposto a farlo. Quil ed Embry sono i suoi soliti... credo che potrei definirli gregari».
«Jacob si fida di te».
Edward annuì. «Si fida del fatto che non lo uccideremo. Però, sì, forse hai ragione».
«Stanotte ti alleni anche tu?», domandai esitante. Sapevo che rinunciare alla battaglia era difficile per lui come per me. Forse di più.
«Aiuterò Jasper quando ce ne sarà bisogno. Vogliamo provare a formare dei gruppi non omogenei e insegnare loro come comportarsi in caso di at-tacchi multipli».
Si strinse nelle spalle.
E una lieve ondata di panico frantumò il mio senso di sicurezza. I neonati erano ancora in maggioranza. Stavo peggiorando la situazione.
Fissai il prato, provando a nascondere i miei sentimenti.
Non era il posto giusto dove guardare, impegnata com'ero a mentire a me stessa e a convincermi che tutto sarebbe andato come volevo. Perché non appena distoglievo lo sguardo dai Cullen - dall'immagine dei loro scontri simulati, che nel giro di pochi giorni sarebbero diventati veri e letali - Jacob mi guardava e sorrideva.
Era lo stesso sorriso lupesco di sempre, con l'espressione di quando era umano.
Era difficile credere che fino a poco tempo prima i licantropi mi terro-rizzavano; avevo perso spesso il sonno per colpa loro.
Sapevo senza chiederlo chi era Embry e chi Quil. Embry era chiaramente il lupo grigio più magro, quello con le macchie scure sulla schiena, che stava seduto paziente, mentre Quil, color cioccolato, più chiaro sul muso, si muoveva in continuazione, come se morisse dalla voglia di entrare in quella finta battaglia. Non erano mostri, erano degli amici.
Amici che non erano invincibili come Emmett e Jasper, con la loro pelle dura come il marmo scintillante alla luce della luna e i loro movimenti più veloci di quelli di un cobra.
Amici che non sembravano rendersi conto dei rischi che correvano. A-mici che erano in qualche modo ancora mortali, che potevano sanguinare, amici che potevano morire...
La sicurezza di Edward mi dava fiducia, perché dava l'impressione di non essere affatto preoccupato per la sua famiglia. Ma se fosse successo qualcosa ai lupi, gli sarebbe importato? Era in ansia per loro oppure l'idea non lo sfiorava nemmeno? La sicurezza di Edward placava soltanto una parte delle mie paure.
Provai a sorridere a Jacob, cercando di inghiottire il groppo che avevo in gola. Ma non ci riuscii.
Jacob si alzò con un'agilità insolita per uno con la sua massa muscolare e trotterellò verso me ed Edward, al margine.
«Jacob», Edward lo salutò educatamente.
Il lupo lo ignorò e puntò i suoi occhi scuri su di me. Abbassò la testa all'altezza della mia, come la sera precedente, inclinandola da un lato. Dal suo muso uscì un latrato dimesso.
«Sto bene», risposi, senza aver bisogno della traduzione che Edward stava per fare. «Sono soltanto preoccupata, lo sai».
Jacob continuò a fissarmi.
«Vuole sapere perché», disse Edward.
Jacob ringhiò - un suono infastidito, più che minaccioso - e le labbra di Edward si contrassero.
«Che c'è?», domandai.
«Pensa che le mie traduzioni lascino un po' a desiderare. In realtà ha pensato: "Che cazzata. Cosa c'è da preoccuparsi?". Ho adattato le sue parole perché mi erano sembrate volgari».
Accennai a un sorriso, troppo in ansia per esserne divertita. «Ci sono un sacco di cose di cui preoccuparsi», risposi. «Per esempio, un branco di sciocchi lupi che stanno per farsi male».
Jacob rise abbaiando un colpo di tosse.
Edward fece un sospiro. «Jasper ha bisogno di aiuto. Ve la cavate senza interprete?».
«Non ti preoccupare».
Edward mi guardò per un istante, assorto in un'espressione difficile da decifrare, poi si voltò e si avviò a grandi passi verso Jasper.
Mi sedetti. Il suolo era freddo e scomodo.
Jacob fece un passo avanti, poi si voltò a guardarmi e dalla sua gola fuo-riuscì un lamento cupo. Fece un altro mezzo passo.
«Vai avanti senza di me», gli dissi. «Non voglio guardare».
Jacob inclinò di nuovo la testa da un lato, per un momento, e poi si ac-cucciò accanto a me, emettendo un latrato che suonò come una protesta.
«Davvero, puoi andare», gli assicurai. Rispose appoggiando la testa sulle zampe. Alzai gli occhi verso le nuvole chiare, argentee; non volevo vederli combattere. La mia immaginazione aveva già più carburante del necessario. Una brezza leggera soffiò nella radura e mi diede i brividi.
Jacob mi si avvicinò e premette la pelliccia calda contro di me.
«Ehm, grazie», mormorai.
Dopo pochi minuti mi appoggiai alla sua schiena ampia. Stavo molto più comoda così.
Le nuvole attraversavano lentamente il cielo, macchie dense che si illu-minavano e si spegnevano incrociando la luna.
Distratta, iniziai a giocherellare con il pelo del collo di Jacob. Risuonò di nuovo nella sua gola il verso strano, simile a un ruggito lieve, che avevo sentito la sera prima. Era familiare. Era più ruvido, più selvatico delle fusa di un gatto, ma trasmetteva lo stesso senso di appagamento.
«Sai, non ho mai avuto un cane», dissi. «Ne ho sempre voluto uno, ma Renée è allergica».
Jacob rise, il suo corpo tremò sotto di me.
«Proprio non hai paura per sabato?», gli chiesi.
Girò la testa enorme verso di me e vidi uno dei suoi occhi alzarsi verso il cielo.
«Vorrei essere altrettanto ottimista».
Appoggiò la testa alla mia gamba e riprese a ruggire. Mi fece sentire un po' meglio.
«Domani ci aspetta una bella escursione, eh?».
Ruggì di entusiasmo.
«Può anche darsi che sia un'escursione lunga», lo avvertii. «Edward non giudica le distanze come le persone normali».
Jacob abbaiò un'altra risata.
Sprofondai nella sua pelliccia calda e gli appoggiai la testa sul collo.
Era strano. Nonostante avesse assunto quella forma bizzarra, sentivo di stare accanto al Jake che avevo conosciuto un tempo, quando la nostra era un'amicizia serena e spontanea, naturale come la vita stessa. Tutt'altra cosa rispetto agli ultimi momenti passati con lui in forma umana. Che strano ri-scoprire quella sensazione, dopo aver creduto di averla persa proprio per colpa dei lupi.
Nella radura continuavano i giochi di morte, mentre fissavo i contorni nebbiosi della luna.

20
Compromesso

Era tutto pronto.
Mi ero preparata alla gita di due giorni "da Alice" e la borsa con i vestiti mi aspettava sul sedile posteriore del pick-up. Avevo ceduto i biglietti del concerto ad Angela, Ben e Mike. Mike avrebbe invitato anche Jessica, proprio come speravo. Billy aveva preso in prestito la barca del vecchio Quil Ateara e aveva invitato Charlie a una battuta di pesca d'altura, prima dell'inizio della partita. Collin e Brady, i due licantropi più giovani, sareb-bero rimasti a proteggere La Push malgrado fossero ragazzini di appena tredici anni. Tutto sommato, Charlie era più al sicuro di qualsiasi abitante di Forks.
Avevo fatto tutto il possibile. Provai a farmene una ragione e a non pen-sare più alle cose che non potevo controllare personalmente, almeno per quella notte. In un modo o nell'altro, entro quarantotto ore tutto sarebbe fi-nito. Bastava pensarci per rasserenarmi un poco.
Edward voleva vedermi rilassata e avrei cercato di accontentarlo.
«Possiamo provare, almeno per questa notte, a scordare tutto il resto, ec-cetto noi due?», aveva detto, scatenando tutta la forza del suo sguardo su di me. «Sembra che non riusciamo più a stare da soli. Ho bisogno di stare con te. Soltanto con te».
Non era una richiesta difficile da assecondare, anche se sapevo che di-menticare le mie paure era più facile a dirsi che a farsi. Avevo altro per la testa, ma mi aiutava sapere che avevamo una notte intera a disposizione.
C'erano stati dei cambiamenti.
Per esempio, ero pronta.
Pronta a entrare a far parte della sua famiglia e del suo mondo. La paura, il senso di colpa e l'angoscia che provavo me l'avevano fatto capire. Mentre fissavo la luna, appoggiata a un licantropo, avevo avuto l'occasione di riflettere e sapevo che non mi sarebbe venuto di nuovo il panico. Un attacco non mi avrebbe colta di sorpresa. Sarei stata un aiuto, non una preoccu-pazione. Edward non sarebbe stato costretto a scegliere tra me e la sua fa-miglia. Saremmo stati compagni di vita, come Alice e Jasper. Finalmente avrei fatto la mia parte.
Dovevo aspettare che la spada di Damocle sparisse da sopra la mia testa, per vedere Edward più tranquillo. Ma non era più necessario sforzarmi. Ormai ero pronta.
Mancava solo un dettaglio.
Solo uno, perché c'erano anche cose che non erano cambiate, compreso il modo disperato in cui lo amavo. Avevo avuto parecchio tempo per pensare alle implicazioni della scommessa di Jasper ed Emmett e mi ero resa conto di ciò che ero disposta a perdere insieme alla mia umanità, di ciò che non ero disposta a lasciarmi sfuggire. Avevo capito quale esperienza umana ero decisa a vivere prima di essere trasformata.
Perciò quella notte avevamo diverse cose da sistemare. Dopo ciò che a-vevo passato nei due anni precedenti, la parola "impossibile" era uscita dal mio vocabolario. Ci voleva ben altro per fermarmi.
Sì, d'accordo, probabilmente sarebbe stato molto più complicato di quel che immaginavo. Ma ci avrei provato.
Determinata com'ero, il nervosismo che avvertivo in macchina, mentre guidavo verso casa sua, non fu una sorpresa. Non sapevo come fare ciò che stavo per provare a fare, e questo bastava a inquietarmi non poco. Lui, se-duto accanto a me, si sforzava di non ridere della mia guida da lumaca. Ero sorpresa che non avesse insistito per prendere il volante, ma quella sera sembrava contento di andare alla mia velocità.
Era notte quando arrivammo a casa. Tuttavia, il prato era illuminato dalla luce che usciva dalle finestre.
Non appena spensi il motore, corse ad aprirmi la portiera. Mi tirò fuori dall'abitacolo con un braccio, mentre con l'altro faceva sgusciare la borsa dal sedile e se la metteva in spalla. Le sue labbra incontrarono le mie, men-tre lo sentivo chiudere con un calcio la portiera.
Senza interrompere il bacio, mi cullò, poi mi strinse ancora più forte tra le sue braccia e mi portò in casa.
La porta principale era già aperta? Chissà. Ormai eravamo dentro e io ero frastornata. Dovetti ricordarmi di respirare.
I suoi baci non mi spaventarono. Non era più come quando sentivo la paura e il panico sfuggire al suo autocontrollo. Le sue labbra non erano più ansiose, ma entusiaste e impazienti come me all'idea di avere una notte tutta per noi. Continuò a baciarmi per diversi minuti, accanto all'entrata; sembrava meno guardingo del solito, le sue labbra fredde desideravano le mie.
Iniziai a provare un cauto ottimismo. Forse ottenere quel che volevo non era difficile come pensavo.
Ma no, era ovvio che sarebbe stato difficile.
Con una risatina mi allontanò.
«Benvenuta a casa», mi disse, i suoi occhi erano chiari e intensi.
«Suona davvero bene», risposi, senza fiato.
Con gentilezza mi appoggiò a terra. Lo cinsi con entrambe le braccia, incapace di separarmi da lui.
«Ho una cosa per te», disse, in tono colloquiale.
«Eh?».
«Il regalo riciclato, ricordi? Mi hai dato il permesso...».
«Già, è vero. Mi sa che te l'ho dato».
Rise della mia riluttanza.
«È su, in camera mia. Vado a prenderlo?».
Camera sua? «Certo». Ero entusiasta, ma risposi in tono evasivo e strinsi le sue dita tra le mie. «Andiamo».
Era ansioso di darmi il mio non-regalo, perché si mosse a una velocità sovrumana. Mi prese di nuovo in braccio e quasi volò per le scale, fino in camera sua. Mi depositò davanti alla porta e sfrecciò verso l'armadio.
Fu di ritorno prima che riuscissi a fare un passo, ma lo ignorai e andai verso il grande letto dorato, mi lasciai cadere sul bordo e scivolai verso il centro. Mi accoccolai, abbracciandomi le ginocchia.
«Okay», brontolai. Ora che avevo raggiunto la meta, potevo permettermi un minimo di riluttanza. «Dammelo».
Edward rise.
Salì sul letto, si sedette accanto a me e il ritmo del mio cuore si fece ir-regolare. Speravo che la scambiasse per una reazione di fronte al regalo.
«Un bel regalo riciclato», mi disse serio. Mi prese il polso sinistro e sfio-rò per un attimo il braccialetto d'argento. Poi mi restituì il braccio.
Lo osservai con attenzione. Dalla parte opposta della catena rispetto al lupo adesso era appeso un cristallo a forma di cuore. Aveva un milione di sfaccettature, perciò brillava in maniera impressionante persino sotto la luce smorzata della lampada. Restai senza fiato.
«Apparteneva a mia madre». E si strinse nelle spalle. «Ho ereditato di-versi ciondoli come questo. Ne ho regalato uno a Esme e uno ad Alice. In-somma, è chiaro che non è un granché».
Sorrisi mesta a questa sua ultima affermazione.
«Ma mi rappresenta bene, credo», continuò. «È freddo e duro». Rise. «E, se esposto alla luce, irradia arcobaleni».
«Dimentichi la similitudine più importante», sussurrai. «È bellissimo».
«E il mio cuore è muto come lui», disse fra sé. «Anche quello ti appar-tiene».
Girai il polso per far brillare il cuore. «Grazie. Di avermi regalato en-trambi».
«No, grazie a te. È un sollievo vedere che accetti un regalo così, senza problemi. È anche un buon esercizio, per te». Sorrise con i suoi denti splendenti.
Mi avvicinai per accoccolarmi su di lui, affondando la testa sotto il suo braccio. Fu come raggomitolarsi a fianco del David di Michelangelo, con la differenza che questa creatura perfetta, marmorea, mi abbracciò e mi strinse a sé.
Come inizio non era male.
«Possiamo parlare di una cosa? Mi farebbe piacere se iniziassi ad ampli-are un po' le tue vedute».
Esitò per un momento. «Farò del mio meglio», rispose con cautela.
«Non infrangerò le regole, te lo prometto. È una cosa tra te e me». Mi schiarii la voce. «Insomma... Sono rimasta sorpresa da come siamo riusciti a trovare un compromesso, l'altra sera. Pensavo di applicare lo stesso pro-cedimento a un'altra situazione». Chissà perché ero così formale. Forse per via della tensione.
«Cosa vorresti negoziare?», domandò sorridendo.
Mi sforzai di cercare le parole giuste.
«Ascolta il tuo cuore, sta volando», sussurrò. «Sbatte le ali veloce come un colibrì. Va tutto bene?».
«Benissimo».
«Allora va' avanti», m'incoraggiò.
«Insomma, prima di tutto volevo parlare con te di quella condizione ri-dicola legata al matrimonio».
«È ridicola solo per te. Che c'è che non va?».
«Mi chiedevo... è negoziabile?».
Edward aggrottò la fronte e si fece serio. «In realtà ti ho già fatto la con-cessione più grande in assoluto: ho accettato di toglierti la vita, contro ogni buon senso. E ciò dovrebbe garantirmi un certo numero di compromessi da parte tua».
«No». Scossi la testa, cercando di mantenere la calma. «Su quell'accordo non c'è più niente da discutere. Non ho bisogno di... ritocchi, per ora. Vor-rei concentrarmi su altri dettagli».
Mi guardò con sospetto. «Quali esattamente?».
Esitai. «Mettiamo in chiaro prima di tutto le condizioni che tu ritieni in-dispensabili».
«Sai cosa voglio».
«Il matrimonio». Pronunciai la parola come fosse un insulto.
«Esatto». Fece un gran sorriso. «Tanto per iniziare».
La sorpresa rovinò la mia calma composta. «Perché, c'è dell'altro?».
«Be'», disse, concentrato. «Se sei mia moglie, allora quello che è mio è tuo... anche le tasse universitarie. Perciò non avresti problemi con la retta, a Dartmouth».
«E poi? Già che ci sei, puoi tirare fuori qualche altra sciocchezza...».
«Sarebbe carino aspettare ancora un po'».
«No. Non se ne parla. Non ti farò concessioni».
Sospirò, in preda all'ansia. «Soltanto un anno o due?».
Scossi la testa, imbronciata e decisa a mostrare che non avrei ceduto. «Passiamo al prossimo punto».
«Non c'è altro. A meno che tu non voglia parlare di macchine...».
Rise della mia smorfia, poi mi prese la mano e iniziò a giocherellare con le dita.
«Non sapevo che tu desiderassi qualche altra cosa, pensavo ti bastasse diventare un mostro. Sono molto curioso di sapere di che si tratta». La sua voce era bassa e morbida. Se non lo avessi conosciuto così bene, non mi sarei accorta che c'era anche una lieve tensione.
Guardai la sua mano sulla mia. Non trovavo le parole. Sapevo di avere i suoi occhi addosso e avevo paura di guardarlo in faccia. Sentii il sangue ribollirmi nelle guance.
Lui le sfiorò con le dita fredde. «Sei arrossita?», domandò sorpreso. Non alzai lo sguardo. «Bella, per favore, questa incertezza mi logora».
Non riuscivo a parlare.
«Bella». Il suo tono di rimprovero mi ricordò quanto fosse difficile per lui non sapere cosa pensavo.
«Be', sono un po' preoccupata... del dopo», ammisi, e riuscii finalmente a guardarlo in faccia.
Sentii il suo corpo irrigidirsi, ma la voce rimase vellutata e gentile. «Cosa ti preoccupa?».
«Sembrate tutti sicuri che dopo sarò interessata solo a fare a pezzi la gente», confessai. Le mie parole lo fecero sussultare. «E ho paura che sia uno sconvolgimento tale da non permettermi più di essere me stessa, da rendermi... incapace di desiderarti come ti desidero adesso».
«Bella, non sarà così per sempre», mi assicurò.
Non aveva capito.
«Edward», dissi nervosa, con gli occhi fissi su una lentiggine del mio polso. «C'è una cosa che voglio fare prima di perdere la mia natura umana».
Aspettò che proseguissi. Ma non lo feci. Sentivo la faccia bollente.
«Tutto ciò che vuoi», m'incoraggiò, ansioso e completamente disorienta-to.
«Me lo prometti?», mormorai. Sapevo che il tentativo di imbrogliarlo con le sue parole era inutile, ma non riuscii a trattenermi.
«Sì», disse. Alzai gli occhi per vedere la sua espressione seria e confusa. «Dimmi cosa vuoi, e l'avrai».
Stentavo a credere quanto mi sentivo impacciata e stupida. Ero troppo ingenua. Questo era il nodo della faccenda. Non avevo la più pallida idea di come fare per apparire seducente. Dovevo accontentarmi di essere imba-razzata e timida.
«Voglio te», borbottai in maniera piuttosto incoerente.
«Sono tuo». Sorrise e, ignaro, cercò di catturare il mio sguardo, ma svi-colai di nuovo.
Mi sollevai per inginocchiarmi sul letto. Poi gli misi le braccia al collo e lo baciai. Lui, confuso ma sincero, ricambiò il bacio. Le sue labbra erano morbide a contatto con le mie, ma sentivo che la testa era altrove. Proba-bilmente cercava di immaginare cos'avessi io in testa. Gli serviva un indizio.
Quando sciolsi l'abbraccio, mi tremavano un po' le mani. Feci scorrere le dita sulla sua gola, fino a raggiungere il colletto della camicia. Il tremore era d'intralcio, ma cercai ugualmente di slacciare i bottoni. Lui mi fermò.
Le sue labbra si bloccarono, riuscii quasi a sentire il campanello che ri-suonò nella sua testa quando finalmente associò i miei gesti alle parole.
D'un tratto mi spinse via, con un'espressione di totale disapprovazione.
«Sii ragionevole, Bella».
«Hai fatto una promessa: tutto ciò che voglio», gli ricordai, senza troppa speranza.
«Non se ne parla nemmeno». Guardandomi, riallacciò i due bottoni che ero riuscita a slacciare.
Serrai le mascelle.
«Invece sì», dissi. Presi tra le dita il primo bottone della mia camicetta e lo slacciai.
Mi afferrò i polsi e me li tenne fermi lungo i fianchi.
«Invece no», disse impassibile.
Ci scambiammo un'occhiataccia.
«Sei tu che mi hai chiesto di parlare», gli feci notare.
«Credevo fosse qualcosa di leggermente più realistico».
«Allora tu puoi chiedermi ogni cosa ridicola che ti passa per la testa, come quella di sposarci, mentre a me non è permesso nemmeno di proporre ciò che...».
Mentre sbraitavo, serrò i miei polsi con una mano sola, mentre con l'altra mi copriva la bocca.
«No», disse serio.
Respirai a fondo per ritrovare l'equilibrio. Quando la rabbia iniziò a sbollire, provai una sensazione diversa.
Mi ci volle un po' per capire perché tenessi di nuovo lo sguardo basso e perché fossi arrossita... perché il mio stomaco fosse sottosopra e i miei occhi umidi, perché all'improvviso sarei voluta uscire di corsa dalla stanza.
Mi sentivo respinta. Fu una percezione istintiva e forte, che mi attraversò da capo a piedi.
Sapevo che era un fatto del tutto irrazionale. In altre occasioni Edward mi aveva detto chiaramente che la mia incolumità era l'unico fattore in gioco. In realtà non mi ero mai sentita così vulnerabile prima di allora. Guardai torva il copriletto dorato, della stessa tonalità dei suoi occhi, e provai a scacciare la sensazione di essere indesiderata e indesiderabile.
Edward sospirò. La mano con cui mi chiudeva la bocca scese sotto al mento e mi sollevò il viso per guardarmi negli occhi.
«Che c'è?».
«Niente», mugugnai.
Mi scrutò a lungo, mentre provavo, inutilmente, a distogliere lo sguardo. Edward increspò la fronte e si fece serio.
«Ti sei offesa?», chiese, turbato.
«No», mentii.
Successe tutto così in fretta che non riuscii bene a rendermene conto, ma all'istante mi ritrovai tra le sue braccia, la testa posata delicatamente tra la spalla e la mano, mentre con il pollice mi accarezzava la guancia per rassi-curarmi.
«Sai perché devo dirti di no», mormorò. «Sai che anch'io ti voglio».
«Davvero?», sussurrai, piena di dubbi.
«Certo che sì, ragazzina sciocca, incantevole e ipersensibile». Rise, poi la sua voce si fece fredda. «Tutti ti vogliono, sai? Dietro di me c'è la fila. Cercano tutti di mettersi in buona luce e aspettano solo che io commetta un passo falso... Irresistibile come sei».
«Che sciocchezze dici...». Dubitavo che una persona maldestra, imba-razzata e inetta come me potesse essere anche desiderabile per qualcuno.
«Devo far firmare una petizione per convincerti? Vuoi i primi nomi della lista? Ne conosci qualcuno, ma certi potrebbero sorprenderti».
Scossi la testa contro il suo petto e feci una smorfia. «Stai solo provando a cambiare discorso. Torniamo al punto».
Sospirò.
«Dimmi se c'è qualcosa di sbagliato in me». Provai a fingere distacco. «Tu pretendi di sposarmi», e non potei pronunciare questa parola senza fare una smorfia, «di pagare le mie tasse universitarie, di avere più tempo a disposizione, e non ti dispiacerebbe se la mia macchina andasse un po' più veloce». Alzai le sopracciglia. «Ho saltato qualcosa? La lista è bella lun-ga..».
«Solo la prima è una pretesa». Gli risultò difficile mantenere un'espres-sione seria. «Le altre sono semplici richieste».
«E la mia unica, solitaria, piccola pretesa...».
«Pretesa?», m'interruppe e si fece di nuovo serio.
«Sì, una pretesa».
Si fece pensieroso.
«Sposarti è una grande concessione. Non acconsentirò se non mi darai qualcosa in cambio».
Abbassò la testa, per sussurrarmi qualcosa all'orecchio. «No», mormorò dolce. «Ora non possiamo. Più avanti, quando sarai meno fragile. Abbi pa-zienza, Bella».
Provai a mantenere un tono di voce fermo e ragionevole. «Ma il proble-ma sta proprio qui. Non sarò la stessa quando sarò meno fragile. Voglio essere la stessa! Non so chi sarò allora».
«Sarai sempre Bella», mi promise.
Aggrottai la fronte. «Com'è possibile che lo sia, se c'è il rischio che perda la testa e che desideri di uccidere Charlie, oppure di bere il sangue di Jacob o Angela?».
«Passerà. E dubito che tu vorrai bere il sangue di un cane». Finse di rab-brividire all'idea. «Anche da neonata, avrai gusti migliori».
Ignorai il suo tentativo di sviare il discorso. «Ma sarà comunque il mio desiderio più forte, non è vero?», in tono di sfida. «Sangue, sangue e ancora sangue!».
«Il fatto che tu sia ancora viva ti dimostra che non è vero», mi fece nota-re.
«Tu hai più di ottant'anni di vantaggio», gli ricordai. «Comunque mi ri-ferivo al lato fisico. Dal punto di vista intellettuale, so che resterò me stes-sa... dopo un periodo di assestamento. Ma dal punto di vista puramente fi-sico... avrò sempre e soltanto sete».
Non rispose.
«Perciò sarò diversa», conclusi senza incontrare resistenza. «Perché a-desso, dal punto di vista fisico, non c'è niente che desideri più di te. Più del cibo, dell'acqua o dell'aria. Dal punto di vista intellettuale l'ordine è leg-germente più sensato. Ma dal punto di vista fisico...». Girai la testa per ba-ciargli il palmo della mano. Respirò a fondo e la sua lieve insicurezza mi sorprese.
«Bella, potrei ucciderti», sussurrò.
«Non credo che ci riusciresti».
Si fece pensieroso. Tolse la mano dal mio volto per prendere qualcosa dietro di lui. Udii un leggero schianto e il letto tremò sotto di noi.
Aveva una cosa nera in mano, che avvicinò per farmela osservare. Era un fiore di metallo, una delle rose che ornavano la struttura in ferro battuto del baldacchino. Chiuse la mano per un istante, serrò le dita con dolcezza, poi la riaprì.
Senza dire una parola mi offrì il pezzo di metallo accartocciato e informe. Era un calco della sua stretta, come un pezzo di plastilina pressato nel palmo di un bambino. Passò mezzo secondo e la forma si polverizzò.
Lo guardai. «Non intendevo questo. So già quanto sei forte. Non devi metterti a spaccare i mobili».
«Che intendevi, allora?», chiese con voce cupa, scrollando il pugno di frammenti metallici in un angolo della stanza. Cadde con un suono simile alla pioggia.
Mentre mi sforzavo di spiegare, mi fissava.
«Non dico che non saresti in grado di farmi del male, se volessi... Ma è chiaro che non vuoi farmi del male... tanto che non credo ci riusciresti mai».
Iniziò a scuotere la testa prima che finissi.
«Potrebbe non andare come dici tu, Bella».
«Potrebbe, certo. Ma nessuno di noi due sa come andrà davvero».
«Esatto. Credi che potrei mai correre un rischio del genere?».
Lo fissai negli occhi per un minuto interminabile. Non intravidi nessuna ombra di compromesso, nessun segno di indecisione.
«Ti prego», sussurrai alla fine, rassegnata. «È tutto ciò che desidero. Per favore». Chiusi gli occhi, sconfitta, e attesi il rapido e definitivo no.
Ma lui non rispose subito. Esitai incredula, sbalordita nel sentire il suo respiro di nuovo irregolare.
Aprii gli occhi e lessi l'indecisione sul suo volto.
«Per favore», sussurrai di nuovo, con il cuore che batteva sempre più ve-loce. Le parole uscirono rapide dalla mia bocca, volevo sfruttare il vantag-gio improvviso dell'incertezza nei suoi occhi. «Non mi devi promettere nulla. Se non va nel modo migliore, insomma, non ci sarà problema. Al-meno... proviamoci. E poi ti concederò quel che vuoi», mi affrettai a pro-mettere. «Ti sposerò. Ti lascerò pagare le mie tasse universitarie e non pro-testerò per gli agganci con cui mi farai entrare a Dartmouth. Potrai anche comprarmi una macchina veloce, se ciò ti renderà felice! Ma... per favore».
Mi strinse tra le braccia gelide e avvicinò le labbra al mio orecchio; il suo respiro fresco mi diede i brividi. «È insopportabile. Con tutto ciò che avrei potuto darti... tu mi chiedi proprio questo. Hai idea di quanto mi costi dover respingere una richiesta come la tua?».
«E allora non respingermi», gli suggerii con il fiato corto.
Non reagì.
«Ti prego...», ci riprovai.
«Bella...». Scosse la testa lentamente, ma non sembrava un rifiuto dato che il suo volto e le sue labbra scorrevano avanti e indietro sul mio collo. Sembrava più una resa. Il mio cuore, che già batteva forte, impazzì freneti-co.
Di nuovo, cercai di sfruttare la situazione. Quando avvicinò il volto al mio con un gesto lento e indeciso, mi voltai rapida e lo baciai. Mi prese il viso tra le mani e pensai che stesse per respingermi di nuovo.
Mi sbagliavo.
La sua bocca non era delicata; i suoi movimenti erano tormentati, dispe-rati come mai prima di allora. Gli strinsi le braccia attorno al collo, a con-tatto con la mia pelle surriscaldata il suo corpo sembrava ancora più freddo del solito. Tremavo, ma non di freddo.
Non smetteva di baciarmi. Fui costretta a staccarmi soltanto per ripren-dere fiato. Le sue labbra non abbandonarono la mia pelle e si spostarono sul collo. L'eccitazione della vittoria era una strana sensazione che mi faceva sentire potente. Coraggiosa. Le mie mani non erano più insicure; slacciai i bottoni della sua camicia con estrema facilità e le mie dita seguirono il profilo perfetto del suo corpo gelido. Era bellissimo. Qual era la parola che aveva appena usato? Insopportabile, ecco cos'era. Non riuscivo a sopportare tanta bellezza...
Avvicinai di nuovo la sua bocca alla mia, sentivo che mi desiderava quanto io desideravo lui. Con una mano mi teneva ancora il viso, con l'altro braccio mi cingeva la vita per stringermi a sé. Non fu facile raggiungere i bottoni della mia camicetta, ma ci provai. E ci riuscii.
Due ceppi freddi, di ferro, mi strinsero i polsi e mi portarono le mani so-pra la testa, che si ritrovò all'improvviso sul cuscino.
Con una voce calda e vellutata, mi sussurrò all'orecchio: «Bella, vuoi smettere per favore di provare a toglierti i vestiti?».
«Vuoi farlo tu?», domandai confusa.
«Non stanotte», rispose tenero. Le sue labbra erano tornate a muoversi lente sul mio collo, l'urgenza era sparita.
«Edward, non...», cercai di ribattere.
«Non ti sto dicendo di no», mi tranquillizzò. «Ti sto dicendo "non sta-notte"».
Ci pensai su, mentre il mio respiro si calmava.
«Dammi almeno una ragione per cui stanotte non va bene e un'altra notte sì». Ero ancora senza fiato; ciò rese meno evidente il tono di delusione nella mia voce.
«Non sono nato ieri», mi disse all'orecchio, sorridendo. «Tra noi due, chi credi che sia più riluttante a dare all'altro ciò che vuole? Mi hai promesso che ti trasformerai soltanto dopo che ci saremo sposati ma, se io cedo sta-notte, chi mi garantisce che non andrai di corsa da Carlisle domattina? È ovvio, io sono molto meno restio di te a darti quel che vuoi. Perciò... prima tocca a te».
«Prima ti devo sposare?», chiesi incredula.
«Questo è il patto... Prendere o lasciare. Ricordi la storia dei compro-messi?». Mi strinse tra le braccia e riprese a baciarmi in un modo che do-vrebbe essere dichiarato illegale: così persuasivo, era prepotenza, coerci-zione. Provai a restare lucida... senza risultato. Mi arresi subito e in maniera assoluta.
«Credo che sia proprio una cattiva idea», dissi ansimando, non appena mi lasciò respirare.
«Non mi sorprende che la pensi così», disse ridendo. «Sei proprio te-starda».
«Com'è possibile?», brontolai. «Stanotte pensavo di prendermi ciò che mi spetta - per una volta - e invece, tutto a un tratto...».
«Sei fidanzata», finì la frase.
«Ehi! Per favore, non pronunciare nemmeno quella parola».
«Ora sei tu a rimangiarti la promessa?», chiese. Si allontanò un poco per guardarmi in faccia. Aveva un'espressione divertita. Se la stava spassando.
Gli lanciai un'occhiataccia, cercando di ignorare la reazione del mio cuore al suo sorriso.
«Te la vuoi rimangiare?», insistette.
«Uffa! No. Certo che no. Sei contento adesso?».
Il suo sorriso era accecante. «Molto più del solito».
Mugugnai una protesta.
«Proprio non sei contenta?».
Prima che potessi rispondere mi baciò di nuovo. Un altro di quei baci troppo convincenti.
«Un po'», ammisi non appena me lo lasciò fare. «Ma non del fatto che ci sposiamo».
Mi baciò di nuovo. «Non ti sembra che tutto vada al contrario?», mi dis-se, ridendo, all'orecchio. «Secondo la tradizione, tu dovresti sostenere la mia posizione, e io la tua...».
«C'è poco di tradizionale tra noi».
«È vero».
Mi baciò di nuovo e insistette finché il mio cuore non perse il controllo e la mia pelle s'imporporò.
«Senti, Edward», mormorai con voce adulante, quando smise di baciarmi il palmo della mano. «Ti ho detto che ti avrei sposato, e lo farò. Lo prometto. Lo giuro. Sono disposta anche a firmare un contratto con il san-gue, se vuoi».
«Non è affatto divertente», sussurrò, le labbra nell'incavo del mio polso.
«Quel che sto cercando di dirti è semplice: non ho intenzione di imbro-gliare. Mi conosci bene. Perciò non c'è motivo di aspettare. Siamo da soli: quand'è che succederà di nuovo? E abbiamo a disposizione questo letto grande e comodo...».
«Non stanotte», ribadì.
«Non ti fidi di me?».
«Certo che mi fido».
Con la mano, che stava ancora baciando, gli alzai il viso per poter leggere la sua espressione.
«Allora dov'è il problema? Sai benissimo che alla fine vincerai tu». Ag-grottai la fronte e brontolai: «Alla fine vinci sempre tu».
«Perché scommetto sia a favore che contro», disse calmo.
«C'è dell'altro», risposi pensierosa.
Sentivo che era sulla difensiva, che c'era un motivo segreto che stava cercando di nascondere dietro a quel suo fare disinvolto. «Stai forse pen-sando di rimangiarti la promessa?».
«No», s'impegnò solennemente. «Te lo giuro, ci proveremo. Dopo che ci saremo sposati».
Scossi la testa e mi uscì una risata malinconica. «Mi fai sentire come il cattivo in un melodramma: sto qui ad arricciarmi i baffi e penso a come rubare la virtù di una povera ragazza». Mi guardò con diffidenza, poi si chinò e mi baciò sulla clavicola.
«È così, non è vero?». Scoppiai a ridere, più scioccata che divertita. «Stai cercando di proteggere la tua virtù!». Mi coprii la bocca con la mano, per nascondere il sorriso. Non riuscii a trattenerlo. Era un discorso così... all'antica.
«No, sciocca», sussurrò, premendo la bocca sulla mia spalla. «È la tua virtù che vorrei proteggere. E tu mi rendi tutto tremendamente difficile».
«Che idea ridicola...».
«Voglio chiederti una cosa», m'interruppe. «Ne abbiamo già parlato, ma ascoltami. Quante persone in questa stanza hanno un'anima, la possibilità di andare in paradiso, o qualsiasi cosa ci sia dopo la morte?».
«Due», risposi immediatamente, con vigore.
«Va bene. Forse è vero. Ora, non tutti la condividono, ma l'opinione co-mune è che si debbano rispettare delle regole».
«Non ti bastano quelle dei vampiri? Vuoi preoccuparti anche delle regole umane?».
«Male non fa». Si strinse nelle spalle. «Non si sa mai».
Gli lanciai un'occhiata torva.
«Dunque, può darsi che per la mia anima sia troppo tardi, anche se do-vessi aver ragione tu».
«Niente affatto», risposi arrabbiata.
«"Non uccidere" è una regola condivisa dalle fedi più importanti. E io ho ucciso un sacco di persone, Bella».
«Tutte cattive».
Si strinse nelle spalle. «Forse conta, o forse no. Tu non hai ucciso nessu-no...».
«Che tu sappia...», borbottai.
Sorrise, ma ignorò il mio commento. «E farò del mio meglio per tenerti lontana da ogni tentazione».
«Va bene. Ma non sono gli omicidi l'argomento della discussione», gli ricordai.
«Il principio è lo stesso... con l'unica differenza che in questo ambito so-no senza macchia, proprio come te. Mi concedi di rispettare almeno una regola?».
«È l'unica?».
«Ho rubato, ho mentito, ho desiderato cose non mie... Mi resta soltanto la mia virtù». E fece uno dei suoi sorrisi sghembi.
«Io mento in continuazione».
«Certo, ma lo fai così male, che in realtà non conta. Non ci crede nessu-no».
«Spero davvero che ti sbagli altrimenti tra poco Charlie farà irruzione armato».
«Charlie fa finta di bersi le tue storie. Piuttosto che affrontare le cose da vicino preferisce mentire a se stesso». Sorrise malizioso.
«E cos'avresti desiderato?», chiesi piena di dubbi. «Tu puoi avere tutto».
«Ho desiderato te». E il suo sorriso si spense. «Non ne avevo il diritto, ma ho allungato la mano e ti ho presa ugualmente. E ora, guarda cosa sei diventata! Stai cercando di sedurre un vampiro». Scosse la testa con finto orrore.
«Non è peccato desiderare ciò che è già tuo, lo sai. E poi, pensavo che fossi preoccupato per la mia virtù».
«Lo sono. Se per me è troppo tardi... Be', andrei all'inferno, e dico sul serio, pur di impedire che ci finisca tu».
«Non puoi lasciarmi andare in un posto in cui tu non ci sarai», dissi. «Per me quello è l'inferno. Comunque, c'è una soluzione anche a questo: che ne dici di diventare immortali?».
«Sì, sembra davvero facile. Perché non ci ho pensato prima?».
Mi sorrise fino a che non sbuffai di rabbia. «Insomma, questo è quanto. Non andremo a letto insieme fino a che non saremo sposati».
«Tecnicamente, i vampiri non hanno bisogno né di dormire né di letti».
Alzai gli occhi al cielo. «Molto maturo, Edward, davvero».
«Comunque, eccezion fatta per questo dettaglio, sì, hai ragione».
«Secondo me c'è un altro motivo».
Spalancò gli occhi, ingenuo. «Un altro?».
«Tu sai che questo accelererà i tempi», lo accusai.
Cercò di non sorridere. «C'è una sola cosa che vorrei accelerare, il resto può attendere in eterno... ma è vero, i tuoi ormoni impazienti sono il mio migliore alleato in questa battaglia».
«Non riesco a credere di esserci cascata. Se penso a Charlie... e a Renée! Cosa penserà Angela? O Jessica? Uffa. Sento già i pettegolezzi».
Alzò un sopracciglio, e sapevo perché. Che importava cosa dicevano di me? Presto sarei partita, per non tornare mai più. Ero davvero così ipersen-sibile da non poter sopportare un paio di settimane di sguardi sospetti e domande tendenziose?
Probabilmente mi sentivo così infastidita soltanto perché anch'io avrei spettegolato, se qualcuno dei miei amici si fosse sposato entro l'estate.
Oddio. Sposarsi entro l'estate! Rabbrividii.
E inoltre, mi sentivo infastidita perché i miei mi avevano insegnato a guardare con terrore al matrimonio.
Edward interruppe i miei pensieri. «Non c'è bisogno di fare le cose in pompa magna. Non voglio grandi celebrazioni. Non dovrai dirlo a nessuno, né fare alcun cambiamento. Andremo a Las Vegas... potrai indossare i tuoi vecchi jeans, andremo in una di quelle cappelle in cui basta aprire il finestrino, senza nemmeno scendere dall'auto. Voglio soltanto rendere uf-ficiale il nostro legame: voglio che tu appartenga a me e a nessun altro».
«La cosa non potrà essere più ufficiale di quanto lo è adesso», brontolai. Ma come descrizione non era male. Peccato per Alice, sarebbe rimasta un po' delusa.
«Ne riparleremo». E sorrise compiaciuto. «Suppongo che in questo mo-mento non ti vada di ricevere un anello».
Deglutii prima di rispondere. «La tua supposizione è corretta».
Rise della mia espressione. «Fantastico. Ma te lo metterò al dito presto».
Gli lanciai un'occhiataccia. «Parli come se l'avessi in tasca».
«Proprio così», ribatté in modo sfacciato. «Sono pronto ad approfittare del tuo primo momento di distrazione».
«Sei incredibile».
«Vuoi vederlo?», mi chiese. Il topazio liquido dei suoi occhi si accese di entusiasmo.
«No!», urlai quasi, senza pensarci su. Me ne pentii all'istante. Anche lui ci rimase male. «A meno che non desideri davvero mostrarmelo», aggiunsi. Serrai la bocca per non mostrare il mio terrore irrazionale.
«Non c'è problema», si strinse nelle spalle. «Posso aspettare».
Sospirai. «Fammi vedere quel maledetto anello, Edward».
Scosse la testa. «No».
Studiai la sua espressione per un istante interminabile.
«Per favore», dissi calma, sperimentando l'arma di persuasione che avevo appena scoperto di possedere. Con la punta delle dita gli toccai con de-licatezza il volto. «Per favore, posso vederlo?».
Affilò lo sguardo. «Sei la creatura più pericolosa che abbia mai incontra-to», mormorò. Poi si alzò e s'inginocchiò con grazia inconsapevole accanto al comodino. Un istante dopo era di nuovo sul letto, accanto a me, e mi cingeva le spalle con un braccio. Teneva in mano una scatolina nera. La mise in bilico sul mio ginocchio sinistro.
«Avanti allora, aprila», disse in modo brusco.
Prendere quella scatolina inoffensiva fu più difficile di quanto pensassi, ma non volevo ferirlo di nuovo, così provai a fermare il tremore della mia mano. La superficie era morbida, in raso nero. La sfiorai con le dita, inde-cisa.
«Hai speso un sacco di soldi, vero? Menti pure, se l'hai fatto».
«Non ho speso nulla», mi rassicurò. «È solo un altro riciclaggio. È l'a-nello di fidanzamento di mia madre».
«Ah». La mia voce si riempì di sorpresa. Strinsi il coperchio tra il pollice e l'indice, ma non riuscii ad aprirlo.
«Immagino che sia un po' fuori moda», si scusò, divertito. «All'antica, come me. Ti posso far avere qualcosa di più moderno. Ti andrebbe qualcosa di Tiffany?».
«Mi piacciono le cose fuori moda», mormorai e aprii esitante il coper-chio. Protetto dal satin nero, l'anello di Elizabeth Masen brillava alla luce fioca. Era un ovale allungato, coperto da file oblique di pietre tonde e luc-cicanti. La montatura era d'oro giallo, sottile e delicata. Loro formava una rete finissima attorno ai diamanti. Non avevo mai visto nulla del genere.
Senza pensarci accarezzai le gemme scintillanti.
«Che carino», mormorai sorpresa.
«Ti piace?».
«È bellissimo». Alzai le spalle, fingendo di non essere interessata. «Per-ché non dovrebbe piacermi?».
Ridacchiò. «Guarda se ti va bene».
La mia mano sinistra si strinse in un pugno.
«Bella», disse. «Non te lo salderò al dito. Vorrei solo che te lo provassi per vedere se la misura è giusta. Dopo te lo puoi togliere».
«Bene», borbottai.
Feci per prenderlo, ma le sue dita lunghe furono più veloci. Mi prese la mano sinistra e infilò l'anello all'anulare. Mi sollevò la mano ed entrambi osservammo l'anello brillare al contrasto con la mia pelle. Portare un anello al dito non era orribile come temevo.
«Misura perfetta», disse quasi indifferente. «Non c'è male... mi risparmia un viaggio dall'orefice».
Dietro al tono disinvolto della sua voce percepii una forte emozione e lo guardai in faccia. L'emozione traboccava anche dagli occhi, malgrado tutti i suoi sforzi.
«Ti piace, non è vero?», domandai sospettosa, muovendo le dita e rim-piangendo di non essermi rotta la mano sinistra.
Alzò le spalle. «Certo», disse con disinvoltura. «Ti sta davvero bene».
Lo guardai negli occhi, cercando di decifrare l'emozione che covava. Anche lui mi guardò e all'improvviso ogni accenno di finzione sparì. Era raggiante e il suo viso d'angelo sprizzava gioia da tutti i pori. Era così ma-gnifico da lasciarmi senza fiato.
Prima che potessi riprendere a respirare, mi baciò, esultante. Ero stordita. Quando mosse la bocca per sussurrarmi qualcosa all'orecchio notai che il suo respiro era irregolare come il mio.
«Sì, mi piace. E non sai quanto».
Risi, con il fiato grosso. «Ci credo».
«Ti dispiace se faccio una cosa?», sussurrò, stringendomi nell'abbraccio.
«Tutto ciò che vuoi».
Mi lasciò andare e scivolò via.
«Questo no, però», mi lamentai.
Mi ignorò, mi prese per mano e mi fece alzare dal letto. Stava in piedi di fronte a me, con le mani sulle mie spalle, serio.
«Invece voglio farlo come si deve. Per favore, per favore, ricordati che mi hai già detto di sì, e non rovinare tutto».
«Oh, no», esclamai, e lo vidi inginocchiarsi davanti a me.
«Sii gentile», mormorò.
Respirai a fondo.
«Isabella Swan?». Mi guardò da dietro quelle ciglia incredibilmente lun-ghe, con i suoi occhi dorati, dolci e al tempo stesso ardenti. «Prometto di amarti per sempre, ogni singolo giorno, per l'eternità. Mi vuoi sposare?».
Avrei voluto dire un sacco di cose, alcune niente affatto belle, altre ver-gognosamente sdolcinate e romantiche, che forse nemmeno nei suoi sogni mi aveva mai sentito dire. Eppure, invece di sentirmi in imbarazzo, sussur-rai: «Sì».
«Grazie», rispose senza aggiungere altro. Poi mi prese la mano e le sue labbra sfiorarono la punta di ogni dito, prima di baciare l'anello che ormai era mio.

21
Scie

Non sopportavo l'idea di dover sprecare un solo minuto di quella notte per il sonno, ma addormentarmi fu inevitabile. Al mio risveglio il sole splendeva luminoso fuori dalla grande vetrata, circondato da nuvole che solcavano il cielo, troppo veloci. Il vento scuoteva le cime degli alberi, quasi volesse spianare la foresta.
Quando finalmente mi lasciò sola perché mi vestissi, riuscii a riflettere. Chissà come, i miei piani per la nottata erano falliti miseramente e mi toc-cava affrontare le conseguenze. Gli avevo immediatamente restituito l'anello riciclato, badando a non offenderlo, ma sentivo ancora la mano sinistra pesante, come se fosse diventato invisibile e non lo avessi mai tolto.
Tutto sommato, non era il caso di preoccuparsi. Non era niente di assur-do... solo un viaggetto a Las Vegas. Altro che jeans: avrei indossato i miei vecchi pantaloni della tuta. La cerimonia non poteva durare troppo; non più di quindici minuti, alla peggio, no? Era sopportabile.
E poi sarebbe toccato a lui rispettare la promessa. Mi concentrai su quel particolare e dimenticai il resto.
Mi aveva ordinato di non farne parola con nessuno ed ero decisa a obbe-dire. Ovviamente avevo commesso l'errore ingenuo di non pensare ad Alice.
I Cullen tornarono a casa intorno a mezzogiorno. Sembravano tutti molto presi dalla loro missione, il che mi riportò all'enormità di ciò che stava per succedere.
L'umore di Alice sembrava peggiorato. Forse era colpa della sensazione frustrante di essere normale, perché quando parlò con Edward fu per la-mentarsi della collaborazione con i lupi.
«Forse», fece una smorfia per accompagnare il dubbio, «ti dovrai difen-dere dal freddo, Edward. Non vedo con esattezza dove sei, perché oggi pomeriggio partirai assieme al cane. Comunque sia, la tempesta in arrivo sembra piuttosto violenta in quella zona».
Edward annuì.
«In montagna sta per nevicare», lo avvertì.
«Uffa, anche la neve», mormorai a mezza voce. Era giugno, per la mise-ria!
«Prendi una giacca a vento», mi disse Alice. La sua voce mi sorprese, perché non era affatto amichevole. Cercai di leggerne l'espressione, ma si voltò.
Guardai Edward e lo vidi sorridere: qualunque cosa fosse a turbare Alice, lui la trovava divertente.
Edward disponeva di attrezzatura da campeggio più che sufficiente - gli accessori di scena nella sua finzione di umanità - e d'altronde i Cullen erano clienti affezionati dei Newton. Afferrò un sacco a pelo, una piccola tenda e parecchie confezioni di cibo liofilizzato - sorrise alla vista della smorfia che feci - e infilò tutto in uno zaino da trekking.
Alice ci raggiunse in garage e restò silenziosa a guardare i preparativi di Edward. Lui fece finta di niente.
A operazione conclusa, Edward mi passò il suo cellulare. «Per favore, chiama Jacob e digli che lo aspettiamo tra un'ora circa. Sa dove trovarci».
Jacob non era a casa, ma Billy promise di fare qualche telefonata per rin-tracciare un altro licantropo che riferisse la richiesta. «Non preoccuparti per Charlie», mi disse Billy. «È tutto sotto controllo, farò il mio dovere».
«Sì, so che Charlie è al sicuro». Non ero altrettanto ottimista riguardo a suo figlio, ma evitai di precisarlo.
«Non sai quanto vorrei potermi unire a loro domani», ridacchiò malin-conico Billy. «Essere anziani è una pena, Bella».
Evidentemente la smania di combattere costituiva un tratto costante del cromosoma Y. Erano tutti uguali.
«Divertiti con Charlie».
«Buona fortuna, Bella», rispose. «E... auguralo anche ai, ehm, Cullen da parte mia».
«Certo», promisi stupita.
Quando restituii il cellulare a Edward mi accorsi che lui e Alice erano impegnati in una sorta di discussione silenziosa. Lei lo fissava con sguardo implorante. Lui rispondeva torvo, inquieto di fronte alle richieste della so-rella.
«Billy vi augura buona fortuna».
«Molto generoso da parte sua», disse Edward, e si allontanò da Alice.
«Bella, possiamo parlare, io e te da sole?», mi chiese lei subito.
«Stai per complicarmi la vita più di quanto io meriti, Alice», la mise in guardia Edward a denti stretti. «Preferirei di no, davvero».
«La cosa non ti riguarda», sibilò lei.
Lui scoppiò a ridere come di fronte a una risposta divertente.
«Ti dico di no», insistette Alice. «È roba da femmine».
Edward si rabbuiò.
«Lasciaci parlare», dissi. Ero curiosa.
«Se proprio ci tieni», mormorò. Continuò a ridere - un po' arrabbiato, un po' divertito - e uscì a grandi passi dal garage.
Mi voltai verso Alice, preoccupata, ma lei non mi degnò di uno sguardo. Il malumore non se n'era ancora andato.
Si sedette sul cofano della Porsche, con espressione avvilita. La seguii e mi appoggiai al paraurti, accanto a lei.
«Bella?», chiese Alice triste, avvicinandosi e stringendosi al mio fianco. Il suono della sua voce era talmente disperato che sentii il bisogno di strin-gerla tra le braccia per rincuorarla.
«Che succede, Alice?».
«Non mi vuoi più bene?», chiese con lo stesso tono triste.
«Certo che sì. Lo sai».
«E allora perché ti vedo fuggire a Las Vegas per sposarti, senza neanche invitarmi?».
«Ah», mormorai e arrossii all'istante. Ecco, l'avevo davvero offesa, perciò mi affrettai a difendermi. «Sai che odio prendere certe cose troppo sul serio. E comunque, l'idea è venuta a Edward».
«Non mi interessa di chi è l'idea. Come hai potuto farmi una cosa del genere? Certi gesti me li aspetterei da lui, non da te. Ti voglio bene come a una sorella».
«Per me, Alice, tu sei una sorella».
«Chiacchiere!», ruggì.
«D'accordo, puoi venire. Non ci sarà molto da vedere».
Ancora non si era tranquillizzata.
«Che c'è?», domandai.
«Quanto bene mi vuoi, Bella?».
«Perché?».
Mi fissò con uno sguardo implorante, le lunghe sopracciglia nere con-tratte e inarcate, gli angoli delle labbra tremanti. Un'espressione che mi commosse. «Ti prego, ti prego, ti prego», sussurrò. «Ti prego, Bella, ti prego... se davvero mi vuoi bene... Per favore, lascia che sia io a organizzare il matrimonio!».
«Oh, Alice!», esclamai sciogliendo l'abbraccio e alzandomi. «No! Non farmi questo!».
«Se davvero, davvero mi vuoi bene».
Incrociai le braccia. «Non è affatto giusto. Ci ha già provato Edward».
«Scommetto che Edward preferirebbe qualcosa di più tradizionale, anche se non lo ammetterebbe mai. E poi Esme: pensa a quanto ci terrebbe!».
Risposi con un grugnito. «Piuttosto affronto i neonati da sola».
«Sarò in debito con te per un decennio!».
«Per un secolo, direi!».
Il suo sguardo si accese. «È un sì?».
«No! Non te la darò vinta!».
«Non dovrai fare altro che percorrere pochi metri e ripetere le parole del sacerdote».
«Oh! No, no, no!».
«Per favore?». Iniziò a saltellare sul posto. «Dai, dai, dai, dai, dai...».
«Non ti perdonerò mai e poi mai, Alice».
«Evviva!», strillò battendo le mani.
«Non era un sì!».
«Ma lo diventerà», canticchiò.
«Edward!», strillai, correndo fuori dal garage. «So che ci stai ascoltando. Vieni subito qui». Alice era alle mie spalle, non smetteva di applaudire.
«Grazie tante, Alice», disse Edward acido, spuntando dietro di me. Mi voltai per dirgliene quattro, ma la sua espressione era talmente preoccupata e nervosa che non riuscii a dar voce alle mie lamentele. Finii per gettargli le braccia al collo, per nascondere il viso e i miei occhi lucidi, nel caso intuisse che stavo piangendo.
«Las Vegas», sussurrò al mio orecchio.
«Nemmeno per sogno», disse Alice gongolante. «Bella non mi farebbe mai una cosa del genere. Certo che come fratello a volte sei proprio una delusione, Edward».
«Non essere cattiva», farfugliai. «Lui vuole soltanto farmi felice».
«Anch'io voglio farti felice, Bella. Il fatto è che io so cosa ti darà la feli-cità... alla lunga. Un giorno mi ringrazierai. Magari non nei prossimi cin-quant'anni, ma prima o poi sì».
«Non immaginavo che sarei arrivata a scommettere contro un tuo prono-stico, Alice, ma oggi è così».
Scoppiò nella sua risata argentina. «Posso vedere l'anello?».
Reagii terrorizzata quando afferrò la mia mano sinistra e la lasciò cadere all'istante. «Oh. L'ho visto mentre te lo infilava... Mi sono persa qualcosa?», domandò. Si concentrò per qualche secondo, increspò la fronte e si diede la risposta. «No. Il matrimonio non è stato annullato».
«Bella ha qualche problema con i gioielli», chiarì Edward.
«Un diamante in più cosa cambia? Be', immagino che sull'anello ci sia più di un diamante, ma, insomma, visto che già ne indossa uno...».
«Basta, Alice!», la interruppe Edward. Le lanciò uno sguardo... degno di un vampiro. «Abbiamo fretta».
«Non capisco. Cos'è questa storia dei diamanti?», domandai.
«Ne riparliamo dopo», rispose Alice. «Edward ha ragione, meglio che vi sbrighiate. Dovete preparare la trappola e accamparvi prima che arrivi la tormenta». Si rabbuiò, la sua espressione era ansiosa, quasi nervosa. «Non dimenticare la giacca a vento, Bella. Sembra... che farà più freddo della norma».
«L'ho presa io», la rassicurò Edward.
«Passate una buona notte», ci disse a mo' di saluto.
Per raggiungere la radura impiegammo il doppio del solito: Edward ef-fettuò una lunga deviazione per assicurarsi che il mio odore non si avvici-nasse al tragitto che avrei percorso assieme a Jacob. Mi portò in braccio mentre sulle spalle, al mio solito posto, c'era lo zaino voluminoso.
Si fermò al margine settentrionale della radura e mi aiutò ad alzarmi in piedi.
«Bene. Cammina un po' verso nord e cerca di toccare tutto ciò che puoi. Alice mi ha dato una descrizione chiara della strada che seguiranno, non impiegheremo molto prima di incrociarla».
«A nord?».
Sorrise e indicò la direzione giusta.
Vagai nel bosco, mentre la luce accesa e gialla del giorno stranamente estivo restava nella radura alle mie spalle. Forse nelle sue immagini sfocate Alice aveva visto la neve dove non ce n'era. Ci speravo. Il cielo era quasi tutto sereno, malgrado il vento frustasse furioso gli spazi aperti. Tra gli alberi c'era più calma, ma anche troppo freddo e, considerato che era giu-gno, avevo la pelle d'oca nonostante la maglietta a maniche lunghe e il maglione pesante. Camminavo piano, strisciando le dita ovunque: sulla corteccia grezza degli alberi, tra le felci umide, sulle rocce coperte di mu-schio.
Edward restava a una ventina di metri da me.
«Va bene così?», dissi.
«Perfetto».
Mi venne un'idea. «E se faccio così?», domandai, prima di infilare le dita tra i capelli e di sfilarne qualcuno. Li sistemai tra le felci.
«Buona idea, rafforza la scia. Ma non c'è bisogno di strapparsi i capelli, Bella. Andrà tutto bene».
«C'è qualche jolly che mi posso giocare».
Sotto il buio degli alberi, avrei preferito potermi avvicinare a Edward e stringere la sua mano.
Posai un altro capello sopra un ramo spezzato che mi trovai davanti.
«Non sei obbligata a darla vinta ad Alice, sai», disse Edward.
«Non preoccuparti. E non temere che ti lasci da solo all'altare». Ormai temevo che alla lunga Alice l'avrebbe avuta vinta, prima di tutto perché quando si trattava di ottenere qualcosa per sé non si faceva alcuno scrupolo, e poi perché di fronte ai sensi di colpa crollavo sempre.
«Non è di questo che sono preoccupato. Voglio che quel giorno sia come lo desideri tu».
Soffocai un sospiro. Non volevo ferirlo confessandogli la verità. Tutto sommato non m'importava, perché in una maniera o nell'altra sarebbe stato comunque orribile.
«Be', anche se l'avrà vinta non faremo una cosa in grande. Soltanto noi. Emmett può recuperare un certificato falso su Internet».
Sorrisi. «Così va meglio». La cerimonia sarebbe diventata un po' meno ufficiale se fosse stato Emmett a celebrarla, e ciò era un vantaggio. Ma avrei fatto fatica a trattenere le risate.
«Vedi», disse sorridendo. «Un compromesso si trova sempre».
Mi ci volle un po' per raggiungere il luogo in cui l'esercito dei neonati avrebbe sicuramente incrociato la mia scia, ma Edward non si lasciò spa-zientire dal mio passo lento.
Fu costretto a indicarmi la strada del ritorno, per aiutarmi a non deviare. Il bosco mi sembrava tutto uguale.
Poco prima che raggiungessimo la radura, caddi. Probabilmente fu la vi-sta dello spiazzo aperto di fronte a me a scatenare la fretta e a farmi dimen-ticare di guardare dove mettevo i piedi. Riuscii a non battere la testa contro un albero, ma un ramo si spezzò sotto la pressione della mia mano sinistra e una scheggia mi ferì il palmo.
«Ahi! Ecco, fantastico», brontolai.
«Stai bene?».
«Sì. Resta dove sei. Sto sanguinando. Un minuto e smette».
Non mi ascoltò. Mi raggiunse prima ancora che finissi di parlare.
«Ho un kit di pronto soccorso», disse sfilandosi lo zaino. «Chissà perché, immaginavo che ci sarebbe servito».
«Non è grave. Posso occuparmene io. Non voglio metterti a disagio».
«Non sono a disagio», rispose tranquillo. «Ecco, lascia che ti pulisca la ferita».
«Aspetta un attimo, ho appena avuto un'altra idea».
Senza guardare il sangue, e respirando con la bocca per evitare strane re-azioni dello stomaco, sfregai la mano contro una roccia non lontana.
«Cosa fai?».
«Jasper ne andrà pazzo», mormorai tra me. Mi alzai e proseguii verso la radura, strisciando il palmo contro tutto ciò che incontravo. «Scommetto che questo li manderà su di giri». Poi lo guardai e aggiunsi: «Trattieni il respiro».
«Sto bene. Secondo me stai esagerando».
«Non ho altra scelta. Voglio fare un buon lavoro».
Mentre parlavo ci lasciammo alle spalle l'ultimo albero. Feci scorrere la mano ferita tra le felci.
«Be', ci sei riuscita», mi rassicurò Edward. «I neonati perderanno la testa e Jasper sarà molto soddisfatto del tuo impegno. Adesso fatti curare, la ferita è sporchissima».
«Lascia fare a me».
Mi prese la mano e la esaminò sorridendo. «Non è più un problema, sai?»,
Mentre puliva il taglio cercai sul suo viso i segni dell'angoscia. Respirava regolarmente, il mezzo sorriso non se n'era andato.
«Cioè?», chiesi infine, mentre sistemava il cerotto sul palmo della mano.
Alzò le spalle. «Ho davvero risolto il problema».
«Il... problema? Quando? Come?». Cercai di ricordare l'ultima occasione in cui aveva dovuto trattenere il respiro in mia presenza. L'unica immagine era quella della mia ultima disgraziata festa di compleanno.
Edward increspò le labbra, forse in cerca delle parole giuste. «Ho vissuto ventiquattr'ore nella certezza che fossi morta, Bella. Ciò ha cambiato il mio modo di vedere parecchie cose».
«Mi senti addosso un profumo diverso?».
«Niente affatto. Però, dopo aver sperimentato la sensazione di averti persa... le mie reazioni sono cambiate. Rifiuto con tutto me stesso ogni comportamento che potrebbe innescare di nuovo una sofferenza come quella».
Non sapevo cosa dire.
Sorrise della mia espressione. «Direi che possiamo definirla un'esperienza molto educativa».
A quel punto il vento frustò la radura, mi scompigliò i capelli sul viso e mi fece rabbrividire.
«Bene», disse, e frugò di nuovo nello zaino. «Hai fatto la tua parte». Ne estrasse il mio giubbotto invernale e me lo porse perché me lo infilassi. «La palla passa agli altri. Andiamo in campeggio!».
Risi del finto entusiasmo nella sua voce.
Prese la mia mano incerottata - l'altra era ridotta ancora peggio, sempre steccata - e si diresse verso l'altro lato dello spiazzo.
«Dove troviamo Jacob?», domandai.
«Proprio qui». Indicò gli alberi davanti a noi e proprio in quel momento Jacob spuntò cauto dall'ombra.
In teoria non avrei dovuto essere sorpresa nel vederlo in sembianze u-mane. Chissà perché, mi aspettavo un grosso lupo rossiccio.
Che Jacob sembrasse ancora più imponente era senz'altro un ulteriore frutto della mia immaginazione: forse, inconsciamente, speravo di incon-trare il Jacob dei miei ricordi, quello più minuto, l'amico bonario la cui presenza non complicava le cose. Procedeva a braccia conserte e a petto nudo, un giaccone stretto nel pugno. Ci guardò senza tradire emozioni.
Gli angoli delle labbra di Edward si tesero all'ingiù. «Doveva esserci una maniera migliore».
«Ormai è tardi», mormorai cupa.
Rispose con un sospiro.
«Ciao, Jake», esclamai quando fummo vicini.
«Ciao, Bella».
«Buongiorno, Jacob», disse Edward.
Jacob, molto concreto, ignorò la cortesia. «Dove la porto?».
Edward estrasse una mappa dalla tasca laterale dello zaino e gliela porse. Jacob l'aprì.
«Ora siamo qui», disse Edward, allungandosi a indicare il luogo esatto. Jacob si ritrasse automaticamente, per poi ricomporsi. Edward finse di non accorgersene.
«E tu la porti quassù», proseguì Edward, seguendo un sentiero tortuoso, parallelo al profilo dei rilievi sulla mappa. «A poco più di una dozzina di chilometri».
Jacob annuì secco.
«A quasi due chilometri da qui dovresti incrociare la mia scia. Seguila e arriverai a destinazione. Hai bisogno della mappa?».
«No, grazie. Questa zona la conosco piuttosto bene. Credo di sapermi o-rientare».
Jacob sembrava doversi sforzare molto più di Edward per mantenere un tono educato.
«Io prendo una strada più lunga», disse Edward. «Ci vediamo tra qualche ora».
Edward mi lanciò uno sguardo triste. Quella parte del piano non gli pia-ceva.
«Ci vediamo», sussurrai.
Edward svanì tra gli alberi, allontanandosi.
Quando fu distante, Jacob tornò di buonumore.
«Come va, Bella?», chiese con un gran sorriso.
Alzai gli occhi al cielo. «Al solito».
«Già», rispose. «Una banda di vampiri cerca di ucciderti. Al solito».
«L'hai detto».
«Be'», disse, infilandosi il giaccone per avere le braccia libere, «andia-mo».
A malincuore mi avvicinai a lui. Si chinò e allungò un braccio verso le mie ginocchia, afferrandole e togliendomi l'equilibrio. Con l'altro braccio mi afferrò prima che battessi la testa per terra.
«Cretino», mormorai.
Jacob ridacchiò e iniziò a correre tra gli alberi. Manteneva il passo spe-dito, una mezza corsa a cui qualsiasi umano allenato avrebbe tenuto testa in pianura... se non fosse stato oberato di un fardello di quasi cinquanta chili.
«Non sei costretto a correre. Ti stancherai».
«Correre non mi stanca», rispose. Il respiro era regolare, ritmato come quello di un maratoneta. «E poi, tra poco farà freddo. Spero che l'accam-pamento sia pronto prima che arriviamo».
Tamburellai un dito sull'imbottitura spessa del suo giaccone. «Pensavo che non patissi più il freddo».
«Infatti. Questo l'ho portato per te, nel caso non fossi equipaggiata». Guardò la mia giacca a vento, quasi scocciato di vedermi coperta. «Non mi piace questo tempo. Mi rende nervoso. Ti sei accorta che non abbiamo in-contrato neanche un animale?».
«Ehm, sinceramente no».
«Lo immaginavo. I vostri sensi sono troppo rozzi».
Abbozzai. «Anche Alice era preoccupata per la tormenta».
«Dev'essere qualcosa di grosso, per aver ammutolito la foresta. Hai scelto una notte tremenda per andare in campeggio».
«L'idea non è stata tutta mia».
Il percorso che imboccò, lontano dai sentieri segnati, si fece sempre più ripido, ma lui non rallentò. Saltava agile di roccia in roccia senza neanche usare le mani. In equilibrio perfetto, quasi come un capriolo.
«Cos'è che hai aggiunto al braccialetto?», chiese.
Abbassai lo sguardo e notai che dal mio polso penzolava il cuore di cri-stallo.
Mi strinsi nelle spalle, imbarazzata. «Un altro regalo per il diploma».
Fece una smorfia. «Un brillante. Ovvio».
Un brillante? Ripensai all'istante alla mezza frase di Alice, fuori dal ga-rage. Fissai il cristallo bianco e luccicante e cercai di ricordare ciò che aveva detto a proposito... dei diamanti. Quel «ne indossa già uno» si riferiva forse a ciò che Edward mi aveva regalato? No, impossibile. Avrebbe dovuto essere un cuore da cinque carati, un'assurdità! Edward non...
«Ma, dimmi, è un po' che non vieni a La Push», aggiunse Jacob, inter-rompendo le mie congetture inquietanti.
«Ho avuto da fare», risposi. «E... tutto sommato non credo che sarei più venuta a trovarti».
Fece una smorfia. «Pensavo che tu fossi quella che perdona, e io quello che si sente in colpa».
Feci spallucce.
«Ci hai ripensato parecchio all'ultima volta, eh?».
«No».
Scoppiò a ridere. «Stai mentendo, oppure sei la persona più testarda al mondo».
«Non direi proprio, e di certo non sto mentendo».
Non mi andava di affrontare l'argomento in quella situazione, mentre le sue braccia troppo calde mi avvolgevano senza che potessi farci nulla. Il suo viso era più vicino di quanto desiderassi. Avrei tanto voluto tenerlo a distanza.
«Le persone sagge valutano ogni aspetto delle proprie decisioni».
«Io l'ho fatto», replicai.
«Se dici di non avere più ripensato alla nostra... ehm, ultima conversa-zione, non è vero».
«Quella "conversazione" non influenza affatto la mia scelta».
«Certa gente è disposta a tutto pur di illudersi».
«Ho notato che i licantropi hanno una tendenza particolare a commettere questo genere di errori. Pensi sia un problema genetico?».
«Vuol dire che lui bacia meglio di me?», chiese Jacob, improvvisamente serio.
«Non saprei, Jake. Edward è l'unico che abbia mai baciato».
«A parte me».
«Non lo considero un bacio, Jacob. Per me è stata un'aggressione».
«Ehi! Questa è cattiva».
Scrollai le spalle. Non avevo intenzione di rimangiarmi la parola.
«Ma ti ho chiesto di scusarmi», precisò.
«E io ti ho perdonato... quasi. Il ricordo che ho non è cambiato».
Mormorò qualcosa di incomprensibile.
Per un po' restammo in silenzio; gli unici suoni provenivano dal suo re-spiro regolare e dal vento che ruggiva sulle nostre teste, tra le cime degli alberi. Di fronte a noi svettava una rupe a strapiombo, di roccia nuda, grigia e scabra. Ne seguimmo la base, che curvava verso l'alto e usciva dalla fo-resta.
«Secondo me è da irresponsabili», sbottò Jacob all'improvviso.
«Non so cosa intendi, ma ti sbagli».
«Pensaci, Bella. Scusami, ma hai baciato soltanto una persona - che tra l'altro non è neanche una vera persona - in tutta la vita, e rinunci così? Come fai a sapere cosa vuoi? Non dovresti prima guardarti un po' in giro?».
Risposi senza tradire emozioni. «So esattamente ciò che voglio».
«E allora una verifica non ti costerebbe nulla. Potresti provare a baciare qualcun altro, magari, tanto per fare un confronto... visto che ciò che è successo l'altro giorno non conta. Per esempio, potresti baciare me. Non mi offendo se mi usi come cavia».
Aumentò la stretta, tanto da avvicinare il mio viso al suo. Rideva della battuta, ma non avevo intenzione di rischiare.
«Non fare il furbo con me, Jake. Giuro che non lo fermerò se deciderà di spaccarti la faccia».
L'accento ansioso della mia voce allargò il suo sorriso. «Se sarai tu a chiedermi di baciarti, non avrà motivo di arrabbiarsi. Ha detto che andava bene».
«Non ci sperare, Jake. No, anzi ho cambiato idea. Continua così. Finché non sarò io a chiederti un bacio, aspetta e spera!».
«Oggi sei di malumore».
«Chissà perché?».
«A volte mi sembra che tu mi preferisca quando sono lupo».
«A volte sì. Ma forse è merito del fatto che in quei momenti non puoi parlare».
Increspò le labbra sporgenti, pensieroso. «No, non penso sia così. Se-condo me preferisci restarmi vicino quando non sono umano, perché non sei costretta a fingere di non essere attratta da me».
Schioccai le labbra e rimasi a bocca aperta. La richiusi subito in modo ben fermo.
Se ne accorse. Le sue labbra si strinsero in un sorriso trionfante.
Prima di parlare respirai lentamente e a fondo. «No. Sono sicurissima che è perché ti manca la parola».
Sospirò. «Non sei ancora stanca di mentire a te stessa? Ti sarai accorta di non essermi indifferente. Sul piano fisico, intendo».
«Com'è possibile esserti indifferenti, Jacob?», domandai. «Sei un mostro enorme che si rifiuta di rispettare gli spazi altrui».
«Ti rendo nervosa. Ma soltanto quando sono umano. Quando divento un lupo ti trovi più a tuo agio accanto a me».
«Nervosismo e irritazione sono due cose diverse».
Mi fissò per un minuto e rallentò il passo, mentre l'aria divertita svaniva dal suo volto. Mi guardò torvo, gli occhi nascosti dalle sopracciglia corru-gate. Il respiro, tanto regolare finché aveva corso, iniziò ad accelerare. Lentamente chinò la testa verso la mia.
Restituii lo sguardo, sapevo esattamente cosa intendesse fare.
«Ricorda che la faccia è la tua», dissi.
Scoppiò in una risata fragorosa e riprese a correre. «Non ci tengo proprio a litigare con il tuo vampiro stasera. Un'altra volta sì, magari, ma oggi ab-biamo entrambi un lavoro da finire, e non voglio che i Cullen restino a cor-to di un elemento».
L'ondata improvvisa e inaspettata di vergogna distorse la mia espressione.
«Lo so, lo so», rispose senza capire. «Sei convinta che sarebbe lui a vin-cere».
Restai senza parole. Ero io a privarli di un elemento. E se qualcuno si fosse fatto male a causa della mia debolezza? E se invece fossi stata corag-giosa e avessi lasciato che Edward... ma non riuscivo neanche a pensarci.
«Cosa c'è che non va, Bella?». L'aria da sbruffone divertito svanì dal suo volto come una maschera e rivelò il mio Jacob. «Se ho detto qualcosa che non dovevo, sappi che stavo scherzando. Non facevo sul serio... ehi, stai bene? Non piangere, Bella», supplicò.
Cercai di mantenermi composta. «Non piangerò».
«Cos'ho detto?».
«Non è colpa tua. È soltanto, be', sono io. Ho fatto qualcosa che... non avrei dovuto».
Restò a fissarmi con occhi spalancati e confusi.
«Edward non combatterà, domani», sussurrai. «L'ho convinto a restare con me. Sono una grandissima codarda».
Si rabbuiò. «Pensi che il piano non funzionerà? Che ti troveranno qui? Sai qualcosa che io non so?».
«No, no. Non ho paura che qualcosa vada storto. Però... non ce la faccio a lasciarlo andare. Se non tornasse...». Ebbi un fremito e chiusi gli occhi per fuggire il pensiero.
Jacob restò in silenzio.
Continuai a parlare a bassa voce, a occhi chiusi. «Se qualcuno si facesse male, sarebbe soltanto colpa mia. E anche in caso contrario... Mi sono comportata in modo orribile. Ho dovuto farlo per convincerlo a restare con me. Non si è arrabbiato, ma è bastato per farmi capire di cosa sono capace». Il mio umore migliorò di un briciolo, libero dal peso della confessione. Benché l'unico con cui potessi confessarmi fosse Jacob.
Riaprii piano gli occhi e con dispiacere ritrovai la maschera minacciosa.
«Non riesco a credere che si sia lasciato convincere. Io non mi perderei lo scontro per niente al mondo».
Sospirai. «Lo so».
«Ma questo non significa niente». Di colpo tornò sulla difensiva. «Non significa che lui ti ami più di me».
«Tu non rimarresti con me neanche se te lo chiedessi in ginocchio».
Nell'istante in cui increspò le labbra, pensai che volesse negare. La verità era chiara a entrambi. «È soltanto perché io ti conosco più a fondo», disse, infine. «Andrà tutto liscio. Anche se me lo chiedessi e io rispondessi di no, alla fine non ti arrabbieresti con me».
«Se tutto andasse liscio, certo. Hai ragione, non mi arrabbierei. Ma du-rante la tua assenza mi sentirei stritolare dall'ansia, Jake. Impazzirei».
«Perché?», chiese, goffo. «Cosa ti importa se mi succede qualcosa?».
«Non provarci. Sai bene quanto sei importante per me. Mi dispiace che non sia come vorresti tu, ma così stanno le cose. Sei il mio migliore amico. Perlomeno, lo eri. E lo sei ancora, ogni tanto... quando abbassi la guardia».
Sfoderò il vecchio sorriso che adoravo. «Sono sempre lo stesso», giurò. «Anche quando non... mi comporto bene come dovrei. Sotto sotto, sono sempre io».
«Lo so. Perché credi che stia ad ascoltare le tue fesserie, se no?».
Rise con me, ma il suo sguardo si fece subito triste. «Quando ti deciderai ad ammettere che anche tu sei innamorata di me?».
«Decidi tu quando rovinare un bel momento».
«Non sto dicendo che non lo ami. Non sono stupido. Ma capita anche di amare più di una persona contemporaneamente, Bella. L'ho visto con i miei occhi».
«Le stranezze da licantropi non mi riguardano, Jacob».
Storse il naso e, prima che potessi scusarmi per l'ultimo affondo, cambiò argomento.
«Non siamo lontani, sento il suo odore».
Sospirai di sollievo.
Fraintese. «Sarei lieto di rallentare, Bella, ma è meglio che tu ti metta al riparo prima che si scateni».
Entrambi guardammo il cielo.
Un muro di nuvole nero violacee giungeva rapido da occidente gettando un'ombra sulla foresta.
«Accidenti», mormorai. «Meglio che ti sbrighi, Jake. Torna a casa, prima che arrivi».
«Non torno a casa».
Lo inchiodai con lo sguardo, esasperata. «Tu non resti con noi».
«Tecnicamente no: non condividerò la vostra tenda né altro. Preferisco la tormenta alla puzza. Ma sono certo che il tuo succhiasangue vorrà man-tenersi in contatto con il branco per questioni di coordinamento, perciò provvederò ben volentieri al servizio».
«Pensavo toccasse a Seth».
«Mi sostituirà domani, durante la battaglia».
La precisazione mi zittì per un secondo. Restai a guardarlo, mentre il ti-more riaffiorava più forte e improvviso.
«È davvero impossibile restare anche domani, visto che sarai già qui?», suggerii. «Se ti implorassi? Se ti liberassi dall'eterna schiavitù che mi hai offerto, o qualcosa del genere?».
«No, anche se è una bella tentazione. Sarebbe curioso vederti implorare. Se ti va puoi provarci comunque».
«Non ci posso fare davvero niente di niente?».
«No. A meno che tu non riesca a promettermi un combattimento migliore. E poi, chi decide è Sam, non io».
In quel momento ricordai.
«L'altro giorno Edward mi ha raccontato una cosa... su di te».
S'irrigidì. «Probabilmente è una bugia».
«Ah, davvero? Non sei diventato il vice-capobranco?».
Sbatté gli occhi e la sorpresa cancellò ogni altra espressione. «Ah. Già».
«Perché non me ne hai mai parlato?».
«E perché avrei dovuto? Non è importante».
«Non so. Perché rio? È interessante. Come funziona? Com'è possibile che Sam sia diventato il maschio alfa e tu il... beta?».
Jacob sorrise della mia terminologia inventata. «Sam è stato il primo, è il più vecchio. È logico che sia lui a prendersi la responsabilità».
Aggrottai le sopracciglia. «Ma allora il secondo non avrebbe dovuto es-sere Jared o Paul? Si sono trasformati prima di te».
«Be'... è difficile spiegare», rispose Jacob evasivo.
«Provaci».
Fece un sospiro. «Più che altro è questione di discendenza, sai? Una cosa vecchio stile. L'importanza di avere avuto certi nonni, ecco».
Ricordai la storia raccontata da Jacob, tanto tempo prima, quando né io né lui sapevamo nulla dei licantropi. «Non mi avevi detto che Ephraim Black fu l'ultimo capotribù dei Quileute?».
«Esatto. Perché lui era il maschio dominante. Sai che, tecnicamente, Sam è il capo dell'intera tribù, adesso?». Rise. «Che tradizioni assurde».
Ci pensai per un secondo e cercai di ricomporre il puzzle. «Ma hai anche detto che tuo padre era la voce più ascoltata in consiglio, perché era nipote di Ephraim, no?».
«E allora?».
«Se è una questione di discendenza... perché il capo non sei tu?».
Jacob non rispose. Diresse lo sguardo verso le ombre della foresta, come se all'improvviso avesse bisogno di concentrarsi sulla direzione da prende-re.
«Jake?».
«No. Spetta a Sam». Teneva gli occhi fissi sul nostro sentiero invisibile.
«Perché? Il suo bisnonno era Levi Uley, no? Anche Levi era un alfa?».
«L'alfa è soltanto uno», rispose automaticamente.
«E Levi cos'era?».
«Una specie di beta, immagino». Citò le mie parole con una smorfia. «Come me».
«Non ha senso».
«Non importa».
«Voglio capire».
Infine Jacob incrociò il mio sguardo confuso e si arrese. «Sì. L'alfa dovrei essere io».
Sollevai le sopracciglia. «Sam non vuole retrocedere?».
«Niente affatto. Sono io che non voglio farmi avanti».
«Perché no?».
Si rabbuiò, a disagio di fronte alla domanda. Be', ora toccava a lui sentirsi a disagio.
«Non ne voglio sapere, Bella. Non ho mai accettato che tutto cambiasse. Non volevo diventare un capotribù leggendario. Non volevo fare parte di un branco di licantropi, men che meno diventare la loro guida. Quando Sam mi ha fatto l'offerta, non l'ho accettata».
Voltato verso la foresta, Jacob mi permise di pensarci a lungo.
«Ma pensavo fossi più felice. Che tutto questo ti andasse bene», sussurrai infine.
Jacob mi rassicurò con un sorriso. «Sì. Non è così male, in fin dei conti. Le cose divertenti non mancano, per esempio la giornata di domani. Ma sulle prime è stato come essere arruolato in una guerra di cui ignoravo l'e-sistenza. Non avevo scelta, capisci? E non c'erano alternative». Scrollò le spalle. «Comunque, oggi ne sono lieto. Così va fatto, e d'altronde potrei fi-darmi di qualcun altro al mio posto? Meglio occuparmene di persona».
Lo fissai e mi sentii inspiegabilmente in soggezione. Il mio amico era molto più adulto di quanto pensassi. Come davanti a Billy la sera del falò, sentii in lui un che di maestoso di cui non avrei mai sospettato.
«Capo Jacob», sussurrai, sorridendo di quella combinazione di parole.
Alzò gli occhi al cielo.
In quell'istante tra gli alberi si alzò una raffica di vento che sembrava soffiare dal cuore di un ghiacciaio. Il suono secco dei rami spezzati echeg-giò dalla montagna. La luce svaniva coperta dalla nuvola grigia che occu-pava il cielo, ma mi accorsi dei piccoli fiocchi bianchi che svolazzavano sopra di noi.
Jacob aumentò il passo, senza staccare gli occhi dal terreno. Mi rannic-chiai contro il suo petto per proteggermi dall'assalto della neve.
Pochi minuti dopo, sfrecciò lungo il lato sottovento della cima rocciosa e notammo la piccola tenda annidata e protetta ai piedi della parete. Eravamo attorniati dai fiocchi, ma il vento era talmente forte che non riuscivano nemmeno a posarsi.
«Bella!», gridò Edward, con gran sollievo. Passeggiava avanti e indietro nel piccolo spazio aperto di fronte alla tenda.
Scattò al mio fianco, così veloce da apparirmi sfocato. Jacob s'irrigidì e mi fece scendere. Edward ignorò la sua reazione e mi abbracciò stretta.
«Grazie», disse, sporgendosi dalla mia spalla. Il tono era sincero, non avevo dubbi. «Ci è voluto meno di quanto immaginassi, te ne sono davvero grato».
Mi voltai, curiosa della risposta di Jacob.
Lui si limitò a una scrollata di spalle e ogni parvenza di amicizia sparì dal suo volto. «Portala dentro. Sta per arrivarne una brutta... mi si rizzano i capelli. La tenda è stabile?».
«È quasi tutt'uno con la roccia».
«Bene».
Jacob alzò gli occhi al cielo ormai nero di tempesta, fitto di fiocchi agitati dal vento. Sbuffò dalle narici.
«Vado a trasformarmi», disse. «Devo sentire che succede a casa».
Appese il suo giaccone a un ramo basso e tozzo ed entrò nella foresta te-nebrosa senza degnarci di uno sguardo.

22
Fuoco e ghiaccio

Il vento scosse di nuovo me e la tenda.
La temperatura stava precipitando. Il gelo penetrava nel sacco a pelo, nella giacca. Ero imbacuccata dalla testa ai piedi, con gli scarponcini da trekking ancora allacciati. Com'era possibile che facesse così freddo? Prima o poi avrebbe dovuto toccare il minimo e risalire, no?
«Ch-ch-che o-o-o-re s-s-sono?». Mi sforzai di parlare malgrado i denti che battevano.
«Le due», rispose Edward.
Restava seduto il più lontano possibile in quello spazio limitato e, dato il freddo, cercava di non respirarmi addosso. C'era troppo buio per scorgerne il viso, ma la voce era scossa da timore, indecisione e frustrazione.
«Magari...».
«No, sto b-b-b-b-b-bene, d-d-dav-v-v-ero. Non v-v-v-oglio u-u-u-scire».
Aveva già cercato di convincermi una dozzina di volte a fuggire, ma a-vevo il terrore di abbandonare il rifugio. Se faceva freddo dentro la tenda, dove il vento furioso non penetrava, non riuscivo a immaginare come mi sarei sentita correndo all'aria aperta.
E avrei mandato a monte tutti gli sforzi di quel pomeriggio. Avremmo avuto il tempo sufficiente per riaccamparci, finita la tempesta? E se non fosse finita? Non aveva senso muoverci subito. Ero disposta a sopportare una notte di brividi.
Temevo che le tracce che avevo lasciato si potessero perdere, ma lui era certo che sarebbero state inconfondibili per i mostri in arrivo.
«Cosa posso fare?», chiese quasi implorante.
Scossi il capo.
Nella neve, Jacob emise un ululato triste.
«V-v-vattene v-v-via», ordinai, per l'ennesima volta.
«È soltanto preoccupato per te», tradusse Edward. «Sta bene. Il suo corpo è adatto a questi climi».
«N-n-n-n-n-n». Avrei voluto dire che non m'importava, ma non riuscii a muovere la lingua. Nel tentativo rischiai di mozzarmela. Almeno Jacob sembrava davvero a suo agio sulla neve, ancor più degli altri membri del branco, con il suo pelo rossiccio più fitto, lungo e disordinato. Chissà per-ché.
Jacob emise un lamento acuto e straziante.
«Cosa vuoi che faccia?», ruggì Edward, troppo ansioso per preoccuparsi ancora delle buone maniere. «Dovrei portarla via adesso? Non ti stai ren-dendo utile. Perché non vai a recuperare una stufa o qualcosa del genere?».
«Sto b-b-bene», protestai. A giudicare dalla rispostaccia di Edward e dal ringhio soffocato fuori dalla tenda, non avevo convinto nessuno. Il vento scuoteva la tenda e io tremavo insieme a lei.
Un ululato irruppe nel vento, tanto acuto da dovermi tappare le orecchie. Edward sbuffò.
«Non ce n'era bisogno», mormorò. «È l'idea peggiore che potessi avere», disse a voce più alta.
«Meglio di tutto quello che hai escogitato tu», rispose Jacob, la cui voce umana mi sorprese. «Vai a recuperare una stufa», borbottò. «Non sono un sanbernardo».
Sentii la cerniera aprirsi velocemente.
Jacob s'infilò nell'apertura più minuscola che riuscì a sfruttare, mentre il vento artico gli soffiava attorno e qualche fiocco di neve cadeva sul fondo della tenda. Ebbi un fremito così violento da somigliare a una convulsione.
«Non approvo», sibilò Edward mentre Jake chiudeva la cerniera. «Dalle il giaccone e vattene».
La mia vista si adattò quanto bastava a scorgere le sagome: Jacob portava con sé il giaccone che aveva lasciato appeso nei pressi della tenda.
Cercai di chiedere di cosa stessero parlando, ma dalla mia bocca uscì un semplice «D-d-d-d-d-d», perché i brividi mi facevano balbettare senza controllo.
«Questo le servirà domani: è troppo freddo per scaldarlo tenendolo ad-dosso. È ghiacciato». Lo posò accanto alla porta. «Hai detto che aveva bi-sogno di una stufa, be', eccomi qui». Jacob allargò le braccia quanto poteva sotto la tenda. Come sempre, quando era reduce dalla trasformazione in lupo, indossava soltanto l'essenziale: un paio di bermuda, senza camicia né scarpe.
«J-j-j-ake, c-così con-g-g-g-elerai», cercai di protestare.
«Io no di certo», rispose allegro. «La mia temperatura media è di qua-rantadue caldissimi gradi, ultimamente. Vi farò sudare in men che non si dica».
Edward ringhiò qualcosa, ma Jacob non lo degnò di uno sguardo. Anzi, strisciò al mio fianco e fece per aprire la cerniera del mio sacco a pelo.
La mano di Edward scattò immediatamente sulla sua spalla per trattener-lo, bianca come la neve sulla pelle scura. Jacob digrignò i denti, le narici dilatate, il corpo irrigidito dal contatto con il freddo. I muscoli affusolati delle braccia si contrassero all'istante: «Giù le mani», ruggì a denti stretti.
«Giù le mani da lei», rispose Edward con cattiveria.
«Non-n-n l-l-lit-t-tigate», implorai. Un altro fremito mi scosse. Temevo che mi si potessero sbriciolare i denti, tanto forte battevano.
«Scommetto che ti ringrazierà, quando le salterà via il primo dito conge-lato», sbottò Jacob.
Edward restò immobile, poi la sua mano si allontanò e sgattaiolò al pro-prio posto nell'angolo.
La sua voce era neutra e inquietante. «Bada a ciò che fai».
Jacob ridacchiò.
«Fammi spazio, Bella», disse aprendo ancora di più il sacco a pelo.
Lo guardai scandalizzata. C'era poco da meravigliarsi della reazione di Edward.
«N-n-n-n-n», cercai di protestare.
«Non essere stupida», disse esasperato. «Non preferisci conservare tutte e dieci le dita dei piedi?».
Stipò il proprio corpo nello spazio minuscolo e fece forza sulla cerniera per chiudersela alle spalle.
A quel punto non potevo più oppormi, anche perché non volevo. Era troppo caldo. Le sue braccia si strinsero attorno a me e mi premevano con decisione contro il suo petto nudo. Il calore era irresistibile, come l'aria dopo un'immersione subacquea prolungata. Ebbe un fremito quando, im-paziente, affondai le dita nella sua pelle.
«Caspita, sei ghiacciata, Bella», si lamentò.
«Sc-c-c-c-c-cusa», balbettai.
«Cerca di rilassarti», suggerì, mentre l'ennesimo fremito mi scuoteva con violenza. «Tra un minuto sarai al caldo. Certo, se ti togliessi i vestiti ti scalderesti più in fretta».
Da Edward venne un ruggito secco.
«È un dato di fatto», si giustificò Jacob. «Corso accelerato di sopravvi-venza».
«L-l-lascia p-p-perdere, Jake», dissi con rabbia, malgrado il mio corpo stesso si rifiutasse di tenerlo lontano. «C-c-c-osa vuoi c-c-che me ne f-f-faccia di d-d-dieci dita d-d-dei p-p-piedi».
«Lascia perdere il succhiasangue», suggerì Jacob, compiaciuto. «È sol-tanto geloso».
«Certo che sì». La voce di Edward era di nuovo vellutata, sotto controllo, una musica sussurrata nell'oscurità. «Non hai la minima idea di quanto mi piacerebbe poter fare ciò che stai facendo per lei, randagio».
«Così va la vita», ribatté Jacob allegro, ma il suo tono si fece subito più amaro. «Se non altro, sai che anche lei vorrebbe che ci fossi tu al mio po-sto».
«Vero», rispose Edward.
Mentre i due battibeccavano, i sussulti rallentarono e divennero soppor-tabili.
«Ecco», disse Jacob soddisfatto. «Va meglio?».
Finalmente ero di nuovo in grado di parlare. «Sì».
«Hai ancora le labbra viola», commentò. «Vuoi che ti scaldi anche quel-le? Basta chiedere».
Edward sbuffò.
«Fai il bravo», borbottai e affondai il viso nella sua spalla. Ebbe un altro fremito quando la mia pelle fredda toccò la sua, e sorrisi in un misto di vendetta e soddisfazione.
Il sacco a pelo era già caldo e accogliente. Il calore del corpo di Jacob sembrava giungere da ogni parte, forse perché era così immenso. Mi sfilai gli scarponcini e sfregai i piedi contro le sue gambe. Ebbe un sussulto e chinò la testa per premere la guancia calda contro il mio orecchio intorpi-dito.
Notai che la pelle di Jacob sapeva di legno e muschio: si addiceva al luogo in cui ci trovavamo, nel cuore della foresta. Era buono. Chissà, forse le lamentele dei Cullen e dei Quileute a proposito del reciproco odore erano soltanto una farsa. Per me avevano tutti un buon profumo.
La tormenta ululava come un animale all'assalto della tenda, ma non m'inquietava più. Jacob non era più al freddo, e nemmeno io. E poi ero davvero troppo stanca per pensare... stanca dopo essere rimasta sveglia così a lungo, e afflitta dagli spasmi muscolari. Il mio corpo si rilassò lentamente mentre mi scioglievo, un pezzo di ghiaccio alla volta, e si fece inerte.
«Jake?», mormorai assonnata. «Posso farti una domanda? Non è per prenderti in giro o chissà cosa... "sono solo curiosa"», dissi parafrasando quel che mi aveva detto nella mia cucina... quanto tempo era passato?
«Certo», ridacchiò, al ricordo.
«Perché il tuo mantello è così folto, rispetto a quello dei tuoi amici? Sei libero di non rispondere se pensi che sia scortese». Non conoscevo il bon ton dei licantropi.
«Perché ho i capelli più lunghi», rispose divertito. Se non altro, non si sentiva offeso. Scosse la testa e con i capelli spettinati, che ormai gli arri-vavano al mento, mi solleticò la guancia.
«Ah». Ero sorpresa, ma la risposta aveva senso. Ecco perché tutti si ra-savano i capelli, all'inizio, quando entravano a far parte del branco. «E al-lora perché non li tagli? Ti piace che restino in disordine?».
Questa volta non rispose ed Edward rise sotto i baffi.
«Scusa», dissi e sbadigliai. «Non volevo farmi gli affari tuoi. Non sei obbligato a dirmelo».
Jacob mugugnò qualcosa, esasperato. «Oh, tanto prima o poi te lo dirà lui, perciò... Mi stavo facendo crescere i capelli perché... mi sembrava che ti piacessero di più lunghi».
«Ah». Mi sentii in imbarazzo. «Be', mi... piacciono sia lunghi che corti, Jake. Non devi... disturbarti».
Scrollò le spalle. «Stanotte è tutt'altro che un disturbo, perciò non preoc-cuparti».
Non mi restava niente da dire. Piano piano calò il silenzio, le mie palpe-bre cedettero e si chiusero, e il mio respiro si fece più lento e regolare.
«Giusto, piccola, adesso dormi», sussurrò Jacob.
Sospirai, soddisfatta, già in dormiveglia.
«Seth è qui», sussurrò Edward a Jacob, e all'istante compresi il senso degli ululati di poco prima.
«Perfetto. Adesso puoi occuparti di tutto il resto, mentre io ti tengo d'oc-chio la ragazza».
Edward non rispose, ma io bofonchiai rauca: «Smettila».
In quel momento c'era silenzio, perlomeno dentro la tenda. Fuori, il vento urlava instancabile tra gli alberi. I sussulti della tenda rendevano il sonno difficile. I picchetti tremavano, si piegavano all'improvviso e mi ricac-ciavano dal confine del dormiveglia ogni volta che pensavo di essere sul punto di scivolare nel sonno. Mi sentivo così in pena per il lupo, il ragaz-zino costretto a restare fuori sotto la neve.
Vagai con i pensieri, in attesa che il sonno mi trovasse. Quello spazio angusto e caldo mi fece tornare ai primi giorni con Jacob e ricordai di quando lui era il mio sole di riserva, il calore che rendeva vivibile la mia vita vuota. Da un po' non pensavo a Jake in quei termini, eppure eccolo lì, a riscaldarmi ancora.
«Per favore!», sibilò Edward. «Ti sembra il caso?».
«Di che?», sussurrò Jacob, sorpreso.
«Mi fai il piacere di provare a controllare i tuoi pensieri?», il sussurro cupo di Edward era furioso.
«Nessuno ti obbliga ad ascoltare», mormorò Jacob, in tono di sfida ma con un velo di imbarazzo. «Esci dalla mia testa».
«Mi piacerebbe poterlo fare. Non hai idea di quanto siano chiassose le tue fantasie. È come se me le stessi urlando in faccia».
«Cercherò di pensare a bassa voce», sussurrò Jacob sarcastico.
Per un istante fu il silenzio.
«Sì», rispose Edward a un pensiero inespresso, con un mormorio tanto basso da poterlo cogliere a malapena. «Anche di questo sono geloso».
«Immaginavo fosse così», sussurrò Jacob soddisfatto. «Questo pareggia i conti, più o meno, eh?».
Edward ridacchiò. «Ti piacerebbe».
«Be', sai anche tu che potrebbe sempre cambiare idea», lo sfidò Jacob. «Visto e considerato tutto ciò che io potrei fare con lei, e tu no. Non senza ucciderla, cioè».
«Adesso dormi, Jacob», mormorò Edward. «Stai iniziando a darmi sui nervi».
«Penso che lo farò. Sto davvero comodo».
Edward non rispose.
Ero troppo assonnata per chiedere ai due di smettere di parlare di me come se non ci fossi. La conversazione era diventata quasi un sogno, non ero più tanto certa di essere sveglia.
«Penso di sì», disse Edward dopo un istante, in risposta a una domanda che non avevo sentito.
«Ma saresti sincero?».
«Puoi sempre chiedere e controllare». A giudicare dal tono di Edward, forse mi ero persa una battuta.
«Be', visto che sei capace di guardarmi nella testa, lascia che sia io a sbirciare nella tua, stanotte, penso di meritarmelo», disse Jacob.
«Hai la testa piena di domande. A quale vuoi che risponda?».
«La gelosia... devi sentirti divorato. Non puoi essere sicuro di te stesso come sembra. A meno che tu non sia privo di emozioni».
«Certo che la gelosia mi divora», rispose Edward, non più divertito. «In questo momento è così crudele che riesco a malapena a controllare la voce. Certo, è ancora peggio quando lei è lontana, con te, e non riesco a vederla».
«La pensi in continuazione?», sussurrò Jacob. «Ti è difficile concentrarti quando lei non c'è?».
«Sì e no», disse Edward; sembrava deciso a rispondere con sincerità. «La mia mente non funziona proprio come la tua. Io riesco a pensare più cose contemporaneamente. Certo, ciò significa che posso pensare anche a te, chiedermi se è a te che sta pensando, quando è muta e pensierosa».
Per un minuto restarono entrambi immobili.
«Sì, direi che ti pensa spesso», mormorò Edward in risposta alla rifles-sione di Jacob. «Più spesso di quanto gradirei. Teme che tu non sia felice. Questo lo sai. E sai come approfittarne».
«Devo approfittare del poco che ho», borbottò Jacob. «Non ho certo i tuoi vantaggi. Per esempio, la certezza di sapere che è innamorata di te».
«In effetti aiuta», commentò Edward con voce neutra.
Jacob rispose in tono di sfida. «Sai bene che è innamorata anche di me».
Edward non rispose.
Jacob fece un sospiro. «Purtroppo non lo sa».
«Non so dirti se hai ragione».
«La cosa ti disturba? Ti piacerebbe poter leggere anche nei suoi pensie-ri?».
«Sì... e no, di nuovo. Lei preferisce che sia così, e sebbene talvolta io ri-schi la pazzia, preferisco che sia felice».
Il vento si accanì sulla tenda e la scosse come un terremoto. Le braccia di Jacob mi strinsero protettive.
«Grazie», sussurrò Edward. «Ti suonerà strano, forse, ma sono lieto che tu sia qui, Jacob».
«Intendi "non sai quanto mi piacerebbe ucciderti, ma sono felice che lei stia al caldo", vero?».
«La tregua è difficile da sopportare, eh?».
Il sussurro di Jacob all'improvviso si fece più sfacciato. «Lo sapevo, sei pazzo di gelosia, come me».
«Io non sono così stupido da mostrarlo ai quattro venti. Non aiuta la tua causa, sai?».
«Tu sei più paziente di me».
«Logico. In cento anni ho imparato a esserlo. Cento anni passati nell'at-tesa di lei».
«E dimmi... quand'è che hai deciso di recitare la parte del bravo ragazzo tanto paziente?».
«Quando ho capito che soffriva di fronte all'obbligo di scegliere. Di soli-to non ho difficoltà a controllarmi. Il più delle volte sono capace di am-morbidire le sensazioni meno... educate che provo nei tuoi confronti. Ogni tanto ho il sospetto che Bella sappia ciò che penso, ma non ne sono sicuro».
«Secondo me, temevi soltanto che, costringendola a scegliere, non a-vrebbe scelto te».
Edward non rispose subito. «In parte è così», confessò infine. «Ma è una parte minima. Ognuno ha i suoi momenti di dubbio. La mia preoccupazione più grande era che potesse farsi del male pur di venirti a trovare di nascosto. Dopo aver accettato l'idea che con te fosse più o meno al sicuro - per quanto può esserlo Bella, di norma - la scelta migliore mi è sembrata quella di smettere di esasperarla».
Jacob sospirò. «Se glielo dicessi io, non mi crederebbe mai».
«Lo so». A giudicare dalla voce, Edward stava sorridendo.
«Pensi di sapere tutto», borbottò Jacob.
«Del futuro non so niente», disse Edward, in tono improvvisamente insi-curo.
Ci fu una lunga pausa.
«Cosa faresti se cambiasse idea?», domandò Jacob.
«Non so nemmeno questo».
Jacob rise a mezza voce. «Cercheresti di uccidermi?». Era di nuovo sar-castico, come se dubitasse che Edward ci sarebbe riuscito.
«No».
«Perché no?». Il tono di Jacob restava divertito.
«Credi davvero che oserei ferirla così?».
Jacob restò in silenzio per un istante e sospirò. «Sì, hai ragione. So che è giusto così. Ma a volte...».
«A volte sembra un'idea affascinante».
Jacob affondò la testa nel sacco a pelo per soffocare la propria risata. «Esatto», commentò infine.
Che strano sogno. Chissà se era il vento incessante a farmi immaginare quei sussurri. Ma il vento urlava, anziché sussurrare.
«Come ti sei sentito, quando l'hai persa?», chiese Jacob dopo un breve silenzio, e nella sua voce improvvisamente rauca non c'era traccia di ironia. «Quando eri convinto di averla perduta per sempre. Come hai... reagito?».
«Mi è molto difficile parlarne».
Jacob restò in attesa.
«Ci ho pensato in due circostanze distinte». Edward scandiva le parole un po' più lento del solito. «La prima, quando ho pensato di essere in grado di lasciarla, è stato... quasi sopportabile. Perché credevo che potesse di-menticarmi, che potesse vivere come se non fossi mai esistito. Per più di sei mesi riuscii a starle lontano, per mantenere la promessa di non interferire mai più con la sua vita. Sembrava che ce la stessi facendo: combattevo, ma sapevo che non avrei vinto, che prima o poi sarei tornato, anche soltanto per vedere come stava. Cercavo di convincermi che ce l'avrei fatta. E se l'avessi trovata ragionevolmente felice... mi illudevo di riuscire ad allontanarmi di nuovo. Invece non era felice. Perciò, in cuor mio sapevo che sarei rimasto. Per lo stesso motivo che mi ha persuaso a rimanere con lei domani, ovviamente. Ciò di cui ti sei meravigliato prima, ciò che più di ogni altra cosa mi ha convinto... ciò per cui lei si sente, a torto, in colpa. Mi ha ricordato cosa le è accaduto quando l'ho lasciata... e cosa le capita ancora oggi, quando non ci sono. Si sente malissimo a parlarne, ma ha ragione. Non sarò mai in grado di farmi perdonare, ma non smetterò mai di provarci».
Jacob non rispose subito, distratto dal rumore della tempesta o forse im-pegnato ad assorbire ciò che aveva sentito, chissà.
«E la seconda volta... è stato quando pensavi che fosse morta?», sussurrò con voce roca.
«Sì». Ma Edward rispose a un'altra domanda. «Probabilmente proverai la stessa sensazione, no? Per l'idea che hai di noi, forse non ti sembrerà più la Bella che conosci. Ma è così che diventerà».
«Non è quello che ti ho chiesto».
La risposta di Edward giunse secca e rapida. «Non posso dirti come mi sono sentito. Non ci sono parole».
Le braccia di Jacob si contrassero attorno a me.
«Però te ne sei andato perché non volevi trasformarla in una succhiasan-gue. Tu vuoi che resti umana».
Edward rispose lentamente. «Jacob, dall'istante in cui mi sono reso conto di amarla, ho capito che le possibilità erano quattro. La prima alternativa, la migliore per Bella, sarebbe stata quella di ignorare i miei sentimenti: la-sciarmi perdere e andare oltre. Per me non sarebbe cambiato granché, me ne sarei fatta una ragione. Tu credi che io sia una... pietra viva, dura e fredda. È vero. Questa è la nostra natura, ed è molto raro che subisca cambiamenti profondi. Se ciò avviene, com'è stato quando Bella è entrata nella mia vita, il cambiamento è irreversibile. Non si torna indietro...
La seconda alternativa, quella per cui avevo optato all'inizio, era restarle accanto per tutto il corso della sua esistenza umana. Forse non sarebbe stata felice di sprecare la vita accanto a un essere che non era umano, ma mi sembrava la scelta più semplice. Ero certo che, quando fosse morta, anch'io avrei cercato una maniera per morire. Sessanta, settant'anni... mi sembravano un arco di tempo tanto breve, ma mi resi conto che vivere a stretto contatto con il mio mondo sarebbe stato troppo pericoloso per lei. Sembrava che ogni cosa andasse per il verso sbagliato. O minacciasse di farlo... Avevo il terrore che non durasse nemmeno quei sessant'anni, se a-vessi accompagnato la sua vita umana. Perciò ho scelto la terza opzione. Che si è dimostrata il peggior errore della mia lunga vita, come sai. Ho de-ciso di uscire dal suo mondo, nella speranza di costringerla a scegliere la prima alternativa. Non ha funzionato, anzi, abbiamo entrambi rischiato di morire.
Cosa mi resta, se non la quarta alternativa? È ciò che lei desidera; per-lomeno, ciò che pensa di desiderare. Ho cercato di posticipare, di conce-derle del tempo perché trovasse un motivo per cambiare idea, ma è troppo... testarda. Lo sai anche tu. Con un po' di fortuna riuscirò a tirare avanti per qualche altro mese. Ha il terrore di invecchiare e il suo compleanno cade in settembre...».
«L'opzione uno mi piace», mormorò Jacob.
Edward non reagì.
«Sai perfettamente quanto mi costi ammetterlo», sussurrò lento Jacob, «ma mi è chiaro che a modo tuo... la ami. Non posso più contestarlo. Detto questo, secondo me non dovresti rinunciare alla prima alternativa, non an-cora. Penso che ci siano buone probabilità che si riprenda. Con un po' di tempo. Vedi, se a marzo non si fosse gettata da uno scoglio... e se avessi aspettato altri sei mesi prima di venire a controllare... be', forse l'avresti ri-trovata ragionevolmente felice. Avevo una tattica precisa».
Edward ridacchiò. «Forse avrebbe funzionato. Era un piano ben conge-gnato».
«Già», sospirò Jake. «Ma...», all'improvviso i suoi sussurri furono così veloci da confondere le parole. «Concedimi un anno, succhias... Edward. Sono davvero convinto di poterla fare felice. È testarda, nessuno lo sa me-glio di me, ma è in grado di guarire. Sarebbe già guarita. E poi, vivrebbe da essere umano, assieme a Charlie e Renée, potrebbe crescere, avere dei figli e... restare Bella. Se la ami così tanto non puoi non vedere i vantaggi di questo piano. Lei ti crede così altruista... lo sei davvero? Riesci a riflettere sul fatto che io potrei essere meglio di te, per lei?».
«Ci ho riflettuto», rispose Edward calmo. «In un certo senso, per lei tu saresti meglio di qualsiasi altro umano. Bella ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei, e tu sei forte abbastanza da riuscire a proteggerla da se stessa e da tutto ciò che cospira contro di lei. Lo hai già fatto, e per questo ti sarò debitore finché vivo - per sempre - comunque vada... Ho persino chiesto ad Alice se riusciva a vedervi: a vedere se Bella avrebbe vissuto meglio assieme a te. Ovviamente non ci è riuscita. Tu sei immune alle sue previsioni e al momento Bella è troppo sicura delle proprie decisioni. Ma non sono così stupido da commettere l'errore in cui sono già incappato una volta, Jacob. Non cercherò di costringerla a scegliere la prima alternativa. Finché mi vorrà al suo fianco, ci sarò».
«E se dovesse preferire me?», lo sfidò Jacob. «Certo, ce ne vorrà, questo te lo concedo».
«La lascerei andare».
«Punto e basta?».
«Sì, nel senso che non le mostrerei mai quanto mi farebbe soffrire. Ma resterei all'erta. Vedi, Jacob, anche tu potresti lasciarla, un giorno. Come Sam ed Emily, non avresti scelta. E io rimarrei dietro le quinte, in attesa di quel giorno».
Jacob sbadigliò in silenzio. «Be', sei stato molto più sincero di quanto mi potessi aspettare, Edward. Grazie per avermi fatto entrare nella tua testa».
«Come ti ho già detto, ti sono stranamente grato di far parte della sua vita, stanotte. Era il minimo che potessi fare... Sai, Jacob, se non fosse che siamo nemici giurati e che ti piacerebbe rubarmi la mia unica ragione di vita, penso che mi andresti a genio».
«Forse, se non fossi un vampiro disgustoso che ha in programma di suc-chiare la vita alla ragazza che amo... be', no, nemmeno in quel caso».
Edward ridacchiò.
«Posso farti una domanda?», disse Edward dopo un istante.
«Perché domandare?».
«Posso sentirla soltanto se la pensi. È una storia che Bella non ha voluto raccontarmi, l'altro giorno. Qualcosa che ha a che fare con una terza mo-glie...».
«Cosa vuoi sapere?».
Edward non rispose e restò ad ascoltare la storia nella mente di Jacob. Sentii il suo sibilo cupo nell'oscurità.
«Cosa?», domandò ancora Jacob.
«Ma certo», disse Edward nervoso. «Certo! Avrei preferito che i vostri anziani si fossero tenuti questa storia per sé, Jacob».
«Non ti va che le sanguisughe facciano la figura dei cattivi?», scherzò Jacob. «Sai bene che lo sono. Ieri come oggi».
«Di quella parte non potrebbe interessarmi di meno. Non comprendi in quale personaggio si riconosce Bella?».
Jacob impiegò un minuto a capire. «Ah, già, la terza moglie. Okay, ci sono».
«Vuole venire anche lei nella radura. Dice di voler fare la sua parte, per quanto può». Fece un sospiro. «È uno dei motivi per cui domani voglio re-stare con lei. Quando vuole qualcosa a tutti i costi, diventa piuttosto inven-tiva».
«Be', l'ispirazione le è venuta dal tuo fratello soldato, oltre che dalla sto-ria».
«Nessuno era in malafede», sussurrò Edward, più conciliante.
«E la nostra piccola tregua quando finisce?», domandò Jacob. «Alle prime luci? O aspettiamo fino a dopo la battaglia?».
Ci fu una pausa, mentre i due consideravano le possibilità.
«Alle prime luci», sussurrarono assieme e poi risero sommessamente.
«Buonanotte, Jacob», mormorò Edward. «Goditi il momento».
Tornò il silenzio e la tenda restò ferma per qualche minuto. Il vento sembrava aver deciso di non volerci schiacciare, in fin dei conti, e stava ri-nunciando a combattere.
Edward sbadigliò a mezza voce. «Non intendevo in senso letterale».
«Scusa», sussurrò Jacob. «Potresti anche andartene per concederci un po' di privacy».
«Vuoi una mano per addormentarti, Jacob?», propose Edward.
«Prova pure», disse Jacob impassibile. «Sarebbe divertente vedere chi è che scappa per primo, non trovi?».
«Non tirare troppo la corda, lupo. La mia pazienza non è infinita».
Jacob sussurrò una risata. «Preferirei non spostarmi da qui per il mo-mento, se non ti dispiace».
Edward iniziò a canticchiare qualcosa a labbra chiuse, a volume più alto del solito, probabilmente nello sforzo di soffocare i pensieri di Jacob. Ma intonava la mia ninna nanna e, nonostante il disagio di fronte a quel sogno sussurrato, lasciai che i sensi mi abbandonassero per sprofondare in sogni più sensati...

23
Mostro

Quando il mattino dopo mi svegliai, c'era molta luce e persino dentro la tenda il sole mi faceva male agli occhi. Ed ero sudata, come aveva predetto Jacob. Il quale russava leggero al mio orecchio, senza sciogliere l'abbraccio.
Liberai la testa dal suo petto febbricitante e sentii il mattino freddo pun-germi le guance intorpidite. Jacob sospirò nel sonno; inconsciamente strinse la presa.
Mi divincolai, incapace di sfuggirgli, nello sforzo di sollevare la testa e gli occhi quel tanto che bastava...
Edward incrociò il mio sguardo con tranquillità. La sua espressione era calma, ma gli occhi tradivano una grande sofferenza.
«Fa un po' più caldo fuori?», bisbigliai.
«Sì. Credo che oggi non ci sarà bisogno della stufa».
Cercai la cerniera, ma non riuscivo a liberare le braccia. Con tutta me stessa combattei contro la forza inerte di Jacob. Lui borbottò qualcosa, nel sonno profondo, e strinse ancora la presa.
«Mi aiuti?», chiesi a mezza voce.
Edward sorrise. «Vuoi che tolga di mezzo le sue braccia?».
«No, grazie. Aiutami a liberarmi. Se no muoio di caldo».
Edward aprì la cerniera del sacco a pelo con un gesto secco e repentino. Jacob ne rotolò fuori e la sua schiena nuda sbatté contro il fondo ghiacciato della tenda.
«Ehi!», protestò spalancando gli occhi. D'istinto si ritrasse dal freddo e si rannicchiò contro di me. Tossii mentre il suo peso mi mozzava il respiro.
Ma poi il suo peso svanì. Sentii l'impatto di Jacob che schizzava verso uno dei pali che tenevano in piedi la tenda, facendola tremare.
Tutt'intorno udivo soltanto ruggiti. Di Edward, rannicchiato davanti a me, con il volto nascosto, coglievo il ringhio rabbioso che gli nasceva dal petto. Anche Jacob era mezzo inginocchiato, il corpo tremante, mentre un ruggito vibrava tra i denti stretti. Fuori dalla tenda, il guaito cattivo di Seth Clearwater echeggiava tra le rocce.
«Basta, basta!», strillai, alzandomi di fretta e in disordine per mettermi tra i due. Lo spazio era talmente angusto che bastava allungare un braccio per sfiorare i loro petti. Edward mi cinse i fianchi con un braccio, pronto a togliermi di mezzo all'istante.
«Smettetela, subito», sbottai.
Al mio ordine, Jacob iniziò a calmarsi. Tremava di meno, ma mostrava ancora i denti e fissava Edward con sguardo furioso. Anche Seth ruggiva, con un suono lungo e continuo, sottofondo inquietante al silenzio improv-viso della tenda.
«Jacob», chiesi, in attesa di vederlo abbassare lo sguardo verso il mio. «Stai bene?».
«Certo che sì!», sibilò.
Mi rivolsi a Edward. Mi guardava, con espressione dura e furiosa. «Non si fà così. Almeno dovresti chiedere scusa».
Lui spalancò gli occhi. «Non dire sciocchezze: stava per stritolarti!».
«Perché tu l'hai buttato a terra! Non l'ha fatto apposta, e non mi ha fatto male!».
Edward fece una smorfia, nauseato. Lentamente, alzò gli occhi e rivolse uno sguardo ostile, di sottecchi, a Jacob. «Scusami, cane».
«Nessun problema», rispose Jacob con un filo di sarcasmo.
Sentivo ancora freddo, ma non quanto ne avevo patito il giorno prima. Mi strinsi nelle braccia.
«Tieni», disse Edward, di nuovo calmo. Raccolse il giaccone da terra e lo avvolse sopra il mio maglione.
«Ma è di Jacob», obiettai.
«Jacob ha un mantello di pelliccia», suggerì Edward.
«Se non vi dispiace, sfrutterei ancora un po' il sacco a pelo». Jacob s'in-filò nella sacca. «Non ero ancora pronto per il risveglio. È stata tutt'altro che una bella dormita».
«L'idea è stata tua», rispose Edward impassibile.
Jacob era rannicchiato, gli occhi già chiusi. Sbadigliò. «Non ho detto che non sia stata la migliore delle notti. Mi dispiace di non aver dormito abba-stanza. Temevo che Bella non chiudesse più il becco».
Trasalii, preoccupata di ciò che poteva essermi uscito di bocca durante il sonno. Le possibilità erano terrificanti.
«Sono lieto che ti sia divertito», mormorò Edward.
Gli occhi scuri di Jacob si aprirono con un battito di ciglia. «Per te non è stata una buona notte?», chiese, malizioso.
«Non la peggiore delle notti».
«Almeno tra le prime dieci ci è entrata?», chiese Jacob, con ironia per-versa.
«Può darsi».
Jacob sorrise e chiuse gli occhi.
«Ma», continuò Edward, «anche se avessi potuto prendere il tuo posto, non sarebbe entrata tra le dieci migliori. Quelle puoi sognartele».
Jacob riaprì gli occhi e lo inchiodò con uno sguardo. Si sedette rigido, le spalle tese.
«Sai una cosa? Mi sa che qui siamo in troppi».
«Non potrei essere più d'accordo».
Diedi una gomitata a Edward, e probabilmente mi procurai un livido.
«Allora recupererò le ore di sonno più tardi». Jacob fece una smorfia. «E poi devo parlare con Sam». Si alzò sulle ginocchia e aprì la cerniera all'in-gresso della tenda.
Sentii un crepitio di dolore lungo la schiena e infine nello stomaco, nell'istante in cui mi resi conto che forse, in quel momento, salutavo Jacob per l'ultima volta. Stava per tornare da Sam, a combattere l'orda di vampiri appena nati e assetati di sangue.
«Jake, aspetta...». Lo inseguii e la mia mano scivolò lungo il suo braccio.
Ma lui la scrollò via prima che le mie dita facessero presa.
«Per favore, Jake. Rimani?».
«No».
La risposta fu dura e fredda. Capii che il dolore mi si leggeva sul viso, perché Jacob sbuffò e un mezzo sorriso addolcì la sua espressione.
«Non preoccuparti per me, Bells. Me la caverò, come sempre». Si sforzò di ridere. «E poi, pensi che possa lasciare andare Seth al posto mio a diver-tirsi e a prendersi la gloria?», ridacchiò.
«Stai attento...».
Sgusciò fuori dalla tenda prima che finissi di parlare.
«E piantala, Bella», lo sentii mormorare mentre richiudeva l'apertura.
Restai ad ascoltare il rumore dei suoi passi lontani, ma c'era un silenzio perfetto. Niente più vento. In lontananza, sulle montagne, sentivo solo il canto degli uccelli del mattino. Jacob si muoveva senza fare rumore.
«Quanto manca?», chiesi.
«Alice ha detto a Sam che dovrebbe essere questione di un'ora, più o meno», rispose Edward, con voce soffice e impassibile.
«Noi restiamo insieme. Comunque vada».
«Comunque vada», ripeté con sguardo assorto.
«Lo so», dissi. «Anch'io sono spaventata per loro».
«Sapranno cavarsela», mi rassicurò Edward, e di proposito sfoderò un tono più leggero. «È soltanto che non mi va di perdermi il divertimento».
Di nuovo la storia del "divertimento". Sbuffai dal naso.
Mi cinse le spalle con il braccio. «Non preoccuparti», tagliò corto e mi baciò sulla fronte.
Come se fosse davvero possibile non preoccuparmi. «Certo, certo».
«Vuoi che ti distragga un po'?». Fece un sospiro e le sue dita fredde sfio-rarono la mia guancia.
Rabbrividii involontariamente; il mattino era ancora ghiacciato.
«Magari non ora», si disse e ritrasse la mano.
«Ci sono altre maniere di distrarmi».
«Quale ti andrebbe?».
«Potresti raccontarmi qualcosa delle tue dieci notti migliori», suggerii. «Sono curiosa».
Scoppiò a ridere. «Indovina».
Scossi la testa. «Ci sono troppe notti di cui non so nulla. Almeno un se-colo».
«La farò breve. Tutte le notti migliori le ho vissute da quando ti ho in-contrata».
«Davvero?».
«Sì, davvero... direi che con le altre non c'è confronto».
Ci riflettei. «Io riesco a pensare soltanto alle mie», ammisi.
«Magari sono le stesse», mi stuzzicò.
«Be', c'è stata la prima notte. La prima volta che sei rimasto».
«Sì, è anche tra le mie. Certo, i momenti che preferisco sono quelli in cui non eri cosciente».
«È vero», ricordai, «anche quella notte ho parlato nel sonno».
«Già».
Mi sentii surriscaldare le guance e tornai a chiedermi cosa avessi potuto dire mentre dormivo tra le braccia di Jacob. Non ricordavo se o cosa avessi sognato, perciò non avevo indizi.
«Cos'ho detto stanotte?», sussurrai, a voce ancora più bassa.
Anziché rispondere alzò le spalle e io ebbi un fremito.
«È così brutto?».
«Niente di orribile», sospirò.
«Dimmelo, per favore».
«Più che altro hai ripetuto il mio nome, come al solito».
«Non è male», suggerii con cautela.
«Verso la fine, però, hai iniziato a mormorare qualcosa di incomprensi-bile a proposito di "Jacob, il mio Jacob"». Era un sussurro, ma sentivo che soffriva. «Al tuo Jacob è piaciuto parecchio, direi».
Drizzai il collo, allungandomi per avvicinare le labbra al profilo del suo mento. Non riuscivo a incrociare il suo sguardo. Fissava il soffitto della tenda.
«Scusa», mormorai. «È il mio modo di distinguere».
«Che cosa?».
«Distinguere il Dottor Jekyll da Mister Hyde. Tra il Jacob che mi piace e quello che mi esaspera da impazzire», spiegai.
«Mi pare che abbia senso». Sembrava essersi calmato, almeno un po'. «Raccontami di un'altra delle tue notti preferite», disse.
«Il viaggio di ritorno dall'Italia».
Si rabbuiò.
«Non è anche una delle tue?», domandai.
«Sì, in effetti lo è, ma mi sorprende che sia nella tua lista. Sbaglio, o eri preda della ridicola convinzione che a guidarmi fosse solo il senso di colpa, e che sarei fuggito dall'aereo subito dopo l'atterraggio?».
«Sì». Sorrisi. «Però eri lì, accanto a me».
Mi baciò i capelli. «Non merito che mi ami così tanto».
Risi, di fronte a quell'idea impossibile. «E poi viene la prima notte dopo il ritorno dall'Italia», proseguii.
«Sì, è sulla lista. Eri davvero divertente».
«Divertente?».
«Non immaginavo che i tuoi sogni fossero tanto nitidi. Mi ci è voluta un'eternità per convincerti che non stavi dormendo».
«Ancora non lo so», mormorai. «Mi sei sempre sembrato un sogno, più che una realtà. Adesso parlami di una delle tue. Ho azzeccato il tuo primo posto?».
«No. Quello è stato due notti fa, quando finalmente hai accettato di spo-sarmi».
Feci una smorfia.
«Non è sulla tua lista?».
Ripensai a come mi aveva baciata, alla concessione che avevo ottenuto, e cambiai idea. «Sì... lo è. Ma con riserva. Non capisco perché sia tanto importante per te. Sono già tua per sempre».
«Tra cento anni, quando la tua prospettiva sarà lunga abbastanza da ap-prezzare la risposta, te lo spiegherò».
«Ti ricorderò di spiegarmelo... tra cento anni».
«Hai caldo abbastanza?», chiese d'un tratto.
«Sto bene», lo rassicurai. «Perché?».
Prima che potesse rispondere, il silenzio che circondava la tenda fu squarciato da un assordante ululato di dolore. Il suono rimbalzò sulla parete di pietra nuda della montagna e riempì l'aria, come se provenisse da ogni direzione.
L'ululato attraversò i miei pensieri come un tornado, strano e familiare al tempo stesso. Strano perché non avevo mai sentito un lamento così stra-ziante. Familiare perché ne distinsi subito il timbro: riconobbi il suono e ne compresi il significato alla perfezione, come se venisse da dentro di me. Poco importava che Jacob non fosse umano, quando si lasciò sfuggire il grido. Non c'era bisogno di tradurlo.
Jacob era vicino. Jacob aveva sentito ogni nostra parola. Jacob stava sof-frendo.
L'ululato soffocò fino a diventare un curioso mugolio gorgogliante, poi tornò il silenzio.
Non udii il rumore della sua fuga silenziosa, ma la avvertii. Notai l'as-senza che prima, a torto, avevo dato per scontata, lo spazio vuoto che si la-sciava alle spalle.
«Perché la tua stufetta ha passato il segno», rispose Edward imperturba-bile. «Tregua finita», aggiunse, in tono così basso che non riuscii a capire se le parole fossero davvero quelle.
«Jacob ci ascoltava», sussurrai. Non era una domanda.
«Sì».
«Lo sapevi».
«Sì».
Guardai nel vuoto, senza vedere nulla.
«Non ho mai promesso di combattere senza barare», precisò calmo. «E lui merita di sapere».
La testa mi crollò tra le mani.
«Sei arrabbiata?», domandò.
«Non con te», sussurrai. «Sono disgustata di me stessa».
«Non tormentarti», supplicò.
«Già», aggiunsi acida. «Meglio che risparmi energie per tormentare Jacob un altro po'. Non sia mai detto che ne risparmi una parte».
«Sapeva ciò che stava facendo».
«Pensi che importi qualcosa?». Sbattevo gli occhi per non piangere, era facile intuirlo dalla mia voce. «Pensi che m'importi che sia giusto o no, o che qualcuno lo abbia già messo in guardia? Gli sto facendo del male. Con ogni piccolo gesto, gli faccio del male». La mia voce si faceva sempre più acuta, più isterica. «Sono una persona orribile».
Mi strinse forte fra le braccia. «Invece no».
«Invece sì! Cosa mi succede?». Mi divincolai e lui allentò la presa. «De-vo raggiungerlo».
«Bella, è già lontano chilometri, e fa freddo».
«Non m'importa. Non possono starmene qui». Mi scrollai di dosso il giaccone di Jacob, infilai i piedi negli scarponi e strisciai rigida verso la porta con le gambe intorpidite. «Devo, devo...». Non sapevo come conclu-dere la frase, non sapevo cosa fare, tuttavia aprii la cerniera della tenda e uscii nel mattino luminoso e ghiacciato.
C'era meno neve di quanta pensassi dopo la tempesta furiosa della notte precedente. Probabilmente era stata soffiata via, anziché sciogliersi al sole che in quel momento splendeva basso a sudest e sbucava dal manto bianco pizzicandomi gli occhi non ancora abituati alla luce.
L'aria era rimasta frizzante, ma c'era una calma assoluta e, mano a mano che il sole si alzava, la temperatura tornava ai livelli di stagione.
Seth Clearwater era raggomitolato su uno spiazzo di aghi di pino asciutti, all'ombra del fitto di un abete, con la testa tra le zampe. La sua pelliccia color sabbia era quasi invisibile sullo sfondo degli aghi morti, ma notai il riflesso della neve nei suoi occhi aperti. Mi fissava con un'espressione che immaginai essere di accusa.
Mentre barcollavo verso gli alberi sapevo di avere Edward alle spalle. Non lo sentivo, ma il sole si rifletteva sulla sua pelle in arcobaleni scintil-lanti che mi precedevano danzando. Non si avvicinò a fermarmi finché non fui parecchi passi all'interno delle ombre della foresta.
Con la mano mi strinse il polso sinistro. Quando cercai di liberarmi con uno strattone, mi ignorò.
«Non puoi inseguirlo. Non oggi. È quasi l'ora. E smarrirti nel bosco non sarebbe d'aiuto a nessuno, malgrado tutto».
Piegai il polso e tirai, inutilmente.
«Mi dispiace, Bella», sussurrò. «Mi dispiace per ciò che ho fatto».
«Tu non hai fatto niente. È colpa mia. Sono stata io. Ho sbagliato tutto. Avrei potuto... Quando lui... non avrei dovuto... Io... io...». Singhiozzai.
«Bella, Bella». Le sue braccia mi avvolsero e bagnai di lacrime la sua camicia.
«Avrei dovuto dirglielo... avrei dovuto dire...». Cosa? Cosa avrebbe po-tuto raddrizzare la situazione? «Non è giusto che lo abbia... saputo così».
«Vuoi che provi a vedere se riesco a riportarlo qui, per fartici parlare? Abbiamo ancora un po' di tempo», mormorò Edward, un tormento soffoca-to nella sua voce.
Annuii, la testa contro il suo petto, timorosa di guardarlo.
«Non allontanarti dalla tenda, torno presto».
Le sue braccia svanirono. Se ne andò così in fretta da sparire nel mo-mento stesso in cui alzai lo sguardo. Ero sola.
Un altro singhiozzo mi scosse il petto. Stavo facendo del male a tutti. Era rimasto qualcosa che avessi toccato senza rovinarlo?
Non capivo perché proprio in quel momento mi sentissi sopraffatta. Tutto sommato, sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Ma Jacob non aveva mai reagito così violentemente, perdendo la sua sfacciataggine esagerata e svelando l'intensità del proprio dolore. Il suono di quel tormento non se n'era ancora andato e mi lacerava in fondo al petto. E, accanto, c'era l'altro dolore. Il dolore che nasceva dal dolore per Jacob. Il dolore per avere ferito anche Edward. Per non essere stata capace di mantenere il contegno mentre Jacob se ne andava e ricordare che era la cosa giusta, l'unica strada.
Ero egoista, nociva. Torturavo coloro che amavo.
Somigliavo alla Cathy di Cime tempestose, solo che le mie alternative erano di gran lunga migliori delle sue, non ce n'era una debole o malvagia. Eppure, eccomi lì a piangerci sopra, senza fare niente di produttivo per ri-solvere il problema. Proprio come Cathy.
Non potevo più permettere che ciò che mi tormentava influenzasse le mie decisioni. Era troppo poco e decisamente troppo tardi, ma a quel punto dovevo prendere la decisione più sensata. Forse qualcuno l'aveva presa per me. Forse Edward non sarebbe riuscito a riportarlo indietro. A quel punto me ne sarei fatta una ragione e avrei continuato a vivere la mia vita. Edward non mi avrebbe mai più vista versare lacrime per Jacob Black. Non dovevano esserci più lacrime. Asciugai le ultime con le dita ormai fredde.
Ma, se Edward fosse tornato assieme a Jacob, non avrei avuto scelta. Dovevo dirgli di andarsene e di non tornare mai più.
Perché era così difficile? Molto, troppo difficile rispetto al dire addio ai miei altri amici, ad Angela, a Mike? Perché mi faceva stare male? Non era giusto. Non potevo lasciarmi scalfire. Avevo ciò che volevo. Non potevo averli entrambi, perché Jacob non poteva restare un semplice amico. Era venuto il momento di smettere di desiderare che lo fosse. Quanto avide e ridicole riescono a essere le persone?
Dovevo liberarmi della sensazione irrazionale che Jacob appartenesse alla mia vita. Non poteva appartenermi, essere il mio Jacob, se io appartenevo a qualcun altro.
Tornai lentamente alla piccola radura, trascinando i piedi. Quando irruppi nello spazio aperto, sbattendo le palpebre sotto la luce tagliente, lanciai un'occhiata furtiva a Seth che non si era spostato dal letto di aghi di pino, ma non ressi al suo sguardo.
Mi sentivo i capelli scompigliati, annodati come i serpenti della Medusa. Ci infilai le dita per sistemarli, ma rinunciai all'istante. Del resto, che im-portava del mio aspetto?
Afferrai la borraccia appesa alla porta della tenda e la agitai. A giudicare dal rumore era piena, perciò svitai il tappo e bevvi un sorso per inumidirmi la bocca con l'acqua ghiacciata. Da qualche parte lì accanto c'era da man-giare, ma non mi sentivo così affamata da mettermi a cercare. Iniziai a pas-seggiare avanti e indietro sul piccolo spiazzo assolato, seguita in ogni atti-mo, lo sentivo, dallo sguardo di Seth. Dal momento che non osavo fissarlo, nei miei pensieri si trasformò in ragazzo, anziché in lupo gigante. Tanto simile a un Jacob da ragazzino.
Avrei voluto chiedere a Seth di guaire o darmi un altro segno, nel caso Jacob stesse tornando, ma mi convinsi a non farlo. Non importava che tor-nasse o no. Forse sarebbe stato più facile se non lo avessi rivisto. Deside-ravo che ci fosse un modo di chiamare Edward.
In quel momento Seth guaì e si alzò.
«Che succede?», fu la mia domanda stupida.
Mi ignorò, trotterellò verso il confine degli alberi e puntò il naso verso ovest. Iniziò a uggiolare.
«Sono gli altri, Seth?», domandai. «Nella radura?».
Mi guardò, emise un guaito lieve e tornò a puntare il naso verso ovest, all'erta. Con le orecchie schiacciate all'indietro, guaì di nuovo.
Perché ero stata così sciocca? Cosa avevo sperato chiedendo a Edward di andare? Come facevo a sapere cosa stava succedendo? Non parlavo la lingua dei lupi.
Un rivolo freddo di paura iniziò a scivolarmi lungo la schiena. E se il tempo fosse scaduto? Se Jacob ed Edward si fossero avvicinati troppo? Se Edward avesse deciso di unirsi alla battaglia?
La paura mi gelò lo stomaco. E se l'inquietudine di Seth non avesse avuto niente a che vedere con la radura e i suoi guaiti fossero una risposta ne-gativa? Forse Jacob ed Edward stavano combattendo uno contro l'altro, chissà dove, nella foresta? Non avrebbero mai osato, vero?
All'improvviso ebbi la consapevolezza agghiacciante che invece poteva succedere: bastava una frase sbagliata. Ripensai alle schermaglie tese di quel mattino e considerai che forse non mi ero accorta di quanto fossero stati vicini a combattere.
Se per caso li avessi persi entrambi, sarebbe stato un castigo meritato.
Il ghiaccio avvolse stretto il mio cuore.
Prima che potessi svenire di paura, Seth emise un brontolio secco, dal profondo del petto, per poi allontanarsi dal posto di guardia e tornare dove aveva riposato. Mi sentii più calma ma anche irritata. Non poteva scrivere un messaggio scavando per terra, o qualcosa del genere?
Il continuo camminare sul posto stava iniziando a farmi sudare, sotto tutti gli strati. Gettai il giaccone nella tenda, poi tornai a percorrere un sentiero che tagliava in due il centro della minuscola apertura tra gli alberi.
Seth si rialzò all'istante con un balzo, drizzando i peli alla base del collo. Mi guardai attorno senza vedere niente. O la smetteva, o gli tiravo una pigna in testa.
Ringhiò, con un rumore cupo di avvertimento, si avvicinò quatto quatto all'orlo occidentale della radura e fui costretta a ridimensionare la mia im-pazienza.
«Siamo noi, Seth», scandì Jacob da lontano.
Cercai di spiegarmi perché il mio cuore fosse partito in quarta al suono della sua voce. Era soltanto la paura di ciò che stavo per fare, e niente più. Non potevo permettermi il sollievo che sentivo nel vederlo tornare. Sarebbe stato tutto tranne che un aiuto.
Edward comparve per primo, il volto impassibile e rilassato. Quando uscì dall'ombra, il sole luccicò sulla sua pelle come faceva sulla neve. Seth andò a salutarlo, fissandolo deciso negli occhi. Edward annuì lentamente e la preoccupazione increspò la sua fronte.
«Sì, è ciò che ci serve», mormorò tra sé, prima di rivolgersi al grosso lu-po. «Immagino che non ci sia da sorprendersi. Ma la tempistica dev'essere molto serrata. Per favore, di' a Sam se può chiedere ad Alice di precisare meglio la scaletta».
Seth chinò il capo con un cenno e a quel punto mi sarebbe piaciuto saper ringhiare. Ma bravo, adesso sì che comunicava. Mi voltai, irritata, e mi resi conto che c'era anche Jacob.
Mi dava le spalle, guardava verso il sentiero da cui era spuntato. Non so cos'avrei dato perché si voltasse.
«Bella», mormorò Edward, che all'istante mi fu vicino. Mi fissava e dai suoi occhi non traspariva altro che preoccupazione. La sua generosità non aveva limiti. Non avevo mai sentito di meritarlo così poco.
«C'è una piccola complicazione», mi disse, attento a non mostrarsi pre-occupato. «Ho bisogno che Seth venga con me, per risolverla. Non mi al-lontanerò troppo, ma non resterò neanche in ascolto. So che non ti va di avere un pubblico, qualunque sia la tua decisione».
Solo con le ultime parole nella sua voce affiorò il dolore.
Non dovevo fargli del male, mai più. Ecco la missione della mia vita. Mai più sarei stata la ragione di quello sguardo nei suoi occhi.
Ero talmente scossa che nemmeno riuscii a chiedergli quale fosse il nuovo problema. Non mi andava di aggiungerne altri, in quel momento.
«Torna in fretta», sussurrai.
Mi diede un bacio leggero sulle labbra e sparì nella foresta con Seth al suo fianco.
Jacob era rimasto all'ombra degli alberi; non riuscivo a cogliere la sua espressione.
«Vado di fretta, Bella», disse senza entusiasmo. «Perché non la fai fini-ta?».
Deglutii, con la gola talmente secca da non capire se ne potesse uscire un suono.
«Di' ciò che devi, e togliamoci il pensiero».
Respirai a fondo.
«Scusa se sono così cattiva», sussurrai. «Mi dispiace di essere stata ego-ista. Magari non ti avessi mai conosciuto, avrei evitato di ferirti in questa maniera. Non lo farò più, te lo prometto. Ti resterò lontana. Me ne andrò in un altro Stato. Non dovrai più venirmi a cercare».
«Non mi sembra granché, come soluzione», disse amareggiato.
Non riuscivo a esprimermi che con sussurri. «Dimmi tu come fare».
«E se non volessi lasciarti andare? E se, egoista o no, preferissi vederti restare? Posso dire la mia, o sei tu a voler decidere per me?».
«Non servirà a niente, Jake. Ho sbagliato a restarti vicina quando sapevo che desideravamo cose tanto diverse. Non migliorerà. Continuerò a farti del male e basta. Non voglio più ferirti. Non lo sopporto». La mia voce si spezzò.
«Basta. Non dire nient'altro. Capisco».
Avrei voluto spiegargli quanto mi sarebbe mancato, ma mi convinsi a non farlo. Sarebbe stato un altro tentativo inutile di migliorare le cose.
Per un istante rimase in silenzio con lo sguardo basso, mentre lottavo contro l'istinto di corrergli incontro e abbracciarlo. Per confortarlo.
Poi alzò la testa di scatto.
«Be', non sei l'unica capace di sacrificare se stessa», disse con voce più convinta. «Ci si può giocare anche in due».
«A cosa?».
«Anch'io mi sono comportato davvero male. Ti ho reso la vita più diffi-cile del necessario. Avrei potuto farmi da parte già all'inizio, senza battere ciglio. Invece, anch'io ti ho ferita».
«È colpa mia».
«Non voglio che ti prenda tutte le responsabilità, Bella. Né tutta la gloria. Io so come riscattarmi».
«Cosa stai dicendo?», domandai. La luce improvvisa e ardente nel suo sguardo mi spaventò.
Alzò gli occhi al sole e mi sorrise. «Laggiù sta per esplodere una battaglia piuttosto seria. Credo che non sarà così difficile, per me, uscire di scena».
Le sue parole mi sprofondarono nel cervello, lentamente, una alla volta, e mi mozzarono il respiro. Malgrado le intenzioni di tagliare definitivamente fuori Jacob dalla mia vita, solo in quell'istante capii quanto dovessi affondare la lama per riuscirci davvero.
«Oh, no, Jake! No, no, no!», sbottai, terrorizzata. «No, Jake. Per favore, no». Iniziarono a tremarmi le ginocchia.
«Che differenza fa, Bella? Sarà soltanto più comodo per tutti. Non dovrai nemmeno traslocare».
«No!». La mia voce si fece più forte. «No, Jacob! Non te lo permetterò!».
«E come farai a fermarmi?», mi provocò con leggerezza, sorridendo per togliere cattiveria alla domanda.
«Jacob, ti scongiuro. Resta con me». Glielo avrei chiesto in ginocchio, se solo fossi riuscita a muovermi.
«Per un quarto d'ora soltanto, perdendomi una bella rissa? Così potrai scappare non appena penserai che sono fuori pericolo? Non dire fesserie».
«Non scapperò. Ho cambiato idea. Troveremo una soluzione, Jacob. Un compromesso c'è sempre. Non andare!».
«Stai mentendo».
«No. Sai che come bugiarda non valgo niente. Guardami negli occhi. Rimango qui solo se resti anche tu».
La sua espressione s'indurì. «Allora posso farti da testimone al matrimo-nio?».
Passò un istante prima che riuscissi a parlare, e tuttavia l'unica risposta che riuscii a dargli fu: «Per favore».
«È come pensavo», disse, e sul suo viso tornò lo calma, a eccezione della luce turbolenta negli occhi.
«Ti amo, Bella», mormorò.
«Ti voglio bene, Jacob», sussurrai a stento.
Sorrise. «Lo so meglio di te».
Si voltò e fece per andarsene.
«Qualsiasi cosa», urlai alle sue spalle, con voce strozzata. «Tutto ciò che vuoi, Jacob. Ma non farlo!».
Si fermò e si girò lentamente.
«Secondo me non dici sul serio».
«Resta», lo implorai.
Scosse la testa. «No, vado». S'interruppe, come per decidere qualcosa. «Ma potrei lasciare che sia la sorte a decidere».
«Cosa vuol dire?», tossii.
«Che non farò niente di proposito. Solo darò il mio meglio per il branco e quel che sarà, sarà». Si strinse nelle spalle. «Se riuscissi a convincermi che desideri davvero il mio ritorno... e che non è soltanto per egoismo».
«Come faccio?», domandai.
«Potresti chiedermelo».
«Torna», sussurrai.
Come poteva dubitare che non dicessi sul serio?
Scosse la testa e sorrise di nuovo. «Non è questo che intendo».
Mi bastò un secondo per capire e nel frattempo mi accorsi del suo sguardo di superiorità, sicuro della mia reazione. Non appena sentii la cer-tezza, però, balbettai la domanda senza fermarmi a pesarne le conseguenze.
«Vuoi baciarmi, Jacob?».
Strabuzzò gli occhi, sorpreso, ma poi li socchiuse sospettoso. «Stai bluf-fando».
«Baciami, Jacob. Baciami, e ritorna».
Restò immobile nell'ombra, in guerra con se stesso. Fece per voltarsi verso ovest, il busto girato ma i piedi ben piantati dove stavano. Senza guardarmi, fece un passo indeciso verso di me, e poi un altro. Inclinò il viso per osservarmi, dubbioso.
Restituii lo sguardo. Non avevo idea di che espressione avessi.
Jacob si dondolò sui talloni, poi si trascinò in avanti e coprì la distanza tra noi con tre grandi passi.
Sapevo che avrebbe approfittato della situazione. Me lo aspettavo. Restai immobile - gli occhi chiusi, i pugni stretti ai miei fianchi - mentre con le mani cercava il mio viso e le sue labbra trovavano le mie, con un'avidità che non era lontana dalla violenza.
Sentii la sua rabbia, quando con la bocca si accorse della mia resistenza passiva. Una mano si avvicinò alla mia nuca, l'altra mi afferrò brusca la spalla, mi scosse e mi avvinghiò a lui. Poi proseguì sul mio braccio, mi cercò il polso e lo sollevò a circondargli le spalle. Lo lasciai dov'era, il pu-gno ancora stretto, senza sapere dove mi avrebbe condotta il desiderio di-sperato di salvargli la vita. Nel frattempo le sue labbra, di una morbidezza e di un calore straordinari, cercavano di scatenare la reazione delle mie.
Quando fu certo che non avrei lasciato cadere il braccio, mi liberò il pol-so e la sua mano si fece strada fino ai miei fianchi. La mano infuocata trovò un lembo di pelle all'altezza della vita e mi costrinse ad avvicinarmi e inarcare il corpo contro il suo.
Le labbra si fermarono per un istante, ma sapevo che la fine era ancora lontana. Con la bocca seguì il contorno del mio mento, poi esplorò il profi-lo del collo. Lasciò i capelli, in cerca dell'altro braccio, che voleva stringersi al collo come il primo.
Poi mi ritrovai le sue braccia attorno ai fianchi e le sue labbra all'orec-chio.
«Puoi fare meglio di così, Bella», sussurrò tenebroso. «Ci stai pensando troppo».
Sentii un fremito quando con i denti mi toccò il lobo.
«Esatto», mormorò. «Una volta tanto, concediti di sentire ciò che senti».
Scossi la testa meccanicamente, finché con una mano non tornò a strin-germi i capelli per tenermi ferma.
La sua voce si fece acida. «Sei sicura di volere che io torni? Non è che in realtà desideri la mia morte?».
Mi sentii scuotere dalla rabbia come da un colpo violento di frusta. Così era troppo: non stava giocando pulito.
Avevo già le braccia sulle sue spalle, perciò gli tirai due ciocche di capelli senza badare al dolore pungente alla mano destra e mi ribellai, nello sforzo di allontanare il viso dal suo.
E Jacob fraintese.
Era troppo forte per accorgersi che le mie mani, decise a strappargli i capelli alla radice, volevano fargli male. Scambiò la rabbia per passione. Pensava che finalmente stessi reagendo.
Con un sospiro selvaggio riavvicinò la bocca alla mia, le dita affondate nella pelle dei miei fianchi.
Lo scatto di rabbia sbilanciò il mio debole autocontrollo e la sua reazione inattesa, estasiata, lo sconvolse del tutto. Se si fosse sentito soltanto tri-onfante, forse avrei resistito. Ma la spontaneità assoluta e indifesa della sua gioia improvvisa sbriciolò la mia determinazione, la mise fuori uso. Il cervello si scollegò dal corpo e mi ritrovai a baciare Jake. Contro ogni lo-gica, le mie labbra si muovevano assieme alle sue in una maniera strana e incomprensibile, mai sperimentata prima - perché con Jacob non dovevo stare attenta, e di certo lui non doveva esserlo con me.
Strinsi le dita tra i suoi capelli, ma stavolta per avvicinarlo a me.
Era ovunque. Il sole abbagliante inondò di rosso i miei occhi ed era il colore giusto, con tutto quel caldo. Il caldo era ovunque. Non vedevo, non sentivo, non provavo nient'altro che non fosse Jacob.
L'unico frammento di cervello che manteneva un po' di lucidità mi urlava domande.
Perché non la smettevo? E, peggio ancora, perché non trovavo in me stessa nemmeno il desiderio di smettere? Non volevo che si fermasse: per-ché? Perché le mie mani gli stringevano le spalle ed erano felici di sentirle larghe e forti? Di sentire anche le sue mani sul mio corpo, e di desiderare che stringessero ancora di più?
Domande stupide, perché la risposta era chiara: avevo mentito a me stes-sa.
Aveva ragione Jacob. L'aveva sempre avuta. Era più di un semplice a-mico. Ecco perché non riuscivo a dirgli addio: ero innamorata di lui. Sì. Lo amavo, più di quanto avrei dovuto, e tuttavia non abbastanza. Ero innamo-rata di lui, ma ciò non bastava a cambiare nulla; era soltanto sufficiente a ferirci entrambi. A ferirlo, peggio di quanto avessi mai fatto.
E, più di tutto, una cosa avevo a cuore: la sua sofferenza. Io meritavo ampiamente di patire ogni conseguenza della situazione. Speravo di stare male. Speravo di soffrire davvero.
In quel momento era come se fossimo un'unica persona. Il suo tormento era sempre stato e sarebbe sempre stato anche mio ma, ora, la sua gioia era la mia. Anch'io ne provavo, eppure nella sua felicità coglievo un velo di sofferenza. Era quasi tangibile e mi bruciava sulla pelle come acido, in una lenta tortura.
Per un secondo breve ma infinito, vidi una strada diversa srotolarsi al di là delle palpebre che sigillavano i miei occhi inondati di lacrime. Come se guardassi attraverso il filtro dei pensieri di Jacob, capii con esattezza a cosa avrei rinunciato, cos'avrei perso malgrado la mia nuova consapevolezza di me stessa. Vedevo Charlie e Renée confusi in uno strano collage assieme a Billy, Sam e La Push. Vedevo gli anni passare, e il loro passaggio si-gnificava qualcosa, mi cambiava. Mi vedevo assistita e protetta, nel biso-gno, dall'enorme lupo rossiccio e marrone che amavo. Per un minuscolo frammento di quel secondo vidi le teste ciondolanti di due bambinetti con i capelli neri che giocavano a rincorrersi nella foresta tanto familiare. Quando sparirono, portarono con sé il resto della visione.
Poi, distintamente, sentii aprirsi una crepa nel mio cuore, mentre un suo minuscolo frammento si staccava da tutto il resto.
Le labbra di Jacob si fermarono prima delle mie. Aprii gli occhi e lo tro-vai che mi fissava meravigliato e festoso.
«Devo andare», sussurrò.
«No».
Sorrise, lieto della mia risposta. «Torno presto», promise. «Prima, però, una cosa...».
Riprese a baciarmi e non c'era più ragione di resistere. Perché mai?
Stavolta era diverso. Sentivo le sue mani lievi sul mio volto, le labbra calde e delicate, sorprendentemente timide. Fu breve, e tanto, tanto dolce.
Mi avvolse tra le sue braccia e mi cullò stretta mentre mi sussurrava all'orecchio.
«Questo doveva essere il nostro primo bacio. Meglio tardi che mai».
Contro il suo petto, dove non poteva vedere, le mie lacrime si addensa-rono e scesero.

24
Decisione repentina

Ero sdraiata a faccia in giù dentro il sacco a pelo, in attesa che una qual-che forma di giustizia divina mi trovasse e facesse il suo corso. Magari sarei rimasta sepolta sotto una valanga. Ci speravo. Non volevo mai più dovermi guardare allo specchio.
Nessun rumore mi mise in guardia. Di punto in bianco, la mano fredda di Edward accarezzò i miei capelli annodati. Trasalii di vergogna non appena mi sfiorò.
«Stai bene?», mormorò con voce ansiosa.
«No. Voglio morire».
«Non accadrà. Non lo permetterò».
Sbadigliai e poi sussurrai. «Potresti anche cambiare idea».
«Dov'è Jacob?».
«È andato a combattere», brontolai, faccia a terra.
Jacob aveva lasciato l'accampamento improvvisato di buonumore, con un «Torno presto» entusiasta, ed era partito a gambe levate verso la radura, già scosso dal tremore che anticipava la trasformazione nell'altro se stesso. A quel punto, il branco al completo sapeva tutto. Seth Clearwater, che pas-seggiava avanti e indietro fuori dalla tenda, era testimone intimo della mia disgrazia.
Edward restò in silenzio per un minuto interminabile. «Ah», disse, infine.
Il tono della sua voce mi fece temere che la valanga non fosse scesa ab-bastanza in fretta. Sbirciai verso di lui e, ci avrei scommesso, i suoi occhi fissavano il vuoto mentre ascoltava ciò che gli avrei voluto tenere nascosto anche a prezzo della vita. Tornai a nascondere il viso a terra.
Fui sorpresa di sentire la risata soffocata di Edward.
«E dire che pensavo di essere stato io a giocare sporco», disse a malin-cuore ma con una certa ammirazione. «A confronto, sono il santo patrono degli onesti». Sfiorò con la mano il lembo visibile della mia guancia. «Non ce l'ho con te, amore. Jacob è più scaltro di quanto pensassi. Certo, avrei preferito che non fossi tu a chiederglielo».
«Edward», sussurrai contro il nylon ruvido. «Io... io... sono...».
«Sssh», disse, calmandomi con una carezza. «Non è ciò che intendevo. È soltanto che, in un modo o nell'altro, ti avrebbe baciata anche senza in-gannarti, e per com'è andata non ho una scusa valida per spaccargli la faccia. Peccato, penso che mi sarei proprio divertito».
«Ingannarmi?», fu il mio mormorio quasi incomprensibile.
«Bella, sei davvero convinta che si sia comportato da cavaliere? Che fosse disposto ad andarsene in una fiammata di gloria soltanto per cedermi il posto?».
Alzai la testa piano, a incontrare il suo sguardo paziente. L'espressione era mite; gli occhi pieni di comprensione, anziché del ribrezzo che meritavo.
«Sì, ci ho creduto», farfugliai e distolsi lo sguardo. Ma non mi sentivo imbrogliata, né arrabbiata con Jacob. Nel mio corpo non era rimasto spazio per contenere altro, escluso l'odio che provavo verso me stessa.
Edward soffocò un'altra risata. «Sei così incapace di mentire, che credi a chiunque ci sappia appena fare».
«Perché non ce l'hai con me?», sussurrai. «Perché non ti arrabbi? Forse non hai ancora sentito la storia completa?».
«Credo di averle dato un'occhiata piuttosto ampia», disse, allegro e tran-quillo. «Jacob crea immagini mentali molto vivaci. Quando le vedo provo quasi lo stesso fastidio del branco. Il povero Seth aveva la nausea. Ma a-desso Sam sta aiutando Jacob a concentrarsi».
Chiusi gli occhi e scossi la testa agonizzante. Il tessuto ruvido di nylon del fondo della tenda mi grattò la pelle.
«Sei soltanto un essere umano», sussurrò, e riprese a carezzarmi i capelli.
«È la giustificazione più stupida che abbia mai sentito».
«Ma sei umana, Bella. E malgrado i miei desideri, lo è anche lui... Nella tua vita ci sono buchi che non so riempire, me ne rendo conto».
«Ma non è vero. Ecco perché mi sento così orribile. Non ci sono buchi».
«Lo ami», mormorò delicato.
Ogni cellula del mio corpo si sforzò di negare.
«Amo di più te». Era il meglio che potessi dire.
«Sì, lo so. Ma... Quando ti ho lasciata ho aperto una ferita. Jacob l'ha cu-rata. È logico che ciò abbia lasciato un segno su entrambi. Non sono certo che i punti della cucitura svaniranno da soli. Non posso incolpare te né lui di qualcosa che io ho scatenato. Magari mi guadagnerò il perdono, ma ciò non potrà negarmi le conseguenze».
«Ecco, sapevo che in un modo o nell'altro avresti trovato il modo di sen-tirti in colpa. Per piacere, smettila. Sei insopportabile».
«Cosa vuoi che dica?».
«Voglio che mi rivolga ogni insulto che conosci, in tutte le lingue che parli. Voglio che mi dica che sei disgustato e che vuoi lasciarmi, che mi costringa a implorarti in ginocchio, disperata, di restare con me».
«Mi dispiace». Sospirò. «Non posso».
«Perlomeno smettila di cercare di consolarmi. Fammi soffrire. Me lo merito».
«No», mormorò.
Annuii lentamente. «Hai ragione. Insisti pure a essere troppo compren-sivo. Probabilmente è peggio».
Per un istante rimase in silenzio e nell'atmosfera colsi un cambiamento, una nuova urgenza.
«Sta arrivando», dichiarai.
«Sì, manca ancora qualche minuto. Il tempo che basta per aggiungere una cosa sola...».
Restai in attesa. Quando finalmente parlò, fu in un sussurro. «Io so essere cavalleresco, Bella. Non intendo costringerti a scegliere tra me e lui. Sii felice, e potrai avere di me quanto vuoi: una parte, o niente, se preferisci. Non lasciarti influenzare dai debiti che senti di avere con me».
Con uno scatto immediato mi levai dal fondo e mi sollevai sulle ginoc-chia.
«Dannazione, smettila!», gli urlai contro.
Strabuzzò gli occhi, sorpreso. «No, non capisci. Non sto cercando di confortarti, Bella, dico sul serio».
«Lo so che dici sul serio», ruggii. «Che ne è del tuo istinto battagliero? Non ricominciare con la storia del nobile sacrificio di se stessi! Combatti!».
«E come?», domandò, e tanta tristezza rendeva il suo sguardo antico.
Gli gettai le braccia addosso.
«Non m'importa se fa freddo. Non m'importa se puzzo di cane. Fammi dimenticare quanto sono disgustosa. Aiutami a dimenticarlo. Fammi di-menticare come mi chiamo. Reagisci!».
Non attesi la sua decisione, né che avesse la possibilità di dirmi che un mostro crudele e perfido come me non gli interessava. Mi gettai su di lui baciando le sue labbra fredde come la neve.
«Attenta, amore», mormorò, colpito dalla mia veemenza.
«No», ringhiai.
Con delicatezza mi allontanò il viso di qualche centimetro. «Non hai niente da dimostrarmi».
«Non sto cercando di dimostrare nulla. Hai detto che posso avere la parte di te che preferisco. Voglio questa. Le voglio tutte». Strinsi il suo collo fra le braccia e mi sforzai di raggiungere le labbra. Inclinò la testa per restituire il bacio, ma la sua bocca fresca era esitante e la mia impazienza cresceva. Il mio corpo rendeva chiare le mie intenzioni, mi smascherava. Inevitabilmente, arrivarono le sue mani a trattenermi.
«Forse non è il momento migliore», suggerì, troppo tranquillo per i miei gusti.
«Perché no?», bofonchiai. Non aveva senso litigare se lui era così razio-nale; lasciai cadere le braccia.
«Prima di tutto perché fa davvero freddo». Si allungò a sollevare il sacco a pelo da terra e me lo avvolse attorno come una coperta.
«Sbagliato», dissi. «Primo, perché malgrado tu sia un vampiro hai una morale un po' bizzarra».
Ridacchiò. «D'accordo. Te lo concedo. Il freddo viene per secondo. E terzo... be', è vero che puzzi, amore».
Arricciò il naso.
Feci un sospiro.
«Quarto», mormorò, abbassando la testa quanto bastava a sussurrare al mio orecchio. «Ci proveremo, Bella. Manterrò la promessa. Ma gradirei che non fosse per reazione a Jacob Black».
Ebbi un fremito, e affondai il viso sotto la sua spalla.
«Quinto...».
«Che lista lunga», bofonchiai.
Rise. «Sì, ma vuoi davvero restare ad ascoltare la battaglia?».
A queste parole, Seth emise un ululato stridulo fuori dalla tenda.
Il mio corpo s'irrigidì. Non mi accorsi di aver stretto la mano sinistra in un pugno, le unghie affondate nel palmo bendato, finché non fu Edward a prenderla e dischiuderla con delicatezza.
«Andrà tutto bene, Bella», promise. «Dalla nostra abbiamo tecnica, alle-namento e il fattore sorpresa. Finirà presto. Se non ne fossi convinto, sarei già assieme agli altri e ti lascerei qui, incatenata a un albero o qualcosa del genere».
«Alice è così piccola», mugugnai.
Rispose con una risata. «Potrebbe essere un problema... se esistesse qualcuno in grado di prenderla».
Seth iniziò a mugolare.
«Cosa c'è che non va?», domandai.
«È soltanto arrabbiato perché gli tocca stare qui con noi. Sa che il branco l'ha tenuto lontano dall'azione per proteggerlo. Sbava dal desiderio di rag-giungerli».
Alzai le spalle, guardando Seth.
«I neonati sono al termine del sentiero - ha funzionato d'incanto, Jasper è un genio - e hanno agganciato la scia di chi sta nella radura, perciò, come previsto da Alice, si stanno dividendo in due gruppi», mormorò Edward, lo sguardo concentrato su qualcosa, in lontananza. «Sam ci sta guidando a in-tercettare il gruppo dell'imboscata». Era così concentrato su ciò che stava ascoltando da usare il plurale del branco.
All'improvviso abbassò lo sguardo su di me. «Respira, Bella».
Mi sforzai di obbedire alla richiesta. Udivo il respiro pesante di Seth ap-pena fuori dalla parete della tenda e cercavo di sintonizzarmi sullo stesso ritmo regolare, per non andare in iperventilazione.
«Il primo gruppo è entrato nella radura. Riusciamo a sentire il rumore della battaglia».
Strinsi i denti.
Scoppiò in una risata secca. «Riusciamo a sentire Emmett: si sta diver-tendo».
Mi sforzai di fare un altro respiro con Seth.
«Il secondo gruppo si sta preparando... Non ci prestano attenzione, non ci hanno ancora sentiti».
Edward ruggì.
«Cosa?», sbottai.
«Parlano di te». Con uno scatto serrò i denti. «In teoria dovrebbero im-pedirti di scappare... Bella mossa, Leah! Ehi, è davvero veloce», mormorò approvando. «Uno dei neonati si è accorto della nostra scia e Leah lo ha abbattuto ancora prima che riuscisse a cambiare direzione. Sam la sta aiu-tando a finirlo. Paul e Jacob ne hanno preso un altro, il resto è sulla difen-siva, adesso. Non sanno come comportarsi con noi. Entrambe le schiere fintano l'attacco... No, lasciate che sia Sam a guidare», borbottò. «Separa-teli: non lasciate che si guardino le spalle a vicenda».
Seth mugolò.
«Così va meglio, spingeteli verso la radura», approvò Edward. Senza che se ne accorgesse, il suo corpo si spostava, teso verso le mosse che lui stesso avrebbe voluto fare. Stringeva ancora la mia mano tra le sue e io con le dita la torturavo. Se non altro, non era anche lui laggiù.
L'improvvisa assenza di rumori fu l'unico presagio.
Il suono profondo e incalzante del respiro di Seth s'interruppe e, ormai in sincrono con lui, me ne accorsi subito.
Anch'io per paura cessai di respirare quando capii che persino Edward era immobile come un blocco di ghiaccio al mio fianco.
Oh, no. No. No.
Chi era stato colpito? I nostri o i loro? I miei, erano tutti miei. Chi avevo perso?
Tanto veloce da non rendermene conto, mi ritrovai in piedi, mentre la tenda crollava a brandelli laceri attorno a me. Era stato Edward a strappare un varco? Perché?
Sbattei gli occhi, confusa, nella luce accesa. Vedevo soltanto Seth, il muso a quindici centimetri dal volto di Edward. Si fissarono con concen-trazione assoluta per un secondo infinito. Il sole si sbriciolava sulla pelle di Edward e scatenava scintille che danzavano sulla pelliccia di Seth.
Poi Edward sussurrò con veemenza: «Vai, Seth!».
L'enorme lupo si voltò e sparì nell'ombra della foresta.
Erano passati due secondi? Sembravano ore. Ero terrorizzata e nauseata dalla certezza che nella radura qualcosa di orribile fosse accaduto. Aprii la bocca per chiedere a Edward di portarmici, subito. Avevano bisogno di lui, avevano bisogno di me. Se dovevo dare il sangue per salvarli, l'avrei fatto. Sarei stata disposta a morire, come la terza moglie. Non avevo pugnali d'argento, ma avrei trovato il modo...
Prima che potessi pronunciare la prima sillaba, mi sentii come sbalzata per aria. Ma le mani di Edward non mollarono la presa: mi stava soltanto spostando, così in fretta da darmi la sensazione di cadere in diagonale.
Mi ritrovai con la schiena premuta contro la facciata ruvida dello spun-tone di roccia. Edward era di fronte a me, in una posizione che riconobbi subito.
I miei pensieri si riempirono di sollievo nello stesso momento in cui sen-tii lo stomaco sprofondare sotto i piedi.
Avevo frainteso.
Sollievo: nulla era andato storto nella radura.
Orrore: il punto critico era vicino.
Edward manteneva la posizione di difesa - mezzo rannicchiato, le braccia semidistese - che riconobbi con certezza insopportabile. Come se al posto della roccia alle mie spalle ci fossero le antiche mura di mattoni del vicolo italiano in cui mi aveva protetto dai guerrieri dei Volturi con le mantelle nere.
Qualcosa ci stava raggiungendo.
«Chi?», sussurrai.
Le parole uscirono dai suoi denti con un ringhio più intenso di quanto mi aspettassi. Troppo intenso. Significava che era davvero troppo tardi per na-sconderci. Eravamo in trappola, poco importava che qualcuno lo udisse.
«Victoria», disse sputando la parola, trasformandola in un insulto. «Non è sola. Ha incrociato la mia scia, segue i neonati per assistere: non intende combattere assieme a loro. D'un tratto ha preso la decisione di cercarmi, sicura di trovare anche te. E ha indovinato. Avevi ragione. È sempre Victo-ria».
Gli era vicino abbastanza da udirne i pensieri.
Di nuovo il sollievo. Se fossero stati i Volturi, ci avrebbero uccisi en-trambi. Ma Victoria avrebbe risparmiato solo uno di noi. Edward poteva sopravvivere. Era un bravo combattente, bravo quanto Jasper. Se la com-pagnia in arrivo non era numerosa, avrebbe potuto lottare per fuggire e tornare dalla sua famiglia. Edward era il più veloce di tutti. Poteva farcela.
Ero davvero lieta che avesse mandato via Seth. Certo, non c'era nessuno a cui potesse chiedere aiuto. Victoria aveva scelto alla perfezione il momento in cui agire. Se non altro, Seth era al sicuro. Quando pensavo il suo nome, non riuscivo a immaginare il grosso lupo a pelo chiaro ma soltanto il goffo quindicenne.
Il corpo di Edward scattò con un movimento quasi impercettibile, che mi fece capire dove guardare. Fissai le ombre nere della foresta.
Fu come vedere i miei incubi che mi venivano incontro per salutarmi.
Due vampiri affiorarono lenti nella piccola radura in cui ci eravamo ac-campati, occhi scrutatori a cui non sfuggiva nulla. Scintillavano come diamanti sotto il sole.
Riuscivo a malapena a fissare il ragazzo biondo - sì, era soltanto un ra-gazzo, malgrado la muscolatura e l'altezza, forse aveva subito la trasfor-mazione alla mia età. I suoi occhi però, di un rosso più acceso di quanto avessi mai visto, non erano in grado di catturare i miei. Benché fosse il più vicino a Edward, il pericolo più immediato, non riuscivo a preoccuparme-ne.
Perché al suo fianco, a distanza di qualche metro da lui, Victoria mi fis-sava.
I suoi capelli rosso arancio erano più accesi di quanto ricordassi, somi-gliavano a vampe di fuoco. Non c'era vento, ma la fiamma che le incorni-ciava il viso sembrava ondeggiare delicatamente, come fosse viva.
I suoi occhi erano neri per la sete. Non sorrideva come faceva nei miei sogni: teneva le labbra in una linea dritta. C'era un che di felino e spiazzante nella posizione del suo corpo, come una leonessa in attesa di spiccare il balzo in uno spiraglio della vegetazione. Il suo sguardo inquieto e selvaggio saltava tra Edward e me, senza soffermarsi mai su di lui per più di mezzo secondo. Non riusciva a staccare gli occhi dal mio volto più a lungo di quanto io riuscissi a ignorare il suo.
Irradiava una tensione quasi visibile nell'aria. Sentivo il desiderio e la passione che la assediavano e consumavano. Quasi come se potessi leggere nella sua mente, sapevo cosa pensava.
Aveva quasi raggiunto ciò che desiderava: ciò che da oltre un anno a quella parte era il centro della sua esistenza era adesso vicinissimo.
La mia morte.
Il suo piano era tanto ovvio quanto efficace. Il ragazzone biondo avrebbe attaccato Edward. E, nel momento in cui lui sarebbe stato maggiormente distratto, Victoria mi avrebbe finita.
Ci avrebbe impiegato poco - non c'era tempo per giochetti - ma sarebbe arrivata in fondo. Mi avrebbe inflitto il tormento da cui era impossibile ri-prendersi. Qualcosa che nemmeno il veleno dei vampiri era capace di cura-re.
Doveva fermare il mio cuore. Magari infilandomi una mano nel petto e schiacciandolo. O qualcosa del genere.
E il mio cuore batteva furioso, rimbombando, quasi a suggerirle il ber-saglio.
A un'immensa distanza da noi, dall'altra parte della foresta, un ululato echeggiò nell'aria immobile. Seth ormai era lontano e non c'era modo di interpretarne il suono.
Il ragazzo biondo guardò Victoria con la coda dell'occhio, in attesa di un ordine.
Era giovane per tanti motivi. A giudicare dalle sue pupille luccicanti, non era vampiro da molto. Era forte, ma anche incapace. Edward sapeva senz'altro come contrastarlo. Edward sarebbe sopravvissuto.
Victoria indicò Edward e senza parlare ordinò al ragazzo di procedere.
«Riley», disse Edward in tono dolce e implorante.
Il biondo restò immobile e strabuzzò gli occhi.
«Ti sta mentendo, Riley», disse Edward. «Ascoltami. Ti sta mentendo come ha mentito agli altri che muoiono nella radura. Sai bene che ha men-tito loro, che ha costretto te a mentire loro, perché non ritornerete a soccor-rerli. È tanto difficile credere che abbia mentito anche a te?».
La confusione s'impossessò del volto di Riley.
Edward si spostò di lato, pochi centimetri, e Riley compensò automati-camente il movimento assecondandolo.
«Non ti ama, Riley». La voce morbida di Edward era seducente, quasi ipnotica. «Non ti ha mai amato. Il suo vero amore si chiama James, e tu non sei altro che uno strumento nelle sue mani».
Al nome di James, una smorfia scoprì il ghigno tra le labbra di Victoria. Non staccava gli occhi dai miei.
Il giovane vampiro lanciò uno sguardo disperato verso di lei.
«Ascoltami», disse Edward.
Riley si concentrò all'istante su di lui.
«Sa che ti ucciderò, Riley. Lei vuole che tu muoia, in modo da smetterla con questa commedia. Sì, te ne sei accorto, vero? Hai letto i dubbi nei suoi occhi, sospettato di quel tono falso nelle sue promesse. Non ti ha mai desi-derato. Ogni bacio, ogni carezza, era una bugia».
Edward si mosse di nuovo, qualche centimetro verso il ragazzo, qualche centimetro più lontano da me.
Victoria puntò lo sguardo verso lo spazio che ci separava. Le sarebbe bastato meno di un secondo per uccidermi... non appena avesse avuto il minimo margine di possibilità.
Più lentamente di prima, Riley cambiò posizione.
«Non devi morire per forza», promise Edward, gli occhi fissi in quelli del ragazzo. «Ci sono altri modi di vivere, oltre a quelli che ti ha mostrato lei. Non è soltanto bugie e sangue, Riley. Puoi andartene anche adesso. Non sei costretto a morire per le sue bugie».
I piedi di Edward scivolarono in avanti e di lato. Tra noi, a quel punto, c'era un metro. Riley esagerò la propria mossa di compensazione. Victoria si chinò in avanti, sulla punta dei piedi.
«Ultima possibilità, Riley», sussurrò Edward.
L'espressione di Riley era disperata, mentre guardava Victoria in cerca di risposte.
«Il bugiardo è lui, Riley», disse Victoria, e restai a bocca spalancata, scioccata dal suono della sua voce. «Ti ho già parlato dei loro trucchetti mentali. Io amo solo te, lo sai».
La sua voce non era il ruggito felino vigoroso e selvatico che avrei asso-ciato a quel volto e a quel portamento. Era delicata, stridula, un tintinnio infantile da soprano. Il genere di voce che di solito va a braccetto con ricci biondi e chewin-gum rosa. Era assurdo che uscisse dai suoi denti scoperti e scintillanti.
Riley serrò la mascella e tese le spalle. I suoi occhi si svuotarono della confusione e del sospetto. Di tutti i pensieri. Raccolto, si preparò ad attac-care.
Il corpo di Victoria sembrava tremare dalla tensione. Le sue dita erano già artigli, in attesa che Edward si allontanasse di un solo centimetro da me.
Il ringhio non giunse da nessuno di loro. Una sagoma scura e immensa volò al centro dello spiazzo e gettò Riley a terra.
«No!», strillò Victoria, la sua voce infantile lacerante e incredula.
A un metro e mezzo da me, un lupo enorme faceva a brandelli il vampiro biondo. Qualcosa di bianco e duro rimbalzò sulla roccia ai miei piedi. Me ne allontanai, disgustata.
Victoria non degnò di uno sguardo il ragazzo al quale aveva appena di-chiarato il proprio amore. I suoi occhi erano sempre su di me, pieni di un malessere così feroce da farla sembrare in preda alla confusione.
«No», ripeté, a denti stretti, mentre Edward le si avvicinava, sbarrandole la strada.
Riley si era rialzato, sembrava curvo e scoordinato, ma a sorpresa riuscì a mollare un calcio contro la spalla di Seth. Sentii l'osso spezzarsi. Seth si ritrasse e iniziò a camminare in circolo, zoppicante. Riley aveva allungato le braccia, pronto, malgrado l'apparente perdita di un pezzo di mano...
A pochi metri da quel combattimento, Edward e Victoria danzavano.
Non proprio in tondo, perché Edward non voleva concederle di avvici-narsi ulteriormente a me. Lei si muoveva sinuosa all'indietro, da un lato all'altro, in cerca di un varco nella difesa dell'avversario. Lui ne seguiva i passi come un'ombra flessuosa e la assecondava con concentrazione per-fetta. Iniziò a muoversi una frazione di secondo prima di lei, leggendone le intenzioni e i pensieri.
Seth portò un affondo sul fianco di Riley e qualcosa si strappò, con uno stridio terribile. Un altro brandello bianco e pesante volò a schiantarsi nella foresta. Riley ruggì furioso e Seth, incredibilmente leggero sulle zampe, malgrado le dimensioni, slittò indietro quando il vampiro cercò di colpirlo con un fendente della mano mutilata.
A quel punto Victoria si era nascosta dietro i tronchi, all'estremità del piccolo spiazzo. Era tormentata, i piedi la spingevano verso la ritirata, al sicuro, mentre gli occhi mi puntavano come fossi una calamita. La sua guerra interiore tra desiderio di uccidere e istinto di sopravvivenza era evi-dente persino a me.
Anche Edward se n'era accorto.
«Non andartene, Victoria», mormorò con lo stesso tono ipnotico di pri-ma. «Un'altra possibilità come questa non tornerà».
Lei gli mostrò i denti con un sibilo, incapace all'apparenza di allontanarsi da me.
«Poi potrai correre», la vezzeggiò Edward. «Avrai un sacco di tempo. È ciò che ti riesce meglio, no? È il motivo per cui James ti teneva con sé. Serve, quando si ha voglia di giocare a uccidere. Una compagna dotata di uno strabiliante istinto per la fuga. Ha sbagliato a lasciarti: le tue doti a-vrebbero potuto tornargli utili quando lo abbiamo rintracciato a Phoenix».
Dalle labbra di lei uscì immediato un ringhio.
«Tuttavia, per lui non sei mai stata nient'altro. Che sciocchezza, sprecare tante energie per vendicare uno che a te era meno affezionato di un cavaliere alla sua cavalcatura. Sei sempre stata poco più che una comodità, per lui. E io lo so».
Un margine delle labbra di Edward si alzò, mentre si picchiettava sulla tempia.
Con uno squittio soffocato, Victoria sfrecciò di nuovo fuori dalla vege-tazione e fintò un attacco al fianco. Edward rispose e la danza ricominciò.
In quel momento, il pugno di Riley colpì Seth all'anca e dalla gola del lupo uscì un guaito smorzato. Seth si mise sulla difensiva, nelle spalle un fremito come se cercasse di scrollarsi via il dolore.
Ti prego, avrei voluto implorare Riley, ma non trovavo i muscoli neces-sari ad aprire bocca, a cacciare aria dai polmoni. Ti prego, è soltanto un bambino!
Perché Seth non era fuggito? Perché non fuggiva?
Riley stava per azzerare la distanza dal suo avversario, costringendo Seth a dirigersi verso la parete rocciosa al mio fianco. Victoria, improvvisamente, s'interessò alla sorte del suo compagno. Con la coda dell'occhio, riuscivo a vederla mentre calcolava la distanza tra Riley e me. Ma Seth morse Riley, lo costrinse ad arretrare e Victoria emise un sibilo.
Seth non zoppicava più. La sua danza l'aveva portato a pochi centimetri da Edward e con la coda gli sfiorava la schiena, sotto lo sguardo stupefatto di Victoria.
«No, non mi si rivolterà contro», disse Edward, in risposta alla domanda pensata dalla vampira. Sfruttò il momento di distrazione per avvicinarsi. «Grazie a te abbiamo un nemico comune. Ci hai fatti alleare».
Lei serrò i denti, cercando di prestare attenzione soltanto a Edward.
«Guarda meglio, Victoria», mormorò, nel tentativo di sfilacciare i lembi della sua concentrazione. «Somiglia davvero tanto al mostro che James ha seguito attraverso la Siberia?».
Gli occhi le uscirono dalle orbite e iniziarono a scattare rapidi da Edward a Seth a me, senza fermarsi. «Non è lo stesso?», ringhiò con la sua infantile vocetta da soprano. «Impossibile!».
«Niente è impossibile», mormorò Edward, la voce morbida come il vel-luto mentre le si avvicinava di un altro centimetro, «eccetto ciò che desideri. Non riuscirai mai a toccarla».
Lei scosse la testa, veloce, tremante, per opporsi alle distrazioni, e cercò di schivarlo di lato, ma lui riuscì a spostarsi e bloccarla prima che finisse di pensare alla mossa. L'espressione di Victoria si piegò in una smorfia di frustrazione, poi la vampira tornò a rannicchiarsi, di nuovo come una leo-nessa, e a lunghi passi si fece avanti.
Victoria era tutt'altro che una neonata senza esperienza guidata dall'istin-to. Era letale. Persino a me risultava chiara la differenza tra lei e Riley, e sapevo che Seth non avrebbe resistito a lungo se avesse dovuto scontrarsi con quella vampira.
Anche Edward si spostò, i due si avvicinarono, e fu puma contro leones-sa.
Il ritmo della danza crebbe.
Era come con Alice e Jasper nella radura, un vortice sfocato, ma la core-ografia di questa danza non era perfetta. La parete rocciosa rifletteva l'eco degli scatti e dei rumori secchi di chi non prendeva la posizione difensiva giusta. Ma si muovevano troppo veloci, non capivo chi commettesse erro-ri...
Riley si lasciò distrarre dal balletto violento, ansioso per la sua compa-gna. Seth colpì e con un morso strappò un altro piccolo brandello al vam-piro. Riley lanciò un urlo gutturale e rispose con un potente manrovescio che colpì Seth proprio al centro del petto ampio. Il corpo massiccio del lupo volò alto tre metri e si schiantò contro il muro roccioso sopra la mia testa, con una potenza che parve scuotere la montagna intera. Sentii lo sbuffo d'aria dai suoi polmoni e mi abbassai per non scontrarmi con lui, mentre rimbalzava sulla pietra e crollava a terra, a poche decine di centimetri da me.
Dai suoi denti uscì un guaito cupo.
Frammenti aguzzi di pietra grigia mi piovvero sulla testa e mi graffiarono. Accanto al mio braccio destro rotolò una punta di roccia affilata e il mio primo istinto fu di afferrarla. Le mie dita strinsero la scheggia, mentre l'istinto di sopravvivenza s'impadroniva di me. Dal momento che non c'era nessuna via di fuga, il mio corpo - senza badare all'inutilità di un gesto si-mile - si preparò a combattere.
L'adrenalina m'inondò le vene. Sapevo che il cerotto mi tagliava in due il palmo della mano. Sapevo che la frattura nella nocca protestava. Lo sapevo, ma non sentivo dolore.
Dietro Riley riuscivo a scorgere soltanto la fiamma inquieta dei capelli di Victoria e una nuvola bianca. I morsi e i colpi metallici sempre più fre-quenti, il respiro affannoso e i sibili di sorpresa chiarivano che la danza si stava rivelando mortale per qualcuno.
Ma per chi?
Riley si trascinò verso di me, gli occhi rossi accesi per la furia. Fulminò con lo sguardo la montagna inerte di pelo biondiccio tra me e lui e le sue mani spezzate e deformate si piegarono in uncini. Aprì la bocca, la spalancò, con i denti che scintillavano, mentre si preparava a tagliare la gola a Seth.
Una seconda ondata di adrenalina mi colpì come una scossa elettrica e all'istante tutto fu chiarissimo.
I due combattimenti erano troppo serrati. Seth stava per perdere e non avevo idea della sorte di Edward. Avevano bisogno d'aiuto. Di un diversi-vo. Di qualcosa che concedesse loro un vantaggio.
Con la mano strinsi la punta di roccia, così forte da strappare un brandel-lo di fasciatura.
Ero abbastanza forte? Ero abbastanza coraggiosa? Quanto a fondo sarei riuscita a infilzare la pietra nuda nella mia pelle? Avrei concesso a Seth i secondi necessari per rialzarsi? Sarebbe guarito in tempo per sfruttare il mio sacrificio?
Inclinai la punta della pietra contro il braccio, sollevai la manica del ma-glione per scoprire la pelle e premetti l'aculeo affilato contro la piega dell'avambraccio. Avevo già una cicatrice lunga proprio lì, dal giorno del mio compleanno. Quella sera avevo perso abbastanza sangue da attirare l'attenzione di tutti i vampiri, da lasciarli impietriti per un istante. Pregai che funzionasse ancora così. Mi feci coraggio e respirai a fondo.
Victoria si lasciò distrarre dal mio rantolo. I suoi occhi, immobili per una minuscola frazione di secondo, incontrarono i miei. Collera e curiosità erano una strana mescolanza nella sua espressione.
Mi meravigliai di cogliere quel rumore lieve nella baraonda di suoni che riecheggiava sulla parete d'acciaio e mi martellava la testa dall'interno. Il battito del mio cuore, da solo, bastava a soffocarlo. Eppure, nel mezzo se-condo in cui guardai Victoria negli occhi, mi parve di sentire un sospiro, familiare ed esasperato.
In quello stesso breve istante la danza s'interruppe bruscamente. Poi tutto accadde in fretta, senza che potessi riordinare la sequenza degli eventi. Cercai di ricostruirla mentalmente.
Victoria era sfuggita al duetto nebuloso e si era scontrata con un abete alto, a circa metà dell'altezza del tronco. Quando ricadde a terra era già pronta a scattare.
Simultaneamente, Edward - invisibile, tanto era veloce - si era voltato all'indietro afferrando Riley per un braccio. A quanto sembrava, Edward aveva bloccato la schiena dell'avversario con un piede, e tirato...
Il piccolo accampamento si riempì dello strillo lancinante di dolore di Riley.
In quel momento, Seth scattò in piedi e coprì quasi tutta la mia visuale.
Ma vedevo ancora Victoria. E malgrado l'aspetto vagamente deforme della vampira, come se non fosse capace di raddrizzarsi completamente, il sorriso che aveva popolato i miei sogni era ben visibile sul suo volto sel-vaggio.
Si raggomitolò e fece un balzo.
Qualcosa di piccolo e bianco fischiò in volo e si scontrò con lei a mezz'aria. L'impatto somigliò a un'esplosione e li gettò entrambi contro un altro albero, spezzandolo in due. Lei atterrò di nuovo in piedi, rannicchiata e pronta, ma anche Edward era tornato in posizione. Il mio cuore si riempì di sollievo quando lo vidi eretto e salvo.
Victoria scalciò via qualcosa con il piede nudo: il missile che aveva in-terrotto il suo attacco. Rotolò verso di me e capii cos'era.
Mi si rivoltò lo stomaco.
Le dita erano ancora tese; stringendo i fili d'erba, il braccio di Riley iniziò a strisciare, cieco, sulla terra.
Seth si era lanciato di nuovo su Riley, che a quel punto batteva in ritirata. Arretrava di fronte all'avanzata del licantropo, il volto paralizzato dal dolore. Alzò un braccio per difendersi.
Seth lo incalzò e il vampiro perse del tutto l'equilibrio. Vidi Seth affon-dare i denti nella spalla di Riley e tirare, saltando all'indietro.
Con un rumore metallico e assordante, Riley perse anche l'altro braccio.
Seth scosse la testa e lo gettò nel bosco. Il rumore sibilante e spezzato che uscì dai denti del lupo sembrava una risatina.
Riley implorò, stridulo e straziato: «Victoria!».
Victoria non batté ciglio. Non degnò di uno sguardo il proprio compa-gno.
Seth si lanciò in avanti con la forza di una palla d'acciaio. L'impatto lo scagliò assieme a Riley nel bosco, da dove il suono metallico giunse as-sieme alle urla di Riley. Urla che cessarono all'improvviso, mentre il rumore di roccia sbriciolata continuava.
Benché non avesse riservato nemmeno un'occhiata a Riley, Victoria parve rendersi conto di essere rimasta sola. Iniziò ad arretrare di fronte a Edward, gli occhi assaliti da delusione e frenesia. Mi lanciò un ultimo sguardo bramoso, breve e tormentato, e fece per fuggire più svelta.
«No», disse Edward, melodioso e seducente. «Resta ancora un po'».
Lei schizzò via e fuggì a ripararsi nella foresta come una freccia scagliata da un arco.
Ma Edward fu più veloce di un proiettile.
La colpì alle spalle, al margine degli alberi, e con un ultimo e semplice passo la danza terminò.
La bocca di Edward le passò sul collo, leggiadra come una carezza. Il chiasso stridulo dell'impresa di Seth copriva ogni altro rumore, perciò non c'era altro suono a sottolineare la violenza di quell'immagine. Sembrava quasi la stesse baciando.
Eppure, il groviglio di capelli infuocati non era più attaccato al resto del corpo. Le onde inquiete d'arancio caddero a terra e rimbalzarono una volta, prima di rotolare verso gli alberi.

25
Specchio

Mi costrinsi a puntare altrove lo sguardo, impietrito dallo stupore, per non esaminare troppo attentamente l'oggetto ovale avvolto in tentacoli di capelli tremanti e infuocati.
Edward si era rimesso in moto. Svelto, freddo e assorto, smembrò il cor-po decapitato.
Non riuscivo ad avvicinarmi, non riuscivo a muovere i piedi pesanti co-me piombo. Ma vagliavo con attenzione ogni suo gesto in cerca del segno di una ferita. Il mio cuore rallentò a un ritmo più salubre quando scoprii che non ne aveva. Era leggiadro e aggraziato come sempre. Non aveva neanche sgualcito i vestiti.
Non mi guardava - ero immobile contro il muro di pietra, in preda alla nausea - mentre con scrupolo impilava le membra tremanti e nervose e le copriva di aghi di pino secchi. Non incrociò i miei occhi nemmeno quando scattò verso la foresta in cerca di Seth.
Non feci in tempo a riprendermi prima che tornasse, con Seth al suo fianco e i resti di Riley tra le braccia. Seth ne trasportava un grosso bran-dello - il busto - in bocca. Aggiunsero il carico alla pila ed Edward sfilò da una tasca un oggetto argenteo. Aprì l'accendino a benzina e avvicinò la fiamma alla legna secca. Si accese all'istante e lunghe lingue arancioni si srotolarono rapide sulla pira.
«Prendi tutti i pezzi», disse sottovoce Edward a Seth.
Insieme, il vampiro e il licantropo rastrellarono l'accampamento, gettando di tanto in tanto brandelli di pietra bianca tra le fiamme. Seth maneggiava i pezzi con i denti. Il mio cervello non funzionava ancora abbastanza bene da capire perché non si fosse ritrasformato in qualcosa dotato di mani.
Edward non si distoglieva dalla sua missione.
Finalmente completarono l'opera, mentre il fuoco scatenato soffiava ver-so il cielo una colonna purpurea e soffocante. Il fumo si avvolgeva lento e denso, quasi più solido della norma; odorava di incenso, un aroma inquie-tante. Era pesante, troppo forte.
Seth ripeté quel suono ridacchiante, dal profondo del petto.
Un sorriso spuntò sul volto teso di Edward.
Edward allungò un braccio, stringendo il pugno. Seth sorrise, mostrando la lunga fila di denti aguzzi, e sfregò il naso contro la mano di Edward.
«Bel lavoro di squadra», mormorò Edward.
Seth tossì una risata.
Poi Edward riprese fiato e si voltò lento verso di me.
Non capivo la sua espressione. I suoi occhi erano attenti, come fossi un altro nemico... Più che attenti, erano impauriti. Eppure non aveva mostrato alcun timore nell'affrontare Victoria e Riley. La mia mente era sorpresa, indecisa e inerte come il mio corpo. Lo fissavo sconvolta.
«Bella, amore», disse con il massimo della soavità, camminandomi in-contro con lentezza esagerata, le mani alzate, il palmo rivolto a me. Scon-volta com'ero, mi ricordò la strana immagine di un sospetto che si avvicina al poliziotto per dimostrare di non essere armato...
«Bella, lasceresti andare la pietra, per favore? Piano. Senza farti male».
Avevo completamente dimenticato la mia arma rozza, benché mi fossi resa conto solo in quell'istante di stringerla così forte da scatenare le urla di protesta della mano. Si era rotta di nuovo? Questa volta Carlisle mi avrebbe costretta a portare il gesso.
Edward restò immobile a poca distanza da me, le mani sempre sollevate, lo sguardo ancora impaurito.
Mi occorsero alcuni secondi interminabili per ricordare come si muove-vano le dita. Poi la pietra cadde rumorosa a terra, mentre la mano restava immobile senza cambiare posizione.
Edward si rilassò un poco quando mi vide a mani vuote, ma non osò av-vicinarsi. «Non avere paura, Bella», mormorò. «Sei salva. Non ti farò del male».
Quella promessa mi disorientò e non fece che confondermi ulteriormente. Restai a guardarlo come un'imbecille, sforzandomi di capire.
«Andrà tutto bene, Bella. So che adesso hai paura, ma è finita. Nessuno ti farà del male. Non ti sfiorerò nemmeno. Non ti farò del male», ribadì.
Sbattei gli occhi, furiosa, e ritrovai la voce. «Perché continui a ripeter-lo?».
Gli andai incontro con un passo malfermo e lui arretrò.
«Cosa c'è che non va?», sussurrai. «Cosa vuol dire?».
«Non hai...». Il suo sguardo dorato mi apparve all'istante confuso quanto il mio. «Non hai paura di me?».
«Paura di te? Perché?».
Barcollai in avanti di un altro passo, poi inciampai in qualcosa... proba-bilmente nei miei piedi. Edward mi afferrò, affondai il viso nel suo petto e scoppiai a singhiozzare.
«Bella, Bella, scusami. È finita, è finita».
«Sto bene», rantolai. «Tutto okay. Sono soltanto. Un po' fuori. Lasciami. Un minuto».
Strinse le sue braccia attorno a me. «Scusa, davvero», mormorava senza sosta.
Restai stretta a lui finché non mi mancò il respiro e mi ritrovai a baciargli il petto, le spalle, il collo... ogni parte di lui che riuscivo a raggiungere. Lentamente, il mio cervello ricominciò a funzionare.
«Tutto okay?», domandai tra un bacio e l'altro. «Ti ha fatto del male?».
«Mai stato meglio», dichiarò e immerse il viso nei miei capelli.
«Seth?».
Edward ridacchiò. «Più che bene. Anzi, pare molto soddisfatto di sé».
«Gli altri? Alice? Esme? I lupi?».
«Tutti bene. Anche giù è finito tutto. È andata liscia come ti avevo pro-messo. Il peggio è stato qui».
Per un istante lasciai che l'idea mi entrasse bene in testa e si depositasse con calma.
La mia famiglia e i miei amici erano salvi. Victoria non sarebbe mai più tornata a cercarmi. Era tutto finito.
Ogni cosa sarebbe andata per il meglio.
Eppure non riuscivo a prendere in considerazione le buone notizie, con-fusa com'ero.
«Dimmi perché», insistetti. «Perché pensavi che avessi paura di te?».
«Scusa», disse per l'ennesima volta. Scusa di che? Non ne avevo idea. «Scusa davvero. Non volevo che vedessi. Che mi vedessi così. Ero certo di averti terrorizzata».
Fui costretta a pensare per un altro minuto alla posa incerta con cui mi si era avvicinato, a mani alzate. Come se fossi pronta a correre in caso di movimenti bruschi...
«Sul serio?», domandai, infine. «Tu... cosa? Pensavi di avermi spaventa-ta?». Sbuffai. Sbuffare andava bene: la voce non tremava né si spezzava. Sembrava una reazione davvero disinvolta e decisa.
Con una mano sotto il mio mento, mi alzò la testa per leggere la mia e-spressione.
«Bella, io ho appena...». S'interruppe, poi si costrinse a pronunciare il resto delle parole. «Ho appena decapitato e smembrato una creatura sen-ziente, a meno di venti metri da te. Non ti senti toccata?».
Mi guardò di sottecchi.
Alzai le spalle. Anche le spallucce andavano bene. Molto blasé. «Non proprio. Avevo paura che tu e Seth vi faceste male. Avrei voluto aiutarvi, ma non potevo fare granché...».
La sua espressione improvvisamente livida mi fece smarrire la voce.
«Sì», replicò secco. «Il tuo numero con il sasso, complimenti. Sai che mi hai quasi fatto venire un infarto? E non è facile riuscirci, te lo garantisco».
Il suo sguardo infuriato e torvo scoraggiò la mia risposta.
«Volevo aiutarvi... Seth era ferito...».
«Seth stava soltanto fingendo, Bella. Era un trucco. E poi tu...». Scosse la testa, incapace di terminare la frase. «Seth non riusciva a vedere cosa stessi facendo. Perciò ho dovuto intervernire. Seth adesso è un po' deluso perché non può prendersi tutto il merito della vittoria».
«Seth stava... fingendo?».
Annuì deciso.
«Ah».
Guardammo entrambi Seth, che faceva di tutto per ignorarci, e fissava le fiamme. Irradiava compiacimento da ogni singolo pelo.
«Be', non lo sapevo», dissi e tornai all'attacco. «Non è facile essere l'unica persona inerme. Aspetta che diventi una vampira! La prossima volta non me ne starò ai margini».
Una dozzina di emozioni attraversò il suo viso, prima di stabilizzarsi su un'espressione divertita. «La prossima volta? Pensi che presto scoppierà un'altra guerra?».
«Con la fortuna che ho, chi lo sa?».
Alzò gli occhi al cielo, ma ormai stava volando. Il sollievo ci aveva fi-nalmente alleggeriti. Era finita.
...O no?
«Aspetta. Prima hai mica parlato di...». Trasalii, e ricordai esattamente cos'era accaduto: come mi sarei chiarita con Jacob? Dal mio cuore spezzato nascevano battiti di dolore e tortura. Difficile crederci, quasi impossibile, ma la parte più difficile della giornata non era ancora trascorsa. A quel punto mi feci forza e ripresi: «...di una complicazione? E di Alice, che do-veva fissare una scaletta per Sam. Hai detto che sarebbe stato difficile. Cosa sarebbe stato difficile?».
Con gli occhi Edward corse a Seth e i due si scambiarono uno sguardo.
«Be'?», chiesi.
«Non è niente, davvero», rispose subito Edward. «Però dobbiamo torna-re...».
Fece per prendermi in spalla, ma m'irrigidii e mi allontanai.
«Spiegami il significato di "niente"».
Edward mi prese il volto tra le mani. «Manca soltanto un minuto, perciò non andare nel panico, va bene? Ti ho già detto che non c'è motivo di avere paura. Vuoi fidarti, per piacere?».
Annuii cercando di nascondere il terrore improvviso: quanto potevo trat-tenerne ancora, prima di crollare?
«Non c'è motivo di avere paura. Capito».
Increspò le labbra per un istante, senza sapere cosa rispondere. Poi lanciò un'occhiata a Seth, come se lui lo avesse chiamato.
«Cosa sta facendo?», domandò Edward.
Seth emise un mugolio ansioso, irrequieto. Mi fece rizzare i peli sulla nuca.
Per un secondo senza fine tutto fu muto come una tomba.
Poi Edward esclamò: «No!», e con una mano afferrò di scatto qualcosa di invisibile. «Non farlo!».
Uno spasmo scosse il corpo di Seth e dai suoi polmoni irruppe un ululato straziante, pieno di dolore.
In quello stesso momento Edward cadde in ginocchio, la testa stretta tra le mani, il volto corrugato in un'espressione di dolore.
Lanciai un urlo, sorpresa e terrorizzata, e m'inginocchiai accanto a lui. Feci il tentativo, stupido, di levargli le mani dal volto; le mie, viscide di sudore, scivolavano sulla sua pelle di marmo.
«Edward! Edward!».
I suoi occhi puntarono su di me; con uno sforzo palese rilassò i denti ser-rati.
«Tutto a posto. Andrà tutto bene. È tutto...». S'interruppe ed ebbe un al-tro fremito.
«Che succede?», urlai, mentre Seth ululava disperato.
«Va tutto bene. Andrà tutto per il meglio», sbottò Edward. «Sam... aiuta-lo!».
E in quell'istante, quando pronunciò il nome di Sam, capii che non par-lava di se stesso o di Seth. Non c'era nessuna forza invisibile in procinto di attaccarli. Stavolta il punto critico era altrove.
Parlava al plurale, il plurale del branco.
Ormai avevo bruciato tutta l'adrenalina. La riserva del mio corpo era e-saurita. Mi sbilanciai, ma Edward mi afferrò prima che mi schiantassi sulle pietre. Scattò in piedi stringendomi tra le braccia.
«Seth!», gridò.
Seth era rannicchiato, sempre teso e agonizzante, quasi pronto a lanciarsi nella foresta.
«No!», ordinò Edward. «Tu vai dritto a casa. Subito. Più veloce che puoi!».
Seth emise un guaito e scosse la grossa testa.
«Seth, fidati!».
L'enorme lupo guardò negli occhi Edward per un lungo istante, e subito si drizzò e volò tra gli alberi, scomparendo come un fantasma.
Edward mi cullava stretta a sé e subito ci lanciammo anche noi in corsa nella foresta, lungo un sentiero diverso da quello del lupo.
«Edward». Mi sforzai di far uscire le parole dalla gola strozzata. «Cos'è successo, Edward? Cos'è successo a Sam? Dove stiamo andando?».
«Dobbiamo tornare alla radura», rispose a voce bassa. «Sapevamo che le probabilità che andasse così erano alte. Già stamattina presto, Alice ha visto tutto e ha informato Seth, attraverso Sam. I Volturi hanno deciso che è il momento di mediare».
I Volturi.
Era troppo. La mia mente rifiutò di dare un senso a quella parola e finse di non capire.
Gli alberi ci sfrecciavano accanto. Edward correva in discesa così veloce che sembrava precipitare, perdere del tutto il controllo.
«Non spaventarti. Non stanno venendo a prendere noi. È il solito contin-gente di guardie per ripulire casini come questo. Niente di grave, fanno soltanto il loro dovere. Certo, sembra che abbiano programmato l'intervento con un certo tempismo. Il che mi porta a credere che nessuno in Italia si sarebbe disperato se i neonati fossero davvero riusciti a ridurre le dimen-sioni della famiglia Cullen». Parlava a denti stretti, in tono secco e cupo. «Appena raggiungeranno la radura scoprirò cosa si aspettavano».
«Per questo stiamo tornando?», sussurrai. Sarei riuscita a reggere la si-tuazione? La mia mente si riempì di immagini di tonache nere striscianti, da cui cercavo di proteggermi. Ero vicina al punto di rottura.
«In parte sì. Più che altro, la mossa sicura in questo momento è presen-tarci come un fronte unito. Non hanno alcun motivo di crearci problemi, ma... con loro c'è Jane. Se si convince che noi due eravamo soli, lontani dagli altri, potrebbe sentirsi tentata. Come Victoria, potrebbe intuire che io e te stiamo assieme. Ovviamente, con lei c'è Demetri. E se Jane glielo chiedesse, saprebbe trovarmi».
Mi rifiutavo di ripensare a quel nome. Non volevo che tra i miei pensieri comparisse quel volto fanciullesco, di una bellezza accecante.
Dalla mia gola uscì un rumore strano.
«Sssh, Bella, sssh. Andrà tutto bene. Alice lo ha già visto».
Alice lo aveva visto? Ma... dov'erano i lupi?
«E il branco dov'è?».
«Hanno dovuto andarsene immediatamente. I Volturi non rispettano la tregua con i licantropi».
Sentivo il mio respiro accelerare, ma non riuscivo a controllarlo. Iniziai ad ansimare.
«Ti giuro che andrà tutto bene», promise Edward. «I Volturi non ricono-sceranno l'odore, non capiranno che qui ci sono i lupi. Non hanno familia-rità con questa specie. Il branco è al sicuro».
Non fui in grado di elaborare quel chiarimento. La paura aveva fatto a brandelli la mia concentrazione. Andrà tutto bene, aveva detto... ma Seth ululava di dolore... Edward aveva evitato la mia prima domanda, distraen-domi con i Volturi.
Stavo per crollare e mi aggrappavo soltanto con la punta delle dita. Gli alberi erano una nuvola sfocata che correva attorno a lui come una cascata di giada.
«Cos'è successo?», sussurrai di nuovo. «Prima. Quando Seth ululava. Quando anche tu hai sofferto».
Edward restò in silenzio.
«Edward! Dimmelo!».
«Era finita», sussurrò. Lo sentivo appena, tra il rumore del vento creato dalla velocità. «I lupi non avevano contato i loro avversari... pensavano di averli finiti tutti. Ovviamente Alice non è riuscita a vedere...».
«Cos'è successo?».
«Uno dei neonati si è nascosto... Leah lo ha scoperto: è stata stupida, presuntuosa, chissà cosa cercava di dimostrare. Lo ha attaccato da sola...».
«Leah», ripetei, ma ero troppo debole per vergognarmi della sensazione di sollievo da cui mi sentii inondare. «Si riprenderà?».
«Leah non si è fatta niente», mormorò Edward.
Lo fissai per un istante interminabile.
Sam... aiutalo!, aveva esclamato Edward. Non "aiutala".
«Siamo quasi arrivati», disse fissando un punto preciso del cielo.
Automaticamente, i miei occhi seguirono i suoi. Un'ombra scura e pur-purea incombeva sopra gli alberi. Una nuvola? Strano, la giornata era stra-namente assolata... No, non era una nuvola. Riconobbi la colonna di fumo denso, uguale a quella del nostro accampamento.
«Edward», dissi con un filo di voce. «Edward, qualcuno si è fatto male».
Avevo sentito il dolore di Seth, visto l'espressione torturata sul volto di Edward.
«Sì», sussurrò.
«Chi?», domandai, ma ovviamente conoscevo già la risposta.
Certo che la conoscevo.
Gli alberi attorno a noi divennero più nitidi mentre arrivavamo a desti-nazione.
Gli occorse un istante interminabile per rispondere.
«Jacob», disse.
Riuscii a malapena ad annuire.
«Certo», sussurrai.
E a quel punto scivolai dal burrone a cui mi sentivo appesa.
Tutto diventò nero.

«Bella, piccola mia?». Era la voce delicata e rassicurante di Esme. «Mi senti? Adesso sei al sicuro, cara».
Certo, io ero al sicuro. Importava qualcosa?
Poi due labbra fredde mi sfiorarono l'orecchio ed Edward pronunciò le parole che mi permisero di sfuggire alla tortura che mi aveva imprigionata nella mia testa.
«Sopravviverà, Bella. Jacob Black sta guarendo. Si riprenderà».
Dolore e paura sparirono, e ritrovai la strada per il mio corpo. Sbattei le palpebre.
«Oh, Bella», sospirò Edward, sollevato, e le sue labbra sfiorarono le mie.
«Edward», sussurrai.
«Sì, sono qui».
Riuscii ad aprire gli occhi e fissai quell'oro caldo.
«Jacob sta bene?», domandai.
«Sì, davvero».
Scrutai i suoi occhi, attenta a cogliere un segno di cedimento, nel timore che cercasse soltanto di tranquillizzarmi, ma erano perfettamente limpidi.
«L'ho visitato io stesso», disse Carlisle in quel momento. Mi voltai e lo vidi a poca distanza da me. La sua espressione era seria e rassicurante. Era impossibile dubitarne. «Non è in pericolo di vita. Sta guarendo a velocità incredibile, ma purtroppo le ferite sono talmente estese che anche a questo ritmo impiegherà qualche giorno, prima di tornare del tutto sano. Dopo che avremo sbrigato le nostre faccende qui, farò il possibile per lui. Sam lo sta aiutando a riprendere la forma umana, così sarà più facile curarlo». Carlisle accennò un sorriso. «Non ho specializzazioni in veterinaria».
«Cosa gli è successo?», sussurrai. «Quanto sono gravi le ferite?».
Carlisle si rifece serio. «C'era un altro lupo in pericolo...».
«Leah», sussurrai.
«Sì. È riuscito a farla scansare, ma non ha avuto tempo di difendersi. Il neonato l'ha stretto in una morsa, con le braccia. Quasi tutte le ossa del lato destro del suo corpo sono rimaste sbriciolate».
Trasalii.
«Sam e Paul sono arrivati in tempo. Mentre lo portavano a La Push stava già meglio».
«Guarirà del tutto?», domandai.
«Sì, Bella. Non resteranno danni permanenti».
Feci un respiro profondo.
«Tre minuti», disse Alice tranquilla.
Mi sforzai di riprendere la posizione verticale. Edward se ne accorse e mi aiutò a rialzarmi.
Fissai la scena di fronte a me.
I Cullen formavano una specie di semicerchio attorno al falò. Non si ve-devano più fiamme, ma soltanto il fumo denso, nero e purpureo, che in-combeva come un flagello sull'erba illuminata. Jasper, il più vicino alla nuvola quasi solida, restava in quell'ombra e la sua pelle non scintillava come quella degli altri. Mi dava le spalle, la schiena era dritta, le braccia appena tese. Faceva ombra a qualcosa. Qualcosa su cui era chino, che con-templava con intensità inquietante...
Ero troppo annebbiata per provare più che una vaga sorpresa, quando capii di cosa si trattava.
Nella radura i vampiri erano otto.
La ragazza era raggomitolata accanto al fuoco, che si abbracciava le gambe. Era giovanissima. Più giovane di me. Dimostrava forse quindici anni ed era magra, con i capelli neri. Puntava lo sguardo dritto su di me, l'i-ride di un rosso brillante, straordinario. Molto più intenso di quello di Ri-ley, quasi una brace accesa. I suoi occhi roteavano senza sosta, fuori con-trollo.
Edward notò la mia espressione sbigottita.
«Si è arresa», mi disse tranquillo. «Non ho mai visto niente del genere. Solo uno come Carlisle avrebbe potuto pensare di offrirle questa possibili-tà. Jasper non è d'accordo».
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla scena accanto al fuoco. Jasper si sfregava l'avambraccio sinistro, con aria assente.
«Jasper sta bene?», sussurrai.
«Sì. È il veleno che pizzica».
«Lo hanno morso?», domandai, terrorizzata.
«Cercava di essere ovunque. Più che altro, si è preoccupato di alleggerire il lavoro di Alice», disse Edward e scosse la testa. «Ma Alice non ha bi-sogno dell'aiuto di nessuno».
Alice fece una smorfia al suo innamorato. «Sciocco iperprotettivo».
La giovane femmina gettò all'improvviso la testa all'indietro come un animale e lanciò uno strillo acuto.
Jasper le ruggì contro, lei si ritrasse, ma infilò le unghie nel terreno come artigli mentre la testa dondolava avanti e indietro, sofferente. Jasper fece un passo verso di lei e accentuò la posizione di attacco. Con una mossa fin troppo disinvolta Edward mi spostò in modo da mettersi tra me e la ragazza. Sbirciai da dietro il suo braccio per osservare Jasper e la giovane che scavava per terra.
All'istante Carlisle affiancò Jasper. Posò una mano sulla spalla dell'ultimo arrivato dei suoi figli, per tranquillizzarlo.
«Hai cambiato idea, giovane?», domandò Carlisle, calmo come sempre. «Non vogliamo distruggerti, ma se non riesci a controllarti saremo costretti a farlo».
«Come fate a sopportare?», ruggì la ragazza con voce alta e squillante. «La voglio». I suoi occhi color rubino misero a fuoco Edward e lo trapas-sarono per arrivare a me, mentre con le unghie perforava la terra dura.
«Devi sopportare», rispose Carlisle serio. «Devi imparare a mantenere il controllo. È possibile, ed è anche la tua unica via di scampo».
La ragazza si prese la testa tra le mani sporche di terra e mugolò piano.
«Non è meglio che ci allontaniamo?», sussurrai, stringendomi al braccio di Edward. Quando sentì la mia voce, la ragazza scoprì i denti, sul viso un'espressione tormentata.
«Dobbiamo restare qui», mormorò Edward. «Stanno arrivando, dal lato settentrionale della radura».
I battiti del mio cuore accelerarono all'improvviso, mentre osservavo il prato senza vedere altro che il manto di fumo denso.
Dopo un istante di ricerca inutile, il mio sguardo tornò di sottecchi a quello della giovane vampira. Non smetteva di cercarmi, un velo di pazzia nelle pupille.
Per un istante interminabile ne incrociai lo sguardo. Il suo viso era in-corniciato da capelli lunghi fino al mento, la pelle bianca come il marmo. Era difficile intuire se i lineamenti fossero belli o no, distorti com'erano dalla rabbia e dalla sete. A dominare erano gli occhi rossi, da animale sel-vatico. Difficile starne lontani. Mi guardava in cagnesco mentre i tremori la scuotevano a ondate che duravano pochi secondi.
Restai a fissarla, ipnotizzata, e mi chiesi se quello fosse uno specchio del mio futuro.
Poi Carlisle e Jasper arretrarono per unirsi al resto del gruppo. Emmett, Rosalie ed Esme si avvicinarono in fretta al punto in cui stavamo io, Alice ed Edward. Un fronte unito, come aveva detto Edward, con me al centro, nella posizione più protetta.
Distolsi l'attenzione dalla ragazza selvaggia e mi preparai all'arrivo dei mostri.
Ancora non si vedeva niente. Lanciai un'occhiata a Edward, ma i suoi occhi fissavano un punto davanti a lui. Cercai di seguirli, ma c'era soltanto il fumo denso e oleoso, che si curvava verso terra e risaliva pigro, ondu-lando sull'erba.
Fluttuava in avanti, più scuro al centro.
Una voce morta mormorò qualcosa nella nebbia. Riconobbi immediata-mente quel tono apatico.
«Benvenuta, Jane». Il tono di Edward era cortese e distaccato.
Le sagome scure si avvicinarono, si separarono dalla nebbia e divennero solide. Sapevo che a capeggiarle era Jane, con la mantella più scura, quasi nera, e la sagoma minuta, più bassa di quasi mezzo metro rispetto alle altre. Riconobbi appena i suoi lineamenti angelici all'ombra del cappuccio.
Anche le quattro sagome coperte di grigio che svettavano alle sue spalle avevano qualcosa di familiare. Ero certa di aver riconosciuto la più grossa e, mentre la fissavo cercando una conferma ai miei sospetti, Felix alzò lo sguardo. Lasciò cadere un poco il cappuccio, così da mostrarsi mentre mi faceva l'occhiolino e sorrideva.
Edward era immobile al mio fianco, perfettamente concentrato.
Lo sguardo di Jane passò lentamente in rassegna i volti luminosi dei Cullen, poi sfiorò la neonata accanto al fuoco; la ragazza si era stretta di nuovo la testa tra le mani.
«Non capisco». La voce di Jane era priva di inflessione, ma non disinte-ressata.
«Si è arresa», spiegò Edward, in risposta alla perplessità che le leggeva nella mente.
Jane rispose fulminandolo con lo sguardo. «Arresa?».
Felix e un'altra ombra si scambiarono un'occhiata fugace.
Edward si strinse nelle spalle. «Carlisle le ha dato una possibilità».
«Chi infrange le regole non merita possibilità», rispose Jane impassibile.
Fu Carlisle a parlare, gentile. «Sta a voi decidere. Ha rinunciato ad attac-carci, perciò non mi è sembrato il caso di eliminarla. Nessuno le ha mai in-segnato niente».
«Ciò è irrilevante», insistette Jane.
«Come credi».
Jane fissò Carlisle, costernata. Scosse la testa in maniera impercettibile, poi si ricompose.
«Aro sperava che ci spingessimo a occidente tanto da riuscire a vederti, Carlisle. Ti manda i suoi saluti».
Carlisle annuì. «Ti prego di portare i miei a lui».
«Certamente». Jane sorrise. Quando il suo viso si animava appariva fin troppo bella. Tornò a osservare il fuoco alle sue spalle. «A quanto pare ci avete risparmiato del lavoro, oggi... almeno la maggior parte». Lanciò un'occhiata fugace all'ostaggio. «Per curiosità statistica, sapete dirci quanti erano? Hanno seminato un bel po' di terrore, a Seattle».
«Diciotto, lei compresa», rispose Carlisle.
Jane strabuzzò gli occhi e guardò di nuovo il fuoco, forse nel tentativo di valutarne le dimensioni. Felix e l'altra ombra si lanciarono un nuovo sguardo, più lungo.
«Diciotto?», ripeté, la voce meno decisa di prima.
«Tutti neonati», aggiunse disinvolto Carlisle. «Tutt'altro che esperti».
«Tutti?». La voce di lei si fece più acuta. «E chi è stato a trasformarli?».
«Si chiamava Victoria», rispose Edward, senza mostrare alcuna emozio-ne.
«Chiamava?», domandò Jane.
Edward chinò la testa verso il margine orientale della foresta. Jane alzò lo sguardo di scatto e mise a fuoco qualcosa in lontananza. L'altra colonna di fumo? Non badai a controllare.
Guardò verso est a lungo, poi tornò a esaminare il falò più vicino.
«Questa Victoria... era in compagnia dei diciotto, qui?».
«Sì. Con lei ce n'era uno solo. Non era giovane come questa, ma penso avesse meno di un anno».
«Venti», sospirò Jane. «Chi si è occupato della creatrice?».
«Io», rispose Edward.
Jane affilò lo sguardo e si voltò verso la ragazza accanto al fuoco.
«Tu», disse, la voce morta più aspra di prima. «Dimmi come ti chiami».
La neonata lanciò a Jane uno sguardo minaccioso, le labbra ben strette.
Jane rispose con un sorriso angelico.
Lo strillo che provocò nella neonata fu assordante e il suo corpo s'inarcò, rigido, in una posizione distorta e innaturale. Distolsi lo sguardo, lottando contro l'istinto di coprirmi le orecchie. Serrai i denti nella speranza di con-trollare lo stomaco. Le urla si fecero più intense. Cercai di concentrarmi sul viso di Edward, teso e senza espressione, ma ciò mi fece ripensare a quando avevo visto lui in balia dello sguardo torturatore di Jane, e la mia nausea aumentò. Osservai Alice ed Esme. Le loro espressioni erano altrettanto vuote.
Infine, calò il silenzio.
«Dimmi come ti chiami», ripeté Jane, senza alcuna inflessione.
«Bree», tossì la ragazza.
Jane sorrise e gli strilli ripresero. Trattenni il respiro finché il suono di quel dolore straziante non cessò.
«Ti dirà tutto ciò che vuoi sapere», disse Edward a denti stretti. «Non è necessario trattarla così».
Jane alzò gli occhi e al posto del suo solito sguardo morto spiccava un improvviso buonumore. «Ah, lo so», rispose a Edward, e gli sorrise prima di tornare a Bree, la giovane vampira.
«Bree», disse Jane, la voce di nuovo fredda. «È vera questa storia? Era-vate in venti?».
La ragazza giaceva, il respiro pesante, la faccia a terra. Rispose in fretta. «Diciannove o venti, forse di più. Non lo so!». Si ritrasse, forse terrorizzata che la risposta vaga potesse scatenare un'altra ondata di tortura. «Sara e quella che non ci ha detto il suo nome hanno litigato, durante il tragitto...».
«E questa Victoria? È stata lei a trasformarti?».
«Non lo so», disse, ed ebbe un fremito. «Riley non me ne ha mai parlato. Quella notte non vidi niente... era così buio... e faceva male...». Bree tremò. «Voleva che fosse impossibile pensare a lei. Diceva che i nostri pensieri non erano al sicuro...».
Lo sguardo di Jane incrociò quello di Edward, poi tornò velocemente alla ragazza.
Victoria aveva pianificato tutto al meglio. Se non avesse seguito Edward, nessuno avrebbe potuto dare per scontato il suo coinvolgimento...
«Raccontami di Riley», disse Jane. «Perché vi ha condotti qui?».
«Riley ci ha detto che dovevamo distruggere gli strani occhi-gialli che abitano qui», balbettò Bree, svelta e sottomessa. «Ha detto che sarebbe stato facile. Ha detto che la città era loro, e prima o poi sarebbero venuti a ri-prenderla. Ha detto che dovevamo sbarazzarcene, così il sangue sarebbe stato tutto nostro. Ci ha fatto sentire il suo odore». Bree alzò una mano e con il dito mi indicò. «Ha detto che avremmo riconosciuto il clan perché lei stava con loro. Ha detto che il primo che la trovava avrebbe potuto averla per sé».
Al mio fianco, sentii la mascella di Edward serrarsi.
«A quanto parte Riley si è illuso che fosse davvero facile», commentò Jane.
Bree annuì, sembrava lieta che la conversazione avesse preso una piega meno dolorosa. Si sedette, misurando i propri gesti. «Non so cos'è successo. Ci siamo divisi in due gruppi, ma gli altri non ci hanno mai raggiunti. Poi Riley ci ha abbandonati, senza tornare ad aiutarci come aveva promesso. Poi c'è stata solo confusione, e tutti sono finiti a pezzi». Un altro fremito. «Avevo paura. Volevo scappare. Lui», guardò Carlisle, «ha detto che se avessi smesso di combattere non mi avrebbero fatto del male».
«Ah, ma non toccava a lui farti un dono del genere, ragazza», mormorò Jane, con voce stranamente gentile. «Chi infrange le regole merita il casti-go».
Bree restò a guardarla senza capire.
Jane si rivolse a Carlisle. «Siete sicuri di averli presi tutti? Anche l'altro gruppo?».
Carlisle annuì senza tradire emozioni. «Anche noi ci siamo divisi».
Jane accennò un sorriso. «Non posso negare di esserne colpita». Dalle grosse ombre alle sue spalle giunse un mormorio di approvazione. «Non ho mai visto nessuna famiglia uscire illesa da un'offensiva così potente. Sapete cos'è stato a scatenarla? Sembra un comportamento estremo, visto e considerato come vivete quaggiù. E perché la chiave di tutto era la ragaz-za?». I suoi occhi si soffermarono senza volerlo su di me per un istante fu-gace.
Sentii un brivido.
«Victoria aveva un conto in sospeso con Bella», rispose Edward, impas-sibile.
Jane rise e il suono era dorato, come quello di una bambina felice. «A quanto pare, questa ragazza scatena reazioni fortissime e bizzarre in noi», commentò sorridendomi con espressione beata.
Edward s'irrigidì. Lo vidi voltarsi e tornare a Jane.
«Non farlo, ti prego», disse, teso.
Jane scoppiò in un'altra risatina. «Stavo solo controllando. A quanto pa-re, non le ho torto un capello».
Rabbrividii, profondamente grata che lo strano difetto del mio corpo - lo stesso che mi aveva già protetta una volta da Jane - fosse ancora attivo. Edward mi abbracciò più forte.
«Be', a quanto pare non ci resta granché da fare. Strano», disse Jane, e nella sua voce tornò l'ombra dell'apatia. «Non capita spesso che la nostra presenza sia inutile. È proprio un peccato esserci persi il combattimento. A quanto pare sarebbe stato bello poter assistere».
«Sì», rispose secco Edward. «E dire che eravate vicini. Peccato che non siate arrivati mezz'ora prima. Magari sareste riusciti a compiere la vostra missione».
Lo sguardo fermo di Jane incrociò quello di Edward. «Sì. Davvero un peccato che sia andata così, eh?».
Edward annuì a se stesso. I suoi sospetti erano confermati.
Jane si voltò di nuovo verso la neonata Bree e le parlò con un'espressione totalmente annoiata. «Felix?», biascicò.
«Aspetta», la interruppe Edward.
Jane alzò un sopracciglio, ma a quel punto Edward guardava fisso Car-lisle e gli parlava in tono concitato. «Potremmo spiegare le regole alla gio-vane. Tutto sommato sembra desiderosa di imparare. Non sapeva cosa stesse facendo».
«Certo», rispose Carlisle. «Saremmo ben disposti a dichiararci respon-sabili di Bree».
L'espressione di Jane era combattuta, tra divertimento e incredulità.
«Noi non facciamo eccezioni», disse. «E non concediamo seconde pos-sibilità. Intacca la nostra reputazione. Il che mi ricorda...». All'istante i suoi occhi tornarono su di me e il suo viso da cherubino si accese. «A Caius farà molto piacere sapere che sei ancora umana, Bella. Magari deciderà di farvi visita».
«La data è decisa», disse Alice a Jane. «Può darsi che tra qualche mese saremo noi a farvi visita». Il sorriso scomparve e Jane alzò le spalle, indif-ferente, senza badare ad Alice. Si rivolse a Carlisle, invece. «È stato un piacere conoscerti, Carlisle. Pensavo che Aro avesse esagerato. Be', alla prossima...».
Carlisle annuì, con espressione tormentata.
«Occupatene tu, Felix», disse Jane, la voce traboccante di noia, e con un cenno indicò Bree. «Voglio andare a casa».
«Non guardare», mi bisbigliò Edward all'orecchio.
Non ci pensai due volte e seguii le istruzioni. Per quel giorno ne avevo viste abbastanza. Abbastanza per una vita intera e oltre. Serrai gli occhi e affondai il viso nel petto di Edward.
Ma non riuscii a non sentire.
Prima un ruggito profondo e roboante, poi un lamento stridulo terribil-mente familiare. Il lamento si spezzò in fretta, poi l'unico rumore furono strappi e lacerazioni nauseanti.
La mano di Edward accarezzava ansiosa le mie spalle.
«Venite», disse Jane, e alzai lo sguardo appena in tempo per vedere le mantelle grigie che, di spalle, scivolavano verso la spirale di fumo. Tornò l'odore forte di incenso appena acceso.
Le mantelle grigie scomparvero nella nebbia densa.

26
Etica

Il ripiano del bagno di Alice era occupato da migliaia di prodotti diversi e tutti vantavano incredibili capacità di abbellire la pelle. Dal momento che gli abitanti della casa erano perfetti e impermeabili, ne deducevo che avesse accumulato quella scorta pensando a me. Leggevo le etichette annebbiata, sconvolta da tanto spreco.
Ero attenta a non guardarmi mai nel lungo specchio.
Alice mi pettinava con gesti lenti e ritmati.
«Va bene così, Alice», dissi senza entusiasmo. «Voglio tornare a La Push».
Per quante ore avevo aspettato che Charlie finalmente uscisse da casa di Billy, in modo che potessi andare a trovare Jacob? Ogni minuto che avevo trascorso ignorando se il mio amico respirasse ancora mi era sembrato du-rare dieci vite. Infine, ricevuto il permesso di andare a verificare se Jacob era ancora vivo, il tempo era volato. Pensavo di poter finalmente riprendere fiato, ma all'improvviso Alice aveva chiamato Edward e insistito nel continuare con la ridicola messinscena del pigiama party. Sembrava un dettaglio talmente insignificante...
«Jacob non ha ancora ripreso conoscenza», mi disse Alice. «Carlisle o Edward chiameranno non appena si risveglierà. E comunque, è meglio che tu raggiunga Charlie. Era a casa di Billy, sa che Carlisle ed Edward sono tornati dall'escursione ed è probabile che si insospettisca, quando tornerai a casa».
Avevo già imparato a memoria e arricchito di dettagli la mia versione. «Non m'interessa. Quando Jacob si sveglierà voglio esserci».
«Per ora è meglio che ti limiti a pensare a Charlie. È stata una giornata lunga - scusa, so che come definizione è a dir poco riduttiva - ma ciò non significa che tu abbia il diritto di sfuggire alle tue responsabilità». La sua voce era seria, sembrava un rimprovero. «Ora più che mai, è importante che Charlie resti al sicuro e all'oscuro di tutto. Prima recita la tua parte, Bella, poi potrai fare ciò che ti va. Essere meticoloso e responsabile fa parte dei doveri di ogni Cullen».
Ovviamente aveva ragione. E come se quel motivo non bastasse, pur es-sendo più potente di qualsiasi mia paura, timore o senso di colpa, Carlisle non mi avrebbe mai convinta ad allontanarmi da Jacob, che fosse sveglio o no.
«Torna a casa», ordinò Alice. «Parla con Charlie. Sfodera il tuo alibi. Tienilo al sicuro».
Mi alzai e il sangue fluì ai miei piedi intorpiditi, pungendoli come mi-gliaia di aghi. Ero rimasta seduta e immobile troppo a lungo.
«Quell'abito è adorabile», cinguettò Alice.
«Cosa? Ah... sì, grazie ancora per i vestiti», mormorai più per cortesia che per vera gratitudine.
«Ti servono delle prove», disse Alice, lo sguardo innocente e aperto. «Cos'è un giro di shopping senza neanche un completo nuovo? Ti dona proprio, lo dico sul serio».
Sbattei gli occhi, incapace di ricordare come mi avesse agghindata. Non riuscivo a impedire che di secondo in secondo i miei pensieri mi sfuggisse-ro, come insetti di fronte alla luce...
«Jacob sta bene, Bella», disse Alice, interpretando con facilità la mia preoccupazione. «Non avere fretta. Se sapessi quanta morfina extra Carlisle ha dovuto dargli - la febbre alta la bruciava in fretta - capiresti che ne avrà per un po', prima di riprendersi».
Se non altro non sentiva dolore. Non ancora.
«C'è qualcos'altro di cui vorresti parlare, prima di andartene?», chiese Alice comprensiva. «Sarai traumatizzata, e non poco, immagino».
Sapevo di cosa fosse curiosa. Ma avevo altre domande.
«Sarò anch'io così?», domandai in tono dimesso. «Come quella ragazza, Bree, nella radura?».
C'erano tante cose a cui dovevo pensare, ma non riuscivo a togliermi dalla testa la neonata la cui seconda vita era di colpo terminata. Il suo volto, distorto dal desiderio del mio sangue, incombeva quando chiudevo gli occhi.
Alice mi accarezzò un braccio. «Ognuno reagisce in maniera diversa. Comunque, sì, sarà qualcosa del genere».
Restai immobile e cercai di immaginare.
«Passa presto, vedrai», disse.
«Quanto presto?».
Si strinse nelle spalle. «Qualche anno, forse meno. Per te potrebbe essere diverso. Non ho mai assistito a una trasformazione volontaria. Probabil-mente sarà interessante vedere come ti comporterai».
«Interessante», ripetei.
«Ti terremo al riparo dai guai».
«Lo so. Mi fido di voi». La mia voce era monocorde, morta.
La fronte di Alice s'increspò. «Se sei preoccupata per Carlisle ed Edward, ti assicuro che andrà tutto bene. Sono convinta che Sam stia iniziando a fidarsi di noi... be', almeno a fidarsi di Carlisle. Tra l'altro, è una buona notizia. Immagino che l'atmosfera si sia fatta un po' tesa quando Carlisle ha dovuto spezzare di nuovo le fratture...».
«Alice, per favore».
«Scusa».
Respirai a fondo per riprendere la calma. Jacob aveva iniziato a guarire troppo presto e certe ossa si erano saldate nella posizione sbagliata. Durante l'operazione era rimasto privo di sensi, ma era ancora difficile ripensarci.
«Alice, posso farti una domanda? A proposito del futuro...».
All'istante passò sulla difensiva. «Sai che non riesco a vedere tutto».
«Non è questo, non esattamente. Però, ogni tanto vedi il mio futuro. Se-condo te, perché nessun altro dei vostri poteri funziona, con me? Né quelli di Jane, né quelli di Edward e Aro...», la frase si smorzò assieme al livello del mio interesse. La mia curiosità era debole, pressata da emozioni ben più pesanti.
Tuttavia Alice trovò la domanda molto interessante. «Dimentichi Jasper, Bella: il suo talento agisce sul tuo corpo come su quello di chiunque altro. Questa è la differenza, capisci? Le capacità di Jasper influenzano la sfera fisica. È in grado di calmare o eccitare l'organismo. Non è un'illusione. Io vedo le conseguenze delle decisioni, non i pensieri e le motivazioni che le scatenano; la realtà concreta, o perlomeno una versione di essa. Jane, E-dward, Aro e Demetri, invece, agiscono all'interno della mente. Jane crea un'illusione di dolore. Non danneggia il corpo, provoca soltanto una sensa-zione. Capisci, Bella? La tua mente è un rifugio sicuro. Nessuno ci si può intrufolare. C'è poco da meravigliarsi che Aro fosse tanto curioso delle tue abilità future».
Mi guardava da vicino per assicurarsi che seguissi il ragionamento. In realtà le sue parole avevano cominciato a scorrere tutte assieme e le sillabe e i suoni perdevano il loro significato. Non riuscivo a concentrarmi. Eppure annuivo. Fingevo di avere capito.
Non si lasciò ingannare. Mi accarezzò una guancia e mormorò: «Andrà tutto bene, Bella. Non ho bisogno di vedere il futuro per saperlo. Pronta per andare?».
«Solo una cosa. Posso farti un'altra domanda a proposito del futuro? Non voglio dettagli, soltanto una panoramica».
«Farò del mio meglio», disse, sempre dubbiosa.
«Mi vedi ancora trasformata in vampira?».
«Oh, questa è facile. Sì, certo che sì».
Annuii lentamente.
Scrutò la mia espressione, un che di inafferrabile nel suo sguardo. «Non sei sicura delle tue decisioni, Bella?».
«Sì. Volevo soltanto una conferma».
«Io posso essere sicura solo quanto lo sei tu, Bella. Lo sai. Se cambiassi idea, ciò che vedo cambierebbe... o, nel tuo caso, scomparirebbe».
Sospirai. «Però non accadrà».
Mi cinse con un braccio. «Scusa. Non puoi avere la mia comprensione. Il primo ricordo che ho è l'apparizione del viso di Jasper nel mio futuro: sapevo da sempre che lui sarebbe stato la mia metà. Però hai tutta la mia compassione. Mi dispiace tanto che tu sia costretta a scegliere tra due cose tanto belle».
Mi liberai dal suo abbraccio. «Non dispiacerti per me». Altre persone meritavano compassione. Di certo non io. E non avevo scelte: per farla fi-nita mi occorreva soltanto andare a spezzare un cuore buono. «Vado ad af-frontare Charlie».
Tornai a casa con il pick-up e trovai Charlie ad aspettarmi, sospettoso come aveva previsto Alice.
«Ciao, Bella. Com'è andato lo shopping?». Così mi salutò quando entrai in cucina. Teneva le braccia incrociate, senza staccare gli occhi dai miei.
«È stato lungo», risposi senza entusiasmo. «Siamo appena tornate».
Charlie soppesò il mio umore. «Hai già saputo di Jake, immagino».
«Sì. Gli altri Cullen ci hanno precedute. Esme ci ha detto dove sono Car-lisle ed Edward».
«Tu stai bene?».
«Un po' preoccupata per Jake. Preparo la cena e vado subito giù a La Push».
«Te l'ho detto che quelle moto sono pericolose. Spero che questo ti faccia capire che non scherzavo».
Annuii e iniziai a tirar fuori gli ingredienti dal frigo. Charlie si accomodò a tavola. Sembrava più loquace del solito.
«Non penso che ci sia troppo bisogno di preoccuparsi per Jake. Uno che reagisce con tutta quell'energia non può non riprendersi».
«Era sveglio quando sei andato a trovarlo?», domandai voltandomi verso di lui.
«Oh, sì, era sveglio. Avresti dovuto sentirlo... anzi, forse è meglio di no. Credo che nessuno a La Push sia riuscito a non sentirlo. Non so dove abbia imparato quel vocabolario, ma spero che non usi lo stesso linguaggio quando sta con te».
«Oggi aveva buone ragioni di farlo. Come l'hai trovato?».
«A pezzi. Lo hanno trascinato in casa i suoi amici. Per fortuna sono grossi, perché quel ragazzo è un colosso. Carlisle dice che si è rotto la gamba destra, e anche il braccio. In pratica, cadendo dalla moto si è schiacciato il lato destro del corpo». Charlie scosse la testa. «La prossima volta che vengo a sapere che sei andata in moto, Bella...».
«Tranquillo, papà. Non accadrà. Credi davvero che Jake stia bene?».
«Certo, Bella, non preoccuparti. Era abbastanza in sé da sfottermi».
«Sfotterti?», ripetei, sorpresa.
«Già! Tra un insulto alla madre di chissà chi e un riferimento inopportu-no a Nostro Signore, ha detto: "Scommetto che oggi sei contento che sia innamorata di Cullen e non di me, eh, Charlie?"».
Mi voltai verso il frigo per non mostrargli la mia espressione.
«E come dargli torto? Edward è molto più maturo di Jacob quando in ballo c'è la tua sicurezza, questo devo concederglielo».
«Jacob è molto maturo», borbottai, sulla difensiva. «Sono sicura che non è stata colpa sua».
«Strana giornata, oggi», commentò Charlie dopo un minuto. «Sai, non credo molto alle superstizioni e robaccia simile, ma è strano... sembrava che Billy sapesse che a Jake sarebbe capitato qualcosa di brutto. Per tutta la mattinata è stato nervoso come un agnello il giorno di Pasqua. Mi sa che non ha sentito nemmeno una parola di quel che gli ho detto. E poi, cosa ancora più assurda, ricordi di quando abbiamo avuto quel problema con i lupi, tra febbraio e marzo?».
Mi chinai a prendere una padella nella credenza e mi ci trattenni più a lungo del necessario.
«Sì», bofonchiai.
«Spero che non ricomincino a creare problemi. Stamattina, mentre era-vamo fuori in barca, Billy non faceva attenzione né a me né ai pesci, e a un certo punto nel bosco abbiamo sentito ululare i lupi. Erano in tanti, ragazza mia, chiari e forti. Sembrava che fossero arrivati nel villaggio. E la cosa più assurda è che Billy ha girato la barca ed è tornato dritto al molo come se lo avessero chiamato personalmente. Non mi ha neanche sentito, quando gli ho chiesto cosa stava combinando. Il chiasso è terminato prima che ormeggiassimo la barca. Ma all'improvviso Billy moriva dalla fretta, non voleva perdersi la partita, anche se mancavano ore. Borbottava qualcosa a proposito del primo spettacolo... di una partita in diretta? Bella, è stato davvero strano. Be', ha trovato un'altra partita che diceva di voler vedere ma, accesa la TV, l'ha ignorata. È rimasto tutto il tempo al telefono, ha chiamato Sue, poi Emily, il nonno del tuo amico Quil. Non ho capito per-ché, ci ha scambiato soltanto delle chiacchiere. Poi fuori sono ricominciati gli ululati. Non ho mai sentito niente di simile: m'è venuta la pelle d'oca. Ho chiesto a Billy - sono stato costretto a urlare, in mezzo a quel caos - se avesse montato delle trappole in cortile. Sembrava che un animale stesse soffrendo sul serio».
Trasalii, ma Charlie era così intento nel racconto che non se ne accorse.
«Ovviamente fino a quel momento non mi ero ricordato di nulla, perché nello stesso istante ho visto Jake tornare a casa. Un minuto prima c'era quell'ululato, poi è sparito... le imprecazioni di Jake lo coprivano. Ha dei bei polmoni, il ragazzo».
Charlie restò in silenzio per un minuto, pensieroso. «Strano che da tutto questo casino sia uscito qualcosa di buono. Non pensavo che sarebbero mai riusciti a liberarsi dello stupido pregiudizio che hanno per i Cullen, laggiù. Invece qualcuno ha chiamato Carlisle e Billy mi è sembrato davvero contento di vederlo. Credevo che dovessimo portare Jake all'ospedale, ma Billy ha voluto che restasse a casa e Carlisle si è detto d'accordo. Immagino che Carlisle sappia come va curato. È stato molto generoso da parte sua rendersi disponibile per tutte le visite a domicilio che dovrà fare. E...». Si trattenne, come se volesse evitare di dire qualcosa. Ma con un sospiro proseguì: «Edward è stato proprio... carino. Sembrava preoccupato per Jacob quanto lo sei tu, come se sdraiato lì ci fosse suo fratello. Aveva uno sguardo...». Charlie scosse la testa. «È un ragazzo beneducato, Bella. Cercherò di ricordarmene. Non ti prometto niente, però». Mi sorrise.
«Non ti costringerò», mugugnai.
Charlie stiracchiò le gambe e sbadigliò. «Che bello essere a casa. Non hai idea di quanto sia minuscola la casetta di Billy. C'erano sette amici di Jake, tutti schiacciati in soggiorno. Era così affollato che non riuscivo a respirare. Hai notato quanto sono grossi i giovani Quileute?».
«Sì, l'ho notato».
Charlie mi fissò, lo sguardo improvvisamente acceso. «Davvero, Bella, Carlisle ha detto che Jake tornerà in piedi in men che non si dica. Ha detto che sta molto meglio di quanto non sembri. Si riprenderà».
Annuii.
Jacob mi era sembrato così... stranamente fragile, quando ero corsa a trovarlo, non appena Charlie era uscito da casa sua. Era bendato ovunque: secondo Carlisle non aveva senso ingessarlo, guariva troppo in fretta. Il volto era pallido e accigliato, perso in una sorta di incoscienza, malgrado fosse lucido. Fragile. Grosso com'era, mi era sembrato davvero fragile. Forse era stata soltanto la mia immaginazione, assieme alla consapevolezza che presto mi sarebbe toccato spezzargli il cuore.
Quanto avrei voluto che un fulmine mi colpisse e mi dividesse in due. Preferibilmente con dolore. Per la prima volta, rinunciare alla mia umanità mi sembrò un sacrificio. Come se temessi davvero di perdere troppo.
Servii la cena a Charlie, sul tavolo vicino al suo gomito, e puntai dritta verso la porta.
«Ehm, Bella? Puoi aspettare solo un secondo?».
«Ho dimenticato qualcosa?», domandai osservando il piatto.
«No, no. Vorrei solo... chiederti un favore». Charlie, accigliato, abbassò lo sguardo. «Siediti... non ci vorrà molto».
Mi sedetti di fronte a lui, un po' confusa. Cercai di concentrarmi. «Che c'è, papà?».
«Be', ecco il succo della questione, Bella». Charlie arrossì. «Forse mi sento solo un po'... superstizioso dopo aver passato una giornata così strana con Billy. Però ho questo sospetto. È come se sentissi... che presto ti per-derò».
«Non dire sciocchezze, papà», borbottai. «Vuoi o no che continui a stu-diare?».
«Promettimi soltanto una cosa».
Prima di parlare attesi, pronta a rimangiarmi la parola. «Okay...».
«Mi avvertirai, prima di prendere decisioni importanti? Prima di scappare con lui o cose del genere?».
«Papà...», singhiozzai.
«Dico sul serio. Non creerò nessun putiferio. Dammi solo un po' di pre-avviso. Concedimi la possibilità di abbracciarti e dirti addio».
Alzai la mano, mentre in cuor mio fremevo. «È una sciocchezza. Però, se ciò ti rende più felice... prometto».
«Grazie, Bella», rispose. «Ti voglio bene, piccola».
«Anch'io ti voglio bene, papà». Gli sfiorai una spalla e scappai dalla ta-vola. «Se ti serve qualcosa, mi trovi da Billy».
Corsi fuori senza voltarmi. Mi ci mancava solo questa, mugugnai tra me durante tutto il tragitto per La Push.
La Mercedes nera di Carlisle non era parcheggiata di fronte a casa di Billy. Notizia buona e cattiva. Ovviamente, avevo bisogno di parlare con Jacob da sola. Eppure, desideravo anche di poter stringere la mano di E-dward, come già avevo fatto mentre Jacob era privo di sensi. Impossibile. Ma Edward mi mancava e il pomeriggio assieme ad Alice mi era sembrato davvero lungo. Probabilmente ciò rendeva la mia risposta piuttosto ovvia. Sapevo già di non poter vivere senza Edward. Ma tale certezza non sarebbe servita ad attutire il dolore che stava per arrivare.
Bussai piano alla porta.
«Entra pure», disse Billy. Era facile riconoscere il rombo del mio pick-up.
Mi feci avanti.
«Ciao, Billy. È sveglio?», domandai.
«Si è svegliato circa un'ora fa, appena prima che se ne andasse il dottore. Entra. Penso che ti stia aspettando».
Trasalii e respirai a fondo. «Grazie».
Mi arrestai sulla soglia della stanza di Jacob, incerta se bussare o no. Prima decisi di sbirciare, nella speranza - codarda com'ero - che si fosse riaddormentato. Pensavo di poter aspettare ancora qualche minuto.
Socchiusi la porta e mi avvicinai indecisa.
Jacob mi aspettava, con un'espressione calma e rilassata. L'aspetto smar-rito e indifeso se n'era andato, rimpiazzato da un'aria neutra. Non c'era vi-vacità nei suoi occhi scuri.
Era difficile guardarlo in volto, ora che sapevo di amarlo. Faceva molta più differenza di quanto avessi immaginato. Chissà se era stato altrettanto difficile per lui, per tutto quel tempo.
Per fortuna, qualcuno gli aveva buttato addosso una coperta. Fu un sol-lievo non dover vedere l'entità dei danni.
Avanzai e chiusi la porta con delicatezza alle mie spalle.
«Ciao, Jake», mormorai.
Non rispose subito. Mi guardò per un istante interminabile. Poi, con un certo sforzo, aggiustò la propria espressione in un sorriso vagamente stra-fottente.
«Ecco, mi aspettavo proprio una cosa del genere». Sospirò. «La giornata ha preso proprio una brutta piega, direi. Prima scelgo il posto sbagliato, mi perdo lo scontro più importante e la gloria tocca tutta a Seth. Poi Leah de-cide di comportarsi da idiota per dimostrarci che è forte come noi, e chi è l'idiota che la salva? E ora, questo». Alzò la mano sinistra verso di me, im-palata sulla porta.
«Come stai?», sussurrai. Che domanda stupida.
«Un po' stordito. Il dottor Canino non conosce la dose giusta di antidolo-rifici per me, così sta andando avanti a tentativi. Temo che abbia esagerato».
«Però non senti dolore».
«No. Se non altro le ferite non le sento», disse e sorrise, di nuovo ironico.
Non sapevo cosa dire. Non ne sarei mai uscita. Perché nessuno cercava mai di uccidermi quando desideravo morire?
L'ironia amara abbandonò il volto di Jacob e i suoi occhi si scaldarono. Corrugò la fronte. «E tu come stai?», domandò, e sembrava davvero pre-occupato. «Tutto okay?».
«Io?». Restai a fissarlo. Forse aveva davvero preso troppe medicine. «Perché?».
«Be', voglio dire, ero più che sicuro che non ti avrebbe fatto del male, ma non avevo idea di come sarebbe andata. Da quando mi sono risvegliato, ho perso un po' la testa a furia di preoccuparmi per te. Non sapevo se ti avrebbero dato il permesso di venirmi a trovare, cose del genere. L'attesa è stata terribile. Com'è andata? Se l'è presa molto con te? Scusa se mi sono comportato male. Non avrei mai voluto lasciarti sola in quel frangente. Pensavo di restare...».
Mi ci volle un minuto per iniziare a capire. Continuò a vaneggiare, sem-pre più goffo, finché non colsi il senso del discorso. Poi mi affrettai a ras-sicurarlo.
«No, no, Jake! Sto bene. Fin troppo, direi. Certo che non è stato cattivo. Magari!».
Spalancò gli occhi, sembrava disgustato. «Cosa?».
«Non si è arrabbiato con me... e nemmeno con te! Con il suo altruismo mi ha persino peggiorato l'umore. Magari mi avesse urlato dietro, o qualcosa del genere. Non che non mi meriti qualcosa di peggio di una sgridata. Ma a lui non importa. Vuole soltanto che io sia felice».
«Non si è arrabbiato?», domandò Jacob, incredulo.
«No. È stato... fin troppo gentile».
Jacob mi fissò per un altro minuto e all'improvviso si fece scuro in volto. «Be', maledizione!», ruggì.
«Cosa c'è che non va, Jake? Ti fa male?». Le mie mani gesticolavano senza meta, mentre cercavo i suoi tranquillanti.
«No», mugugnò disgustato. «Non posso crederci! Non ti ha dato ultima-tum o cose del genere?».
«Nemmeno per scherzo... Cosa c'è che non va?».
Si rabbuiò e scosse la testa. «In un certo senso, contavo sulla sua reazio-ne. Accidenti. È più bravo di quanto pensassi».
Il tono della sua voce, malgrado la rabbia intensa, mi ricordò che Edward aveva riconosciuto in Jacob uno scarso senso morale. Il che significava che Jake aveva ancora una speranza, era ancora disposto a combattere. Con un fremito, sentii la lama affondare.
«Non sta giocando, Jake», dissi a bassa voce.
«Certo che sì. Sta giocando duro almeno quanto me, soltanto che lui sa cosa fare e io no. Non è colpa mia, se come manipolatore è meglio di me... non ho abbastanza esperienza per smascherare tutti i suoi trucchi».
«Non mi sta manipolando!».
«Invece sì! Vuoi deciderti o no a svegliarti e capire che non è perfetto come pensi?».
«Se non altro non ha minacciato di uccidersi per convincermi a baciarlo», sbottai. Pronunciata l'ultima parola, arrossii di vergogna. «Alt. Come non detto. Mi ero giurata che non ne avrei più parlato».
Respirò a fondo. Quando riprese a parlare era più calmo. «Perché no?».
«Perché non sono venuta a incolparti di nulla».
«Però è vero», disse calmo. «È ciò che ho fatto».
«Non m'importa, Jake. Non sono arrabbiata».
Sorrise. «Neanche a me importa. Sapevo che mi avresti perdonato, e sono contento che tu l'abbia fatto. Lo rifarei. Almeno qualcosa mi rimane. Almeno ti ho fatto capire che mi ami. È già qualcosa».
«Davvero? Pensi che vada meglio, ora che sono uscita allo scoperto?».
«Penso che sia giusto che tu conosca i tuoi sentimenti. Così non ti sor-prenderai, il giorno in cui sarai una vampira sposata e capirai che è troppo tardi».
Scossi la testa. «No, non mi riferivo a me. È a te che va meglio, dopo avermi fatto scoprire che sono innamorata di te? Tutto sommato, non cam-bia le carte in tavola. Non ti avrei reso la vita più facile, se non ti avessi dato qualche indizio?».
Prese la mia domanda sul serio, come desideravo, e prima di rispondere ci pensò sopra per bene. «Sì, sono contento di avertelo fatto scoprire», concluse infine. «Se non lo avessi capito... avrei continuato ad avere dubbi sulla tua decisione. Adesso lo so. Ho fatto tutto il possibile». Respirò in-certo e chiuse gli occhi.
A quel punto non resistetti - non era possibile - all'istinto di rassicurarlo. Attraversai la cameretta, m'inginocchiai accanto alla sua testa, senza sedermi sul letto perché temevo di sballottarlo e fargli male, e mi chinai sfiorandogli una guancia con la fronte.
Jacob sospirò e con la mano mi toccò i capelli, per trattenermi.
«Mi dispiace tanto, Jake».
«Sapevo che sarebbe stato difficile. Non è colpa tua, Bella».
«No, anche tu», borbottai. «Per favore».
Si allontanò per guardarmi. «Cosa?».
«È colpa mia. Sono stufa di sentirmi dire il contrario».
Sorrise. Ma i suoi occhi non si accesero. «Vuoi che ti costringa a stare in ginocchio sui ceci?».
«Be'... lo sono già».
Increspò le labbra mentre valutava la mia sincerità. Un sorriso apparve fugace, ma il suo sguardo si fece subito torvo e grave.
«Restituirmi il bacio in quella maniera è stato un gesto imperdonabile». Mi trafisse con le sue parole. «Se già sapevi che ti saresti ritirata, forse a-vresti dovuto essere meno convincente».
Con un fremito, annuii. «Mi dispiace tanto».
«Dispiacerti non serve a niente, Bella. Cosa ti è passato per la testa?».
«Niente», sussurrai.
«Avresti dovuto mandarmi a morire e basta. In fondo è ciò che vuoi».
«No, Jacob», pigolai combattendo contro le lacrime. «No! Mai!».
«E neppure piangi?», domandò, la voce di colpo normale. Scattò impa-ziente sul letto.
«Invece sì», borbottai, mentre una debole risata sgorgava con le lacrime che di colpo divennero singhiozzi.
Si spostò, allungando la gamba buona come se cercasse di alzarsi dal let-to.
«Cosa fai?», domandai in lacrime. «Stai sdraiato, idiota, o ti farai male!». Scattai in piedi e spinsi giù la spalla buona, con due mani.
Si arrese e arretrò, tossì di dolore ma riuscì ad afferrarmi i fianchi e tra-scinarmi sul letto, accanto al fianco sano del suo corpo. Mi raggomitolai dov'ero e cercai di soffocare quegli stupidi singhiozzi contro la sua pelle calda.
«Non riesco a credere che tu pianga sul serio», borbottò accarezzandomi le spalle. «Ho detto quel che ho detto solo perché lo volevi tu, sai. Non fa-cevo sul serio».
«Lo so». A fatica, respirai a fondo, cercando di controllarmi. Com'era possibile che fossi io quella che piangeva e lui quello che mi tranquillizza-va? «Però è tutto vero. Grazie per averlo detto ad alta voce».
«Guadagno qualche punto, visto che ti ho fatto piangere?».
«Certo, Jake». Accennai un sorriso. «Tutti quelli che vuoi».
«Non preoccuparti, piccola. Troveremo un modo».
«Non vedo quale», mugugnai.
Picchiettò sulla mia testa. «Mi farò da parte e mi comporterò bene».
«Stai bluffando?», domandai, inclinando la testa in modo che potesse vedermi in faccia.
«Forse». Rise, sforzandosi un po', poi si ritrasse. «Ma ci proverò».
Aggrottai le sopracciglia.
«Non essere così pessimista. Concedimi un po' di fiducia».
«Cosa vuol dire che farai il bravo?».
«Sarò tuo amico, Bella», disse calmo. «Non ti chiederò di più».
«Temo che sia troppo tardi, Jake. Come facciamo a essere amici se ci amiamo così?».
Guardò il soffitto, concentrato, come se stesse leggendo qualcosa. «For-se... dovrà essere un'amicizia a distanza».
A denti serrati, lieta che non mi stesse guardando in faccia, combattevo contro i singhiozzi che minacciavano di sopraffarmi di nuovo. Cercavo di essere forte, ma proprio non sapevo come fare...
«Conosci quella storia nella Bibbia?», domandò Jacob all'improvviso, senza staccare gli occhi dal soffitto vuoto. «Quella del re e delle due donne che si contendono il bambino?».
«Certo. Re Salomone».
«Esatto. Re Salomone», ripeté. «Ed egli disse: "Tagliate il bambino in due"... ma era soltanto per metterle alla prova. E vedere chi sarebbe stata disposta a rinunciare alla propria metà pur di salvarlo».
«Sì, ricordo».
Tornò a guardarmi in faccia. «Non voglio più spezzarti a metà, Bella».
Capivo bene il senso delle sue parole. Stava dicendo di volersi arrendere perché mi amava con tutto se stesso. Avrei voluto prendere le parti di E-dward, spiegare a Jacob che anche lui avrebbe fatto la stessa cosa se gliel'avessi chiesto, se glielo avessi permesso. L'unica che non poteva ri-nunciare alle proprie decisioni ero io. Ma non aveva senso iniziare una di-scussione che avrebbe soltanto peggiorato la ferita.
Chiusi gli occhi nello sforzo di controllare almeno la mia sofferenza.
Per un istante restammo in silenzio. Sembrava aspettare che dicessi qualcosa; io cercavo di pensare a cosa dire.
«Posso dirti qual è la cosa peggiore?», domandò incerto, di fronte al mio silenzio. «Ti dispiace? Farò il bravo, davvero».
«Servirà?», sussurrai.
«Magari. Male non fa».
«Dimmi, qual è la cosa peggiore?».
«La cosa peggiore è sapere come sarebbe stato».
«Come avrebbe potuto essere». Sospirai.
«No». Jacob scosse la testa. «Io sono perfetto per te, Bella. Non avremmo dovuto sforzarci, mai... sarebbe stato immediato, facile come respirare. Mi avresti naturalmente trovato nel cammino della tua vita». Fissò il vuoto per un momento e attesi che riprendesse. «Se il mondo fosse come dovrebbe, se non ci fossero né mostri né magia...».
Capivo ciò che vedeva, e sapevo che aveva ragione. Se il mondo fosse stato il luogo normale che fingeva di essere, io e Jacob saremmo rimasti insieme. E saremmo stati felici. Era la mia anima gemella, in quel mondo, e lo sarebbe rimasto, se a metterlo in ombra non fosse arrivato qualcosa di più forte, di così forte da non poter esistere in un mondo razionale.
Era così anche per lui? Esisteva qualcosa in grado di eclissare un'anima gemella? Dovevo sforzarmi di crederci.
Due futuri, due anime gemelle... troppo per una persona sola. E non era affatto giusto che non fossi l'unica a pagarne le conseguenze. Il dolore di Jacob mi sembrava un prezzo troppo alto. Al pensiero rabbrividii e mi do-mandai cosa sarebbe stato dei miei tentennamenti se non avessi perso E-dward una volta. Se non avessi scoperto la vita senza di lui. Non lo sapevo. Quella sicurezza mi apparteneva così profondamente che non riuscivo a immaginarmi senza.
«È come una droga per te, Bella». Il suo tono era rimasto gentile, niente affatto critico. «Ormai ho capito che senza di lui non puoi vivere. È troppo tardi. Ma io sarei stato una scelta più sana. Non una droga: io sarei stato l'aria, il sole».
Accennai un sorriso malinconico. «Anch'io ne ero convinta, sai. Eri come un sole. Il mio sole personale. Il rimedio migliore alle mie nuvole».
Sospirò. «Con le nuvole posso farcela. Ma non posso cavarmela contro un'eclissi».
Sfiorai il suo viso e gli posai la mano sulla guancia. Fece un sospiro e chiuse gli occhi. Tutto taceva. Per un minuto sentii soltanto il battito del suo cuore, lento e regolare.
«Dimmi qual è la cosa peggiore per te», sussurrò.
«Temo che sia una cattiva idea».
«Per favore».
«Non voglio ferirti».
«Per favore».
Come potevo negarglielo a quél punto?
«La cosa peggiore...». Dopo una pausa, lasciai che le parole sgorgassero in un flusso di sincerità. «La cosa peggiore è che ho visto tutta... la nostra vita assieme. E la desidero, Jake, la desidero più di ogni cosa. Vorrei restare qui e non andarmene mai più. Vorrei amarti e renderti felice. Ma non posso, e mi sento morire. È come tra Sam ed Emily: non ho mai avuto alternative. Ho sempre saputo che niente poteva cambiare. Forse per questo me la sono presa così tanto con te».
Sembrava sforzarsi di controllare il respiro.
«Lo sapevo, non dovevo dirtelo».
Scosse la testa lentamente. «No. Sono lieto che tu l'abbia fatto. Grazie». Mi baciò la fronte e sospirò. «Adesso faccio il bravo».
Alzai gli occhi e lo vidi sorridere.
«Allora ti sposi, eh?».
«Non siamo costretti a parlarne».
«Dai, raccontami un po'. Chissà quanto passerà prima che ci parliamo di nuovo».
Per rispondere dovetti aspettare ed essere certa che la voce non mi si sa-rebbe spezzata.
«In realtà non è stata un'idea mia, ma... sì. Lui ci tiene molto. Perciò mi sono detta: perché no?».
Jake annuì. «Giusto. In fondo non è questa gran cosa... a confronto».
Il suo tono di voce era molto calmo e razionale. Restai a guardarlo, cu-riosa di capire come facesse a trattenersi, e rovinai tutto. Per un istante in-crociò il mio sguardo, poi si voltò. Prima di parlare aspettai che il suo re-spiro fosse di nuovo sotto controllo.
«Sì, a confronto», ripetei.
«Quanto ti resta?».
«Dipende da quanto occorrerà ad Alice per mettere in piedi un matrimo-nio». Soffocai un lamento, immaginando cos'avrebbe organizzato.
«Prima o dopo?», chiese a bassa voce.
Sapevo cosa intendeva. «Dopo».
Annuii. Per lui fu un sollievo. Chissà quante notti insonni gli aveva pro-curato il pensiero del giorno del mio diploma.
«Hai paura?», sussurrò.
«Sì», risposi, a mezza voce.
«Di cosa?». A quel punto lo sentivo appena. Guardava fisso le mie mani.
«Di un sacco di cose». Mi sforzai di alleggerire la voce, ma senza perdere la sincerità. «Non sono mai stata molto masochista, perciò sono tutt'altro che impaziente di soffrire. E vorrei che ci fosse una maniera di tenerlo lon-tano perché non voglio che soffra con me, ma temo che non ci siano alter-native. Poi dovrò fare i conti con Charlie, con Renée... E più avanti, presto, spero che sarò in grado di controllarmi. Non vorrei diventare una minaccia così pericolosa da costringere il branco a evitarmi».
Mi fissò con uno sguardo di disapprovazione. «Il primo dei miei fratelli che ci prova, lo azzoppo».
«Grazie».
Si sforzò di sorridere. Poi si rabbuiò. «Ma non è più pericoloso di come dici? Tutte le storie raccontano che è difficilissimo, che perdono il control-lo... e di gente che muore». Deglutì.
«No, non ho paura. Sciocco Jacob... così grande e grosso, credi ancora alle storie di vampiri?».
Ovviamente non gradì il mio tentativo di ironia.
«Be', comunque, le preoccupazioni sono tante. Ma alla fine ne varrà la pena».
Annuì senza convinzione, sapevo che non era affatto d'accordo con me.
Allungai il collo per sussurrargli all'orecchio, la guancia contro la sua pelle calda. «Lo sai quanto bene ti voglio».
«Lo so», sospirò e con il braccio strinse automaticamente i miei fianchi. «Sai quanto vorrei che potesse bastare».
«Sì».
«Ti aspetterò sempre, dietro le quinte, Bella», promise in tono più tran-quillo e mollò la presa. Mi allontanai, schiacciata da una sensazione di perdita e di vuoto, straziata dalla separazione e dall'addio alla parte di me che restava al suo fianco in quel letto. «Se ti va, avrai sempre una seconda scelta».
Mi sforzai di sorridere. «Finché il mio cuore batterà».
Sogghignò. «Sai, penso che potrei accettarti anche dopo, forse. Mi sa che dipende da quanto puzzerai».
«Posso tornare a trovarti? O preferisci di no?».
«Ci penso su e ti faccio sapere», disse. «Potrei aver bisogno di compa-gnia, per non impazzire. Il magnifico chirurgo vampiro non mi ha ancora dato il permesso di trasformarmi; dice che rischio di rovinarmi le ossa». Jacob fece una smorfia.
«Fa' il bravo e obbedisci a Carlisle. Guarirai più in fretta».
«Certo, certo».
«Chissà quando succederà», dissi. «Chissà quando incrocerai la ragazza giusta».
«Non sperarci troppo, Bella». Il tono di Jacob si fece improvvisamente amaro. «Certo, per te sarebbe un bel sollievo».
«Forse sì, forse no. Probabilmente penserò che non è quella giusta. Chis-sà quanto sarò gelosa».
«Magari sarà divertente, no?».
«Fammi sapere se vuoi che ritorni, e sarò qui», promisi.
Con un sospiro, mi offrì la guancia.
Mi chinai a baciarla con delicatezza. «Ti voglio bene, Jacob».
Fece un risolino. «Io ti amo».
Mi guardò uscire dalla stanza con un'espressione indecifrabile negli oc-chi.

27
Necessità

Già dopo un breve tratto di strada, guidare divenne impossibile.
A un certo punto non vidi più niente e lasciai che fossero le ruote a tro-vare il ciglio terroso della strada per accostare lentamente. Mi abbandonai sul sedile, a pezzi e in balia della debolezza che avevo combattuto nella stanza di Jacob. Era peggio di quanto pensassi e mi colse con intensità sor-prendente. Sì, avevo fatto bene a tenerla nascosta a Jacob. Nessuno doveva vedermi in quello stato.
Ma non restai sola a lungo: Alice impiegò poco ad accorgersi di me ed Edward mi raggiunse nel giro di pochi minuti. La portiera si aprì cigolando e lui mi prese tra le braccia.
Sulle prime mi sentii ancora peggio. Perché c'era quella piccola parte di me - piccola, ma più grande e rumorosa a ogni minuto che passava, infuriata con il resto di me stessa - che agognava un altro paio di braccia. A in-tensificare il dolore c'era un senso di colpa appena nato.
Lui non disse niente, mi lasciò frignare finché non iniziai a biasciare il nome di Charlie.
«Pronta a tornare a casa?», domandò dubbioso.
Dopo parecchi tentativi riuscii a spiegargli che le cose non sarebbero migliorate in fretta. Dovevo raggiungere Charlie prima che si facesse troppo tardi e che lui e Billy si sentissero.
Perciò fu Edward ad accompagnarmi a casa e per una volta non tentò nemmeno di sfidare i limiti fisici di velocità del mio pick-up, mentre mi proteggeva con un braccio sulle spalle. Durante il tragitto mi sforzai di mantenere il controllo. Sulle prime mi sembrò un tentativo vano, ma non mi diedi per vinta. Ancora qualche secondo, mi dicevo. Giusto il tempo di inventare una scusa, o una bugia, e avrei potuto crollare di nuovo. Rovistai nella mia mente alla ricerca disperata di una riserva di forze.
Ne avevo abbastanza per placare i singhiozzi, o almeno per trattenerli, ma non per metterli a tacere. Le lacrime non accennavano a rallentare. Non trovavo un appiglio che mi aiutasse ad affrontarle.
«Aspettami di sopra», mugugnai quando fummo davanti a casa.
Lui mi strinse forte per un minuto, poi sparì.
Entrata, puntai dritta alle scale.
«Bella?», chiamò Charlie dalla sua solita posizione sul divano, mentre gli passavo davanti.
Mi voltai a guardarlo senza parlare. I suoi occhi si spalancarono e balzò in piedi.
«Cos'è successo? Jacob è...».
Scossi la testa con violenza, cercando un po' di voce. «Sta bene, sta be-ne», giurai, con voce bassa e rauca. In effetti Jacob stava bene, almeno fi-sicamente: al momento, era quella l'unica preoccupazione di Charlie.
«Ma cos'è successo?». Mi afferrò per le spalle, lo sguardo sempre ansioso e spalancato. «Cosa ti è successo?».
Probabilmente avevo un aspetto peggiore di quanto immaginassi.
«Niente, papà. Io... ho solo dovuto parlare con Jacob... di una faccenda delicata. Sto bene».
L'ansia si placò e fu rimpiazzata dalla disapprovazione.
«Non potevi aspettare un momento migliore?», domandò.
«Probabilmente no, papà, non avevo alternative. Per come si sono messe le cose ero costretta a scegliere... A volte, trovare un compromesso è im-possibile».
Scosse la testa lentamente. «Come l'ha presa?».
Non risposi. Mi guardò in faccia per qualche istante e annuì. Probabil-mente come risposta era più che sufficiente.
«Spero che tu non gli abbia rovinato la convalescenza».
«Guarirà in fretta», mormorai.
Charlie sospirò.
Stavo per perdere il controllo, lo sentivo.
«Salgo in camera», dissi scrollandomi dalla sua presa.
«Va bene», disse Charlie. Probabilmente aveva intuito che la fontana stava per esplodere. Niente lo impauriva più delle lacrime.
Mi trascinai in camera, cieca e zoppicante.
Quando entrai, lottai con il fermaglio del mio braccialetto, nel tentativo di aprirlo con le dita tremanti.
«No, Bella», sussurrò Edward stringendomi la mano. «Fa parte di ciò che sei».
Mi accolse nel rifugio delle sue braccia e a quel punto scoppiarono di nuovo i singhiozzi.
La più lunga delle giornate sembrava non finire mai, mai, mai. Come fosse eterna.
Eppure, sapevo che la notte che incombeva senza darmi scampo non sa-rebbe stata la peggiore della mia vita. Ciò mi diede sollievo. Infine, non ero sola. Altra fonte di grande sollievo.
La sua paura nei confronti delle mie crisi emotive impedì a Charlie di venire a controllarmi, malgrado non fossi tranquilla. Probabilmente non riuscì a dormire neanche lui.
Quella notte, ragionando con il senno di poi, vivevo con una lucidità quasi insopportabile. Avevo ben presente ogni errore commesso, ogni pu-gnalata inflitta, le piccole e le grandi cose. Ogni tormento scatenato in Ja-cob, ogni ferita provocata a Edward, accumulati in alte pile che non potevo ignorare né cancellare.
E mi resi conto di essermi sbagliata, quanto alle calamite. Non erano Edward e Jacob i poli che avevo cercato di avvicinare con la forza, ma le due metà di me stessa, la Bella di Edward e quella di Jacob. Purtroppo non potevano coesistere e mai avrei dovuto tentare l'esperimento.
Avevo combinato troppi danni.
A un certo punto della nottata ricordai la promessa che mi ero fatta quel mattino, che non avrei mai più permesso a Edward di vedermi versare un'altra lacrima per Jacob Black. Il pensiero scatenò l'ennesima reazione isterica, che spaventò Edward ancora più del pianto. Ma anche quella ebbe il proprio corso e si esaurì.
Edward parlò poco, accontentandosi di abbracciarmi, sul letto, e di la-sciare che gli rovinassi la camicia, inzuppandogliela d'acqua salata.
Mi occorse più di quanto pensassi per liberarmi, con il pianto, di quella parte di me, piccola e tormentata. Alla fine fui abbastanza esausta da pren-dere sonno. La perdita di coscienza non placò del tutto il dolore e fu sol-tanto una pace nebbiosa e vuota, come se avessi preso un tranquillante. Ma rese tutto più sopportabile, senza cancellare niente. Ne ero conscia persino nel sonno e ciò mi aiutò a fare le correzioni di rotta di cui avevo bisogno.
Il mattino portò con sé, se non uno sguardo più lucido, perlomeno un briciolo di controllo, di consapevolezza. L'istinto mi diceva che la ferita nel mio cuore sarebbe bruciata per sempre. Ormai era parte di me. Il tempo avrebbe reso tutto più facile - era un luogo comune. Che il tempo potesse guarirmi o no, l'importante era che Jacob stesse meglio. E potesse essere ancora felice.
Mi alzai senza sentirmi frastornata. Aprii gli occhi, finalmente asciutti, e incontrai il suo sguardo ansioso.
«Ciao», dissi. Avevo la voce roca. Mi schiarii la gola.
Non rispose. Mi guardava, in attesa che ricominciassi.
«No, sto bene», giurai. «Non succederà più».
Rispose con uno sguardo di sottecchi.
«Scusa se ti ho costretto ad assistere», dissi. «Non lo meritavi».
Mi prese il viso tra le mani.
«Bella... sei sicura di aver fatto la scelta giusta? Non ti ho mai vista così addolorata...». La sua voce si spezzò su quell'ultima parola.
In realtà ero sopravvissuta a tormenti anche peggiori.
Sfiorai le sue labbra. «Sì».
«Non lo so...». Aggrottò le sopracciglia. «Se soffri così tanto, com'è pos-sibile che sia la scelta migliore?».
«Edward, so a chi posso rinunciare per la vita».
«Ma...».
Scossi la testa. «Non capisci. Tu saresti anche coraggioso o abbastanza forte da poter vivere senza di me, se fosse la scelta migliore. Io non riuscirei mai a sacrificarmi altrettanto. Devo stare con te. Non posso vivere di-versamente».
Sembrava ancora titubante. Non avrei mai dovuto lasciare che passasse la notte accanto a me. Ma avevo avuto così bisogno di lui...
«Mi dai quel libro, per favore?», domandai, indicando un punto sopra la sua spalla.
Abbassò le sopracciglia, confuso, ma me lo porse alla svelta.
«Ancora questo?».
«Volevo soltanto trovare una parte che ricordavo... per vedere come lo dice...». Sfogliai il libro e trovai subito la pagina che mi serviva. A furia di rileggerla si era formato un orecchio. «Cathy è un mostro, ma qualcosa l'ha capita», mormorai. Leggevo a bassa voce, per me stessa più che per lui. «"Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e, se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l'universo diverrebbe per me un'immensa cosa estranea"». Annuii, sempre a me stessa. «So esattamente cosa significa. E so di chi non posso fare a meno».
Edward mi sfilò il libro dalle mani e lo lanciò dall'altra parte della stanza. Atterrò con un tonfo rumoroso sulla scrivania. Mi strinse le braccia sui fianchi.
Un leggero sorriso accese il suo volto perfetto, ma la preoccupazione gli rigava ancora la fronte. «Anche Heathcliff ha i suoi momenti di gloria», disse. Non aveva bisogno del libro per citare. Mi avvicinò e sussurrò al mio orecchio: «Non posso vivere senza la mia vita! Non posso vivere senza l'anima mia!».
«Ecco», risposi a bassa voce. «È proprio così».
«Bella, non sopporto che tu sia così disperata. Magari...».
«No, Edward. Ho combinato un vero disastro, e mi toccherà farci i conti per tutta la vita. Ma so cosa voglio, di cosa ho bisogno... e cosa devo fare, ora».
«Cosa dobbiamo fare ora?».
La precisazione mi fece ridere appena, poi sospirai. «Andiamo a trovare Alice».

Trovammo Alice seduta sui gradini del portico sul retro, troppo iperattiva per aspettarci al chiuso. Sembrava pronta a lasciarsi andare a una danza di festeggiamento, eccitata com'era dalle notizie che già sapeva.
«Grazie, Bella!», intonò mentre scendevamo dal pick-up.
«Aspetta, Alice», dissi, alzando una mano per placare la sua gioia. «Ho qualche condizione da porre».
«Lo so, lo so, lo so. Dev'essere al più tardi il 13 di agosto, hai potere di veto sulla lista degli invitati e se esagero non mi rivolgerai più la parola».
«Ah, okay. Be', d'accordo. Vedo che conosci le regole».
«Non preoccuparti, Bella, sarà perfetto. Vuoi vedere il tuo vestito?».
Tutto, pur di farla felice, dissi a me stessa.
«Certo».
Lei sorrise maliziosa.
«Ehm, Alice», dissi senza perdere il mio tono disinvolto e spontaneo. «Quando mi hai comprato un vestito?».
Probabilmente non ero stata convincente. Edward strinse la mia mano.
Alice ci guidò all'interno, dritto verso le scale. «Per queste cose occorre tempo, Bella», spiegò. Il suo tono di voce sembrava... evasivo. «Voglio di-re, non ero certa che le cose avrebbero preso questa piega, ma c'era una possibilità concreta...».
«Quando?», ripetei.
«Da Perrine Bruyere la lista d'attesa è sempre lunga, ecco», disse, sulla difensiva. «I capolavori di tessuto non si creano in un giorno. Se non ci a-vessi pensato prima, saresti stata costretta a pescare dal tuo armadio!».
Evidentemente non potevo aspettarmi una risposta chiara.
«Perri chi?».
«Non è uno stilista di serie A, Bella, perciò non è il caso di perdere le staffe. Però promette bene, ed è specializzato in ciò che cercavo».
«Non sto perdendo le staffe».
«Certo che no». Osservò con sospetto la mia espressione calma. Poi, prima che entrassimo nella sua stanza, si rivolse a Edward.
«Tu resti fuori».
«Perché?», domandai.
«Bella», sbuffò, «conosci le regole. Non può vedere il vestito fino a quel giorno».
Feci un respiro profondo. «Non m'importa. E poi, l'avrà già visto nei tuoi pensieri. Ma se preferisci...».
Cacciò Edward fuori dalla porta. Lui non le badò: i suoi occhi erano su di me, timorosi, aveva paura a lasciarmi sola.
Annuii, nella speranza che la mia espressione fosse abbastanza tranquilla da rassicurarlo.
Alice gli chiuse la porta in faccia.
«Perfetto!», mormorò. «Forza».
Mi afferrò per un polso, mi trascinò verso l'armadio - più grande di ca-mera mia - e infine verso l'angolo posteriore del mobile, dove una custodia bianca aveva un reparto tutto per sé.
Aprì la zip della custodia con un movimento fluido, e la fece scivolare con cura dalla stampella. Fece un passo indietro, e con una mano indicò il vestito, come fosse la valletta di un gioco a premi.
«Allora?», chiese senza fiato.
Lo osservai per un istante interminabile, per tenerla in sospeso. La sua espressione si fece preoccupata.
«Ah», dissi, e grazie al mio sorriso riuscì a rilassarsi. «Vedo».
«Che te ne pare?», domandò.
Riecco il mio incubo alla Anna dai capelli rossi.
«È perfetto, ovviamente. Va a pennello. Sei un genio».
Sorrise. «Lo so».
«Millenovecentodiciotto?».
«Più o meno», disse e annuì. «In parte è un disegno mio, lo strascico, il velo...», parlava sfiorando la seta bianca. «Il pizzo è d'epoca. Ti piace?».
«È bellissimo. Perfetto per lui».
«Ma per te è perfetto?», insistette.
«Sì, penso di sì, Alice. Penso sia proprio ciò di cui ho bisogno. So che farai un gran bel lavoro... se riesci a contenerti».
Si illuminò.
«Posso vedere il tuo vestito?», domandai.
Restò perplessa e impassibile.
«Non hai ordinato anche il vestito da damigella? Non voglio che la mia testimone sia costretta a pescare qualcosa dall'armadio». Finsi una smorfia di orrore.
Lei mi abbracciò. «Grazie, Bella!».
«Com'è possibile che non lo sapessi già?», la stuzzicai, baciandole i ca-pelli spettinati. «Che razza di veggente sei?».
Alice si allontanò con un passo di danza, il viso acceso di entusiasmo sincero. «Ho talmente tanto da fare! Vai a giocare con Edward. Devo ri-mettermi al lavoro».
Schizzò fuori dalla stanza, strillando: «Esme!», e sparì.
La seguii al mio passo. Edward mi aspettava in corridoio, appoggiato ai pannelli di legno della parete.
«È stato molto, molto gentile da parte tua», mi disse.
«Mi sembra felice».
Sfiorò il mio viso; i suoi occhi - troppo scuri, era passato troppo tempo da quando mi aveva lasciata - scrutarono attenti la mia espressione.
«Usciamo», suggerì di scatto. «Andiamo alla nostra radura».
Proposta molto allettante. «Non devo più nascondermi, vero?».
«No. Ormai il pericolo è passato».
Era muto e pensieroso mentre correva. Il vento soffiava sul mio viso, caldo, ora che la tempesta era passata. Le nuvole coprivano il cielo come al solito.
Quel giorno la radura era un luogo pacifico e felice. Fazzoletti di mar-gherite estive coloravano di macchie bianche e gialle la distesa d'erba. Mi sdraiai sulla terra senza badare alla lieve umidità e cercai di leggere le sa-gome delle nuvole. Erano troppo regolari, troppo lisce. Niente immagini, soltanto una coperta grigia e soffice.
Edward si sdraiò accanto a me e mi prese la mano.
«Tredici agosto?», chiese disinvolto dopo qualche minuto di gradevole silenzio.
«Così mancherà un mese al mio compleanno. Non volevo che cadesse troppo vicino».
Sospirò. «Esme è nata tre anni prima di Carlisle. Lo sapevi?».
Scossi la testa.
«Non ha mai contato granché».
La mia voce era serena, un controcanto alla sua ansia. «Ormai la mia età non importa, Edward. Sono pronta. Ho scelto la mia vita e voglio iniziare a viverla».
Mi accarezzò i capelli. «E il veto sulla lista degli invitati?».
«Non è che m'importi, però...». Mi trattenni, poco entusiasta di dare spiegazioni. Meglio togliersi subito il peso. «Non credo che Alice senti-rebbe la necessità di invitare... i licantropi. Non so se... Jake si sentirà di... di dover presenziare. Non voglio che sia indeciso, che tema di offendermi se non si presenta. Questo glielo voglio risparmiare».
Edward restò in silenzio per qualche istante. Io fissavo le cime degli al-beri, quasi nere sullo sfondo grigio chiaro del cielo.
All'improvviso mi cinse i fianchi e mi strinse al suo petto.
«Dimmi perché fai tutto questo, Bella. Perché adesso hai deciso di la-sciare carta bianca ad Alice?».
Gli ripetei la conversazione della sera precedente tra me e Charlie. «Non è giusto che Charlie resti escluso da tutto questo», conclusi. «E come lui Renée e Phil. Tanto vale lasciar divertire Alice. Magari sarà più facile per Charlie, se riesce a salutarmi come vorrebbe. Anche se pensa che sia troppo presto, non voglio privarlo della possibilità di accompagnarmi all'altare». Scandii quelle parole con una smorfia e un bel respiro. «Se non altro, mia madre, mio padre e i miei amici saranno al corrente della parte migliore della scelta, il massimo che mi è consentito di rivelare. Sapranno che ho scelto te, e che viviamo assieme. Sapranno che sono felice, ovunque mi trovi. Penso sia il massimo che possa fare per loro».
Edward mi prese la testa fra le mani e per un breve istante mi guardò negli occhi.
«Non ci sto», disse di punto in bianco.
«Cosa?», esclamai. «Rinunci? No!».
«Non rinuncio, Bella. Terrò fede al mio impegno. Ma tu sei libera. Alle tue condizioni, senza malintesi».
«Perché?».
«Bella, ho capito tutto. Stai cercando di fare felici tutti quanti. E a me dei sentimenti altrui non importa. Ho bisogno di sapere che tu sei felice. Non preoccuparti di dare la notizia ad Alice. Ci penserò io. Ti prometto che non ti farà sentire in colpa».
«Ma io...».
«No. Facciamo a modo tuo. Perché a modo mio non funziona. Dico che tu sei testarda, ma guarda cos'ho combinato io. Mi sono aggrappato con stupida ostinazione a una mia idea di felicità e ho finito per farti del male. Nel profondo, di continuo. Ormai non mi fido più di me stesso. Puoi essere felice a modo tuo. A modo mio non va mai bene. Quindi», scivolò sotto di me e raddrizzò le spalle, «facciamo a modo tuo, Bella. Stasera. Oggi. Prima è, meglio è. Parlerò con Carlisle. Pensavo che magari, se ti diamo una bella dose di morfina, non farà così male. Vale la pena di provare». Serrò i denti.
«Edward, no...».
Mi zittì con un dito. «Non preoccuparti, Bella, amore. Non ho dimenti-cato il resto delle tue richieste».
Le sue mani furono tra i miei capelli, le sue labbra si mossero morbide ma determinate sulle mie, prima che capissi cosa intendeva. Cosa stesse facendo.
Non restava tempo per reagire. Se avessi aspettato troppo, non sarei riu-scita a ricordarmi perché fosse il caso di fermarlo. Già faticavo a respirare. Le mie dita affondavano nelle sue braccia, che mi stringevano a lui; la bocca era incollata alla sua e rispondeva a tutte le domande inespresse che si sentiva rivolgere.
Cercai un po' di lucidità, una maniera per parlare.
Lui rotolò con grazia e mi schiacciò contro l'erba fresca.
Oh, chi se ne importa! Esultò la parte meno nobile di me. Avevo la testa piena della dolcezza del suo respiro.
No, no, no, replicai a me stessa. Scossi la testa e la sua bocca si spostò sul mio collo, concedendomi di respirare.
«Basta, Edward. Aspetta». La mia voce era debole quanto la mia volontà.
«Perché?», sussurrò nell'incavo del mio collo.
Mi affannai per far suonare decisa la mia risposta. «Non voglio farlo o-ra».
«Ah, no?», domandò, nella voce un sorriso. Tornò a baciarmi e m'impedì di parlare. Sentivo il calore nelle vene e la pelle bruciare a contatto con la sua.
Cercai di concentrarmi. Mi occorse un grande sforzo per costringere le mani a liberarsi dai suoi capelli, a spostarsi sul suo petto. Ma ci riuscii. A quel punto feci forza per spingerlo via. Da sola non ci riuscii, ma lui reagì come mi aspettavo.
Si scostò di pochi centimetri per guardarmi, ma i suoi occhi non facevano niente per assecondare la mia decisione. Erano fuoco nero. Ardevano. «Perché?», chiese di nuovo, a voce bassa e ruvida. «Ti amo. Ti voglio. Adesso».
Le farfalle che avevo nello stomaco m'inondarono la gola. Approfittò della mia incapacità di parlare.
«Aspetta, aspetta», cercai di dire, aggirando le sue labbra.
«Io no di certo», mormorò.
«Per favore», esclamai.
Con una smorfia si allontanò da me e rotolò sul fianco.
Per qualche istante restammo immobili, in attesa che il nostro respiro rallentasse.
«Dimmi perché no, Bella», domandò. «E spero che non mi riguardi».
Che speranza sciocca. Tutto il mio mondo riguardava lui.
«Edward, per me è molto importante. Io voglio fare le cose per bene».
«Secondo quali criteri?».
«I miei».
Si appoggiò a un gomito e restò a fissarmi con uno sguardo di disappro-vazione.
«E come farai le cose per bene?».
Respirai a fondo. «Con responsabilità. Tutto nell'ordine giusto. Voglio salutare Charlie e Renée nel modo migliore. Non priverò Alice del suo di-vertimento, perciò organizzerò lo stesso un matrimonio. E mi legherò a te in ogni maniera umana possibile, prima di chiederti di rendermi immortale. Voglio solo rispettare le regole, Edward. La tua anima è troppo, troppo importante per me, non posso rischiare. E non mi smuoverai di un centi-metro».
«Magari potessi», mormorò, gli occhi ancora infuocati.
«Ma non lo faresti», dissi cercando di non perdere fermezza, «non se sa-pessi che questo è ciò che desidero davvero».
«Non stai giocando pulito», mi accusò.
Risposi sorridendo. «Non ho mai detto di volerlo fare».
Restituì il sorriso, malinconico. «Se cambi idea...».
«Sarai il primo a saperlo, te lo prometto».
Proprio in quell'istante la pioggia iniziò a cadere: poche gocce sparse che colpivano l'erba con un suono debolissimo.
Lanciai un'occhiataccia al cielo.
«Ti porto a casa». Asciugò le piccole perle d'acqua dalle mie guance.
«Non è la pioggia il problema», mugugnai. «Vedi, è giunto il momento di fare qualcosa di molto fastidioso e probabilmente pericolosissimo».
Strabuzzò gli occhi, allarmato.
«Per fortuna sei antiproiettile», sospirai. «Ho bisogno dell'anello. È ora di dirlo a Charlie».
Rise della mia espressione. «Pericolosissimo, certo». E, sempre ridendo, infilò una mano nella tasca dei jeans. «Se non altro, stavolta non dovremo nascondere le nostre tracce».
E rimise l'anello al suo posto, sull'anulare della mia mano sinistra.
Dove sarebbe rimasto... probabilmente per l'eternità.

Epilogo
Scelta

Jacob Black

«Jacob, quanto tempo pensi che ci vorrà ancora?», domandò Leah. Im-paziente. Piagnucolosa.
Serrai i denti.
Come tutti i membri del branco, Leah sapeva tutto. Sapeva perché mi trovavo proprio lì, al confine tra mare, cielo e terra. Per starmene solo. Sa-peva che non desideravo altro. Punto e basta.
Ma era decisa a impormi la sua compagnia, volente o nolente.
A parte l'irritazione che mi faceva impazzire, per un breve istante mi sentii soddisfatto. Perché non dovevo nemmeno pensare a controllare le reazioni. Era diventato un gesto più facile, spontaneo, naturale. La nebbia rossa non mi accecava più. Non sentivo il brivido di calore lungo la schie-na. Quando risposi, la mia voce era calma.
«Buttati dallo scoglio, Leah». Indicai quello che stava ai miei piedi.
«Sul serio, ragazzo». Finse di non sentire e si gettò a terra, accanto a me. «Non hai idea della fatica che faccio».
«Tu?». Mi ci volle un minuto per convincermi che dicesse sul serio. «Mi sa che sei la persona più egoista del mondo, Leah. Non voglio sbriciolare il mondo fatato in cui vivi, quello in cui il sole ti gira attorno, perciò non ti dirò quanto poco m'importa del tuo problema. Vattene via».
«E dai, per un minuto guarda le cose dal mio punto di vista, okay?», proseguì, come se non avessi neanche parlato.
Se l'intenzione era farmi cambiare umore, ci era riuscita. Scoppiai a ride-re. E quel suono mi fece provare uno strano dolore.
«Smettila di grugnire e fai attenzione», sbottò.
«Se faccio finta di ascoltare, poi te ne vai?», domandai, sbirciando il suo volto perennemente imbronciato. A quel punto non sapevo se avesse altre espressioni in repertorio.
Ricordai che una volta ritenevo che Leah fosse carina, persino bella. Era passato tanto tempo. Nessuno la considerava più così. Eccetto Sam. Non se lo sarebbe mai perdonato. Neanche l'avesse trasformata lui in quella specie di arpia acida.
Il suo malumore crebbe, come se mi avesse letto nel pensiero. Forse ne era capace.
«Ho la nausea, Jacob. Riesci a immaginare come mi sento io? A me Bella Swan nemmeno piace. E tu mi costringi a piangere l'amichetta dei vampiri come se fossi anch'io innamorata di lei. Ti rendi conto di quanto mi sento confusa? Stanotte ho sognato di baciarla! Come diavolo pensi che dovrei reagire?».
«M'importa qualcosa?».
«Non sopporto più di stare nella tua testa! Dimenticala subito! Sta per sposare quel coso. E lui cercherà di trasformarla in una di loro! È ora di guardare avanti, ragazzo».
«Chiudi il becco!», ruggii.
Non era giusto ribattere. Lo sapevo. Cercavo di trattenermi. Ma se ne sa-rebbe pentita, se non fosse andata via. Subito.
«Probabilmente finirà per ucciderla lo stesso», disse Leah. Con un ghi-gno. «Le storie dicono che succede parecchie volte. Magari il finale sarà un bel funerale, anziché un matrimonio!».
A quel punto fui costretto a trattenermi. Chiusi gli occhi e combattei contro il calore che sentivo in bocca. Cercai di scrollarmi dalla schiena il fremito infuocato, lottando per mantenere la forma che avevo mentre il corpo tentava di disobbedirmi.
Quando ripresi il controllo, la inchiodai con lo sguardo. Mi guardava le mani mentre i tremori diminuivano. E sorrideva.
Che ironia.
«Se ti senti disturbata dalla confusione tra i sessi, Leah...», dissi lenta-mente, soppesando ogni parola, «come pensi che ci sentiamo noialtri a ve-dere Sam con i tuoi occhi? Già è un problema che Emily debba sopportare la tua fissazione. Figurati se c'è bisogno che anche noi ragazzi gli sbaviamo dietro».
E, per quanto infuriato, mi sentii in colpa alla vista del fremito di dolore che apparve all'improvviso sul suo volto.
Si rimise goffamente in piedi e, fermandosi soltanto per sputarmi contro, corse verso gli alberi, vibrando come un diapason.
Sorrisi, cupo. «Mancato».
Sam mi avrebbe strigliato a dovere, ma ne era valsa la pena. Leah avrebbe smesso di darmi fastidio. Fosse capitato di nuovo, non mi sarei comportato diversamente.
Perché le sue parole erano ancora lì, ruvide nel mio cervello, il dolore così forte da impedirmi di respirare.
Non m'importava granché che Bella avesse scelto un altro. Quel dolore straziante non era niente. Sapevo di poterlo sostenere una vita intera, per quanto stupida, prolungata, intensa fosse.
La cosa importante era che stava per rinunciare a tutto: era disposta a la-sciare che il suo cuore si fermasse, che la sua pelle congelasse, che la sua mente si deformasse in quella, cristallizzata, di un predatore. Un mostro. Una sconosciuta.
Pensavo che non ci fosse niente di peggio, niente di più doloroso al mondo.
Eppure, se l'avesse davvero uccisa...
Fui di nuovo costretto a combattere contro la rabbia. Forse, se non mi avesse trattenuto la presenza di Leah, non sarebbe stato male lasciarmi tra-sformare dal calore e dal tremore in una creatura senz'altro più capace di affrontare quella situazione. Una creatura dall'istinto più forte delle semplici emozioni umane. Un animale incapace di provare un dolore come quello. Un dolore diverso. Tanto per cambiare un po'. Ma Leah stava scappando e non volevo condividere i suoi pensieri. La insultai sottovoce anche per la scelta di fuggire così.
Malgrado la mia forza di volontà, mi tremavano le mani. Per quale ra-gione? Rabbia? Tormento? Non sapevo contro cosa stavo combattendo.
Dovevo convincermi che Bella sarebbe sopravvissuta. Ma ciò richiedeva una certa fiducia. Una fiducia che non potevo concedere, la fiducia nella capacità del succhiasangue di tenerla in vita.
Chissà come avrei reagito di fronte al suo cambiamento. Vederla morire sarebbe stato come vederla trasformarsi in un essere di pietra? Di ghiaccio? Sentire il suo odore bruciarmi nelle narici e innescare l'istinto di strappare, di mordere... che effetto avrebbe fatto? Avrei mai potuto desiderare di ucciderla? Avrei mai potuto non desiderare di uccidere una di loro?
Osservavo la cresta delle onde dirette verso la costa. Sparivano dalla vi-sta, sotto il margine della scogliera, ma le udivo infrangersi sulla sabbia. Restai a guardarle fino a tardi, molto tempo dopo il calare della sera.
Probabilmente tornare a casa era una cattiva idea. Ma avevo fame e non c'erano alternative.
Con una smorfia infilai il braccio nella finta benda da ferito e afferrai le stampelle. Se Charlie non mi avesse visto, quel giorno, non avrebbe spiffe-rato a nessuno del mio "incidente in motocicletta". Stupidi accessori di scena. Non li sopportavo.
La situazione fame iniziò a migliorare quando entrai in casa e incrociai l'espressione di mio padre. Quando aveva qualcosa in testa lo si notava su-bito: esagerava sempre nel comportarsi come se niente fosse.
E poi parlava troppo. Prima ancora che mi sedessi a tavola iniziò a blate-rare della sua giornata. Si perdeva in chiacchiere soltanto se aveva qualcosa da nascondere. Feci del mio meglio per ignorarlo e mi concentrai sul cibo. Prima lo mandavo giù...
«...E poi è passata Sue». La voce di mio padre era potente. Difficile i-gnorarla. Come sempre. «Che donna straordinaria. È più tosta di un orso, quella. Non so come se la cavi con sua figlia, però. Sue sarebbe stata un gran bel lupo. Leah invece è una gallina». Ridacchiò della sua battuta.
Per un secondo restò in attesa della mia reazione, senza accorgersi della mia espressione vuota, annoiata da morire. Di solito gli dava fastidio. Era meglio che chiudesse il becco, a proposito di Leah. Stavo cercando di non pensarci.
«Seth è molto più tranquillo. Certo, anche tu eri molto più tranquillo del-le tue sorelle, prima che... Be', tu hai preoccupazioni molto più importanti delle loro».
Feci un sospiro lungo e profondo, guardando fuori dalla finestra.
Billy tacque per un secondo di troppo. «Oggi è arrivata una lettera».
Capii subito che quello era l'argomento che aveva cercato di evitare.
«Una lettera?».
«Un... invito a un matrimonio».
Tutti i muscoli del mio corpo scattarono. Sentivo la schiena solleticata da una piuma ardente. Afferrai il tavolo per tener ferme le mani.
Billy proseguì come se non si fosse accorto di nulla. «Dentro c'è un bi-glietto indirizzato a te. Non l'ho letto».
Sfilò la busta spessa, color avorio, che teneva nascosta tra la gamba e il bracciolo della sedia a rotelle. La posò al centro del tavolo.
«Probabilmente non è il caso che tu lo legga. Non importa granché cosa c'è scritto».
Stupida psicologia inversa. Afferrai di scatto la busta.
Era carta pesante, rigida. Costosa. Troppo lussuosa per Forks. Il biglietto era uguale, troppo elaborato e formale. Bella non c'entrava niente. Non c'era traccia del suo gusto personale nei fogli trasparenti con i petali in filigrana. Ero sicuro che non le piacessero affatto. Non lessi neanche una parola, nemmeno la data. Non m'importava.
C'era un foglietto di quella carta spessa d'avorio piegato in due, con il mio nome scritto a inchiostro nero. Non riconobbi la grafia, ma era leccata come il resto della confezione. Per un secondo mi chiesi se il succhiasangue godeva a prendermi in giro.
Aprii il biglietto.

Jacob,

so che spedirti questo biglietto infrange le regole. Lei aveva paura di ferirti, e non voleva che ti sentissi in alcun modo obbligato. Ma so che, se le cose fossero andate diversamente, da parte mia avrei voluto poter scegliere.

Ti prometto che mi prenderò cura di lei, Jacob. Grazie - per lei -per tutto.

Edward

«Jake, abbiamo soltanto questo tavolo», disse Billy. Fissava la mia mano sinistra.
La morsa delle dita afferrava il legno con forza tale da rischiare di di-struggerlo. Aprii le dita una a una, concentrandomi con tutto me stesso, poi strinsi una mano nell'altra per non rompere nulla.
«Vedi, tutto sommato non importa», borbottò Billy.
Mi alzai da tavola, sfilandomi la maglietta. Forse, finalmente, Leah era andata a dormire.
«Non fare tardi», bofonchiò Billy mentre spalancavo la porta di casa per gettarmi fuori.
Iniziai a correre prima di raggiungere gli alberi, lasciandomi i vestiti alle spalle come un sentiero di briciole, come volessi segnare la strada del ri-torno. Ormai era fin troppo facile trasformarmi. Non dovevo neanche pen-sarci. Il mio corpo intuiva dove volessi andare e prima ancora che glielo chiedessi mi dava ciò che volevo. A quel punto avevo quattro zampe, ed ero in volo.
Gli alberi si dissolsero in un mare nero che mi avvolgeva. I miei muscoli si contraevano e rilassavano con un ritmo naturale. Avrei potuto correre in quel modo per giorni senza stancarmi. Forse, questa volta, non mi sarei fermato.
Ma ero solo.
Mi dispiace tanto, sussurrò Embry nella mia testa.
Vedevo con i suoi occhi. Era lontano, a nord, ma aveva invertito la mar-cia e mi stava correndo incontro. Con un ruggito, accelerai.
Aspettaci, m'implorò Quil. Era più vicino, appena partito dal villaggio.
Lasciatemi stare, ringhiai.
Sentivo la loro preoccupazione nella testa, malgrado cercassi di annegarla nel rumore del vento e della foresta. Questo era ciò che odiavo di più: vedermi riflesso nei loro occhi. E adesso era ancora peggio perché nei loro occhi c'era soltanto compassione. Vedevano l'odio, ma non smettevano di rincorrermi.
Un'altra voce risuonò nella mia testa.
Lasciatelo andare. I pensieri di Sam erano tranquilli, ma l'ordine fu pe-rentorio. Embry e Quil rallentarono fino a camminare.
Se solo avessi potuto smettere di sentire, di vedere ciò che vedevano. La mia testa era affollata, l'unico modo di restare solo era tornare umano, ma a quel punto non avrei sopportato il dolore.
Trasformatevi, ordinò Sam. Vengo io a prenderti, Embry.
Prima una, poi l'altra coscienza tacquero. Restava soltanto Sam.
Grazie, riuscii a pensare.
Torna a casa appena puoi. Le parole furono deboli e svanirono nel vuo-to quando anche lui se ne andò. Lasciandomi solo.
Andava molto meglio. Finalmente udivo il fruscio debole del tappeto umido di foglie sotto le zampe, il sussurro delle ali di un gufo sopra di me, il lamento dell'oceano - lontano, lontanissimo a occidente - sulla spiaggia. Tutto questo e nient'altro. Sentivo soltanto la velocità, lo sforzo di muscoli, tendini e ossa che lavoravano in armonia, mentre mi lasciavo i chilometri alle spalle.
Perso in quel silenzio, non sarei tornato mai più. Altri prima di me ave-vano preferito questa forma all'altra. Forse, se fossi fuggito abbastanza lon-tano, non sarei stato più costretto a sentire...
Accelerai il ritmo della corsa per fuggire da Jacob Black.

Ringraziamenti

Sarei davvero negligente se non ringraziassi le tante persone che mi hanno aiutata a sopravvivere alla gestazione di un altro romanzo.

I miei genitori sono stati un'ancora di salvezza: non so come sia possibile farcela senza i buoni consigli di un papà e la spalla di una mamma su cui piangere.

Mio marito e i miei figli hanno dimostrato una pazienza incredibile - chiunque altro mi avrebbe internata in manicomio già da un pezzo. Grazie per avermi tenuta con voi, ragazzi.

La mia Elizabeth - Elizabeth Eulberg, la regina delle addette stampa - è stata decisiva per la mia salute mentale, sia in viaggio che a casa. In pochi hanno la fortuna di lavorare a così stretto contatto con le proprie migliori amiche, perciò sarò sempre in debito con certe ragazze del Midwest di sani principi che adorano il formaggio.

Jodi Reamer continua a guidare la mia carriera con genio e classe. È davvero un sollievo sapere che sono in mani così buone.

È una meraviglia sapere che anche i miei manoscritti sono in buone mani. Grazie a Rebecca Davis, che, sempre in sintonia con la storia che avevo in mente, mi ha aiutata a trovare le maniere migliori per raccontarla. Grazie a Megan Tingley, primo per la fede incrollabile nella mia opera, secondo per averla tirata a lucido fino a farla brillare.

Non riesco a credere alla fortuna di aver scoperto Lori Joffs, che, chissà come, riesce a essere contemporaneamente la lettrice più veloce e la più puntigliosa. Sono entusiasta di avere un'amica e una complice tanto pro-fonda, talentuosa, e paziente di fronte alle mie lamentele.

Ringrazio ancora Lori Joffs, che assieme a Laura Cristiano, Michaela Child e Ted Joffs, ha creato e gestisce la stella più fulgida dell'universo te-lematico di Twilight, il Lexicon.
Apprezzo sinceramente i grandi sforzi che fate nel mantenere vivo un approdo felice per i miei fan.
Grazie agli amici d'oltreoceano di crepusculoes.com, un sito così straor-dinario da superare le barriere linguistiche.
Onore anche al favoloso lavoro di Brittany Gardener, che cura il gruppo Twilight and New Moon by Stephenie Meyer su MySpace, un sito così grande che soltanto l'idea di seguirlo giornalmente mi fa perdere la testa; Brittany, sei straordinaria.
Katie e Audrey, Bella Penombra è una bellezza.
Heather, il Nexus è una forza.
Non posso citare tutti gli altri siti straordinari e i loro creatori, ma li rin-grazio tanto, uno per uno.

Molte grazie alle mie lettrici, Laura Cristiano, Michelle Vieira, Bridget Creviston e Kimberlee Peterson, per i consigli preziosi, l'entusiasmo e l'in-coraggiamento.

Ogni scrittore ha bisogno dell'amicizia di un libraio indipendente: rin-grazio per il supporto i miei concittadini del Changing Hands Bookstore di Tempe, in Arizona, specialmente Faith Hochhalter e i suoi gusti letterari impeccabili.

Vi sono debitrice, Muse, dèi del rock, per l'ennesimo album ispiratore. Grazie per aver creato ancora una volta la mia musica da scrittura preferita. Ringrazio anche tutti gli altri gruppi della playlist, che mi hanno aiutato a superare le crisi da pagina bianca, e le mie nuove scoperte: Ok Go, Placebo, Blue October e Jack's Mannequin.

Ma, soprattutto, un grazie gigantesco a tutti i miei fan. Sono fermamente convinta che siano i fan più attraenti, intelligenti, entusiasmanti e fedeli del mondo intero.
Vorrei poter regalare a ognuno di voi un grande abbraccio e una Porsche 911 Turbo.

FINE

1 commento:

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