mercoledì 17 febbraio 2010

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--->Eclipse<---
STEPHENIE MEYER
ECLIPSE
(Eclipse, 2007)

A mio marito Pancho,
per la pazienza, l'amore, l'amicizia, il buonumore
e la disponibilità a cenare fuori.
E ai miei figli Gabe, Seth ed Eli,
che mi concedono di provare quell'amore speciale
per cui si è disposti anche a morire.

Dicono alcuni che finirà nel fuoco
il mondo, altri nel ghiaccio.
Del desiderio ho gustato quel poco
che mi fa scegliere il fuoco.
Ma se dovesse due volte finire,
so pure che cosa è odiare,
e per la distruzione posso dire
che anche il ghiaccio è terribile
e può bastare.
ROBERT FROST, Fuoco e ghiaccio

PROLOGO

Ogni nostro sforzo di ingannarli si era dimostrato inutile.
Con il cuore ghiacciato, lo guardai mentre si preparava a difendermi. La sua concentrazione intensa non tradiva ombre di incertezza, malgrado fosse in svantaggio numerico. Sapevo che nessun altro poteva aiutarci: in quel momento la sua famiglia stava combattendo per la propria vita, come lui per le nostre.
Sarei mai riuscita a conoscere l'esito dell'altro combattimento? Scoprire chi aveva vinto e chi perso? Sarei sopravvissuta abbastanza a lungo?
Le probabilità non erano così alte.
Due occhi neri, imbestialiti dal desiderio implacabile della mia morte, aspettavano di cogliere in fallo il mio protettore. Aspettavano il momento giusto per uccidermi.
Da qualche parte, lontano, nel cuore della foresta fredda, un lupo ululò.

1
Ultimatum

Bella, non capisco perché tu costringa Charlie a passare bigliettini a Billy come fossimo alle elementari, se volessi parlarti mi basterebbe rispondere al

È una scelta tua, no? Non puoi tenere il piede in

Cos'è-che ti sfugge del concetto "nemici mortali", e che

Senti, so che è una reazione idiota, ma davvero non si può

Non possiamo essere amici se tu passi il tuo tempo con un branco di

Se ti penso troppo è ancora peggio, perciò ti prego di non scrivermi più

Sì, anche tu mi manchi. Un sacco. Ma tanto non serve a niente. Scusa.

Jacob.

Sfioravo il foglio con le dita e sentivo i solchi nei punti in cui aveva premuto la penna così forte sulla carta da rischiare di bucarla. Me lo immaginavo scarabocchiare furioso con la sua grafia disordinata, barrare righe su righe quando non trovava le parole giuste, o addirittura spezzare la penna in due nella mano troppo grossa, cosa che spiegava le macchie d'inchiostro di cui era cosparsa la pagina. Immaginavo le sue sopracciglia aggrottate per la frustrazione, la fronte corrugata. Se gli fossi stata accanto, forse mi sarei messa a ridere. Non farti scoppiare la testa, Jacob, gli avrei detto. Di' le cose come stanno.
Anche in quel momento avevo voglia di ridere, rileggendo le parole che già sapevo a memoria. La sua risposta al mio biglietto implorante - consegnato grazie a Charlie e poi a Billy, proprio come alle elementari - non mi sorprendeva. Ne avevo intuito il senso ancora prima di aprire la busta.
A sorprendermi era il dolore che mi provocava ogni riga cancellata, come se le lettere avessero il profilo di lame affilate. E ancora, dietro ogni incipit furioso incombeva un abisso di sofferenza: sentivo le ferite di Jacob bruciare più delle mie.
Mentre meditavo, dalla cucina giunse l'odore inconfondibile di qualcosa che cuoceva. In un'altra casa, il fatto che qualcuno stesse cucinando al mio posto non sarebbe stato fonte di panico.
Infilai il foglio stropicciato nella tasca posteriore e scesi le scale con un balzo.
Aprii lo sportello del microonde mentre il vasetto di sugo che Charlie vi aveva infilato terminava il suo primo giro.
«Dove ho sbagliato?», chiese Charlie.
«Prima devi togliere il coperchio. Il metallo non va nel microonde». Mentre parlavo aprii il vasetto, versai metà del suo contenuto in una ciotola che infilai nel microonde e riposi il vasetto nel frigo; regolai il timer e lo feci partire.
Mentre mi davo da fare, Charlie assisteva dubbioso. «Almeno gli spaghetti vanno bene?».
Osservai la pentola sul fornello, la fonte dell'odore che mi aveva messa in guardia. «Ogni tanto va mescolata», dissi a mezza voce. Trovai un cucchiaio e cercai di scomporre la poltiglia compatta che ribolliva sul fondo.
Charlie sospirò.
«Cosa stavi combinando?», chiesi.
Incrociò le braccia e restò a fissare la pioggia che scrosciava fuori dalla finestra. «Non so di cosa tu stia parlando», mugugnò.
Non riuscivo a capire. Charlie cucinava? E perché quell'aria arcigna? Edward non era ancora arrivato; di solito mio padre riservava quel genere di umore al mio ragazzo e si impegnava a definire il concetto di "indesiderato" con ogni parola e azione. Gli sforzi di Charlie, oltretutto, erano superflui: Edward sapeva esattamente cosa pensava mio padre, senza bisogno di gesti teatrali.
La parola "ragazzo" mi faceva mordicchiare le guance con una tensione innaturale, mentre mescolavo la pasta. Non era la definizione giusta, niente affatto. Avevo bisogno di qualcosa che esprimesse meglio la dedizione eterna... ma termini come "destino" e "fato" aggiungevano un che di posticcio se usati in una normale conversazione.
Nella mente di Edward c'era un'altra parola, la vera fonte della tensione che avvertivo. Solo a pensarci mi venivano i brividi.
Fidanzato. Oddio. Cercai di scrollarmi il pensiero di dosso. «Mi sono persa qualcosa? Da quando spetta a te preparare la cena?», chiesi a Charlie. Punzecchiavo il grumo di pasta che ballonzolava nell'acqua bollente. «O meglio, cercare di prepararla».
Charlie scrollò le spalle. «Non mi pare che la legge mi vieti di cucinare in casa mia».
«Se non lo sai tu...», risposi sorridendo e lanciando un'occhiata al suo distintivo appuntato sul giubbotto di pelle. «Ah ah. Buona questa». Si levò il giubbotto, come se fosse stato il mio sguardo a ricordargli che ancora lo indossava, e lo ripose sull'appendiabiti riservato al suo equipaggiamento. Il cinturone con la pistola era già a posto: da settimane non sentiva il bisogno di indossarlo, nemmeno in servizio. Nessuna sparizione inquietante aveva più turbato la vita della cittadina di Forks, nello Stato di Washington, né c'erano più stati avvistamenti di lupi giganteschi e misteriosi sotto la pioggia incessante che avvolgeva i boschi...
Scolai gli spaghetti in silenzio, sicura che Charlie avrebbe scelto da solo il momento per espormi le sue preoccupazioni. Mio padre era un uomo di poche parole e il fatto che si fosse sforzato di organizzare una cena con tutti i crismi stava a dimostrare che le parole che aveva nella testa in quel momento erano molte, molte più del solito.
Diedi la solita occhiata all'orologio, un gesto che ormai compivo meccanicamente ogni manciata di minuti. Mancava soltanto mezz'ora.
Il pomeriggio era sempre la parte più difficile della giornata. Da quando il mio ex migliore amico (e licantropo) Jacob Black aveva fatto la spia riguardo alla motocicletta che avevo guidato di nascosto - tradimento architettato in modo da farmi mettere in castigo e impedirmi di frequentare il mio ragazzo (e vampiro) Edward Cullen - a Edward era permesso di venirmi a trovare soltanto dalle sette alle nove e mezza di sera, sempre all'interno dei miei confini domestici e sotto la supervisione dell'immancabile sguardo acido di mio padre.
Un vero giro di vite, rispetto al castigo precedente, meno rigoroso, a cui ero stata costretta dopo tre giorni di lontananza immotivata da casa e un tuffo dalla scogliera.
Ovviamente vedevo Edward a scuola, e in questo Charlie non poteva mettere il becco. Inoltre, Edward passava quasi tutte le notti nella mia stanza, ma Charlie non ne era esattamente al corrente. L'abilità di Edward nell'arrampicarsi in silenzio fino alla mia finestra, al primo piano, era utile quasi quanto la sua capacità di leggere nei pensieri di mio padre.
Benché il pomeriggio fosse l'unico momento della giornata che passavo lontana da Edward, era sufficiente a rendermi irrequieta, e le ore non passavano mai. Eppure sopportavo la punizione senza lamentarmi, prima di tutto perché sapevo di averla meritata, e poi perché non sopportavo l'idea di ferire mio padre andandomene di casa proprio in quel momento, quando al mio orizzonte incombeva una separazione permanente, ancora invisibile a Charlie.
Mio padre si sedette a tavola con un grugnito e sfogliò il giornale umido. Pochi secondi dopo schioccò la lingua in segno di disapprovazione.
«Dovresti smettere di leggere il giornale, papà. Ti innervosisce e basta».
Ignorò le mie parole e continuò a mugugnare con il quotidiano tra le mani. «Ecco perché nelle città piccole si sta meglio! Ridicolo».
«Adesso che c'è che non va nelle città grandi?».
«Seattle si sta candidando a capitale nazionale degli assassini. Cinque casi irrisolti di omicidio nelle ultime due settimane. Vivresti mai in un posto del genere?».
«Credo che Phoenix si piazzi ancora meglio in classifica, papà. E io ci ho vissuto». E non avevo mai rischiato di restare vittima di un omicidio come dopo aver traslocato nella sua cittadina sicura. Anzi, comparivo nelle liste dei bersagli di parecchi killer... Tra le mie mani il cucchiaio ebbe un sussulto e fece tremare l'acqua.
«Be', io nemmeno se mi pagassero», disse Charlie.
Rinunciai a salvare la cena e la servii così com'era: fui costretta a usare il coltello da carne per tagliare la porzione di spaghetti di Charlie e poi la mia, sotto il suo sguardo rassegnato. Charlie inondò il proprio piatto di sugo e ci si buttò. Io nascosi la mia poltiglia alla stessa maniera e lo imitai, con molto meno entusiasmo. Per qualche istante mangiammo in silenzio. Charlie era ancora impegnato a studiare la cronaca, perciò ripresi la mia copia malconcia di Cime tempestose da dove l'avevo lasciata quel mattino a colazione e cercai di perdermi nell'Inghilterra di fine diciannovesimo secolo in attesa che mio padre parlasse.
Proprio mentre leggevo del ritorno di Heathcliff, Charlie si schiarì la voce e gettò a terra il giornale.
«È vero», disse. «C'è un motivo per cui ho deciso di fare questa cosa». Indicò con la forchetta la poltiglia collosa. «Volevo parlarti».
Riposi il libro; la costa era talmente distrutta che si appiattì sul tavolo. «Bastava chiedere».
Annuì aggrottando le sopracciglia. «Già. Cercherò di ricordarmelo. Pensavo che risparmiarti di cucinare ti avrebbe addolcito».
Scoppiai a ridere. «Ma certo, le tue capacità culinarie mi hanno letteralmente trasformato in uno zuccherino. Cosa c'è, papà?».
«Be', riguarda Jacob».
Sentii il mio volto irrigidirsi. «Cosa c'entra?», chiesi a fil di labbra.
«Tranquilla, Bells. So che ce l'hai ancora con lui perché ha fatto la spia, ma è stata la decisione migliore. Si è comportato in maniera responsabile».
«Responsabile», risposi aspra, alzando gli occhi al cielo. «Va bene. Cosa c'entra Jacob?».
La domanda spontanea, tutt'altro che futile, riecheggiò nella mia testa. Cosa c'entra Jacob? Come potevo essergli utile, io? Il mio ex migliore amico ormai era... cosa? Un nemico? Rabbrividii.
Charlie si accigliò all'istante. «Non arrabbiarti con me, per favore».
«Arrabbiarmi?».
«Be', la cosa ha a che fare anche con Edward».
Affilai lo sguardo.
Il tono di Charlie divenne più goffo. «Gli ho concesso di tornare a trovarti, no?».
«Certo che sì. Ma solo in orari prestabiliti. Ovviamente avresti anche potuto concedere a me di uscire in orari prestabiliti», aggiunsi scherzando, certa che la prigionia sarebbe durata fino al termine dell'anno scolastico. «Di recente mi sono comportata piuttosto bene».
«Ecco, più o meno volevo arrivare proprio qui...». A quel punto l'espressione di Charlie si rilassò in un sorriso pieno e per un istante dimostrò vent'anni in meno.
Scorsi un barlume di possibilità in quel sorriso, ma restai guardinga. «Non capisco, papà. Stiamo parlando di Jacob, di Edward o del mio castigo?».
Riecco il sorriso. «Più o meno di tutti e tre».
«E come c'entrano?», chiesi cauta.
«Okay». Fece un sospiro e alzò le mani come per arrendersi. «Ecco, pensavo che forse meriti uno sconto per buona condotta. Per l'età che hai, è straordinario quanto poco ti lamenti».
La mia voce e i miei occhi esplosero. «Davvero? Sono libera?».
Cos'era successo? Ero sicura che avrei subito gli arresti domiciliari finché non mi fossi trasferita altrove, ed Edward non aveva colto alcun tentennamento nei pensieri di Charlie...
Mio padre alzò un dito. «A una condizione».
L'entusiasmo svanì. «Grandioso», borbottai.
«Bella, questo è un sollecito più che una richiesta, d'accordo? Sei libera. Ma spero che userai la tua libertà... con giudizio».
«Cosa vuol dire?».
Fece un altro sospiro. «So che il tuo unico desiderio è di passare tutto il tuo tempo con Edward...».
«Lo passo anche con Alice», ribattei. La sorella di Edward non aveva orari di visita da rispettare: andava e veniva a suo piacimento. Nelle sue mani Charlie era come creta.
«Vero», disse Charlie. «Ma hai altri amici a parte i Cullen, Bella. O meglio, ne avevi».
I nostri sguardi s'incrociarono per un interminabile istante.
«Quand'è stata l'ultima volta che hai parlato con Angela Weber?», chiese sfidandomi.
«Venerdì a pranzo», ribattei pronta.
Prima del ritorno di Edward, i miei compagni di scuola si erano divisi in due gruppi. Per come la vedevo, le due fazioni rappresentavano il Bene e il Male. Ma anche Noi e Loro poteva andare. I buoni erano Angela, il suo ragazzo Ben Cheney e Mike Newton: i tre erano stati ben disposti a perdonarmi la pazzia a cui mi ero lasciata andare dopo la partenza di Edward. Lauren Mallory era il polo d'attrazione negativo del gruppo dei Loro: fra questi, anche la mia prima amica a Forks, Jessica Stanley, sembrava ben felice di mantenere un comportamento anti-Bella.
Ricomparso Edward, a scuola la linea di confine si era fatta ancora più netta. Il ritorno di Edward mi era costato l'amicizia di Mike, mentre la lealtà di Angela non aveva avuto tentennamenti, con Ben al suo seguito. Malgrado l'avversione spontanea che la maggior parte degli umani provava per i Cullen, ogni giorno a pranzo Angela restava seduta accanto ad Alice. Dopo qualche settimana aveva persino iniziato a sentirsi a proprio agio. Era difficile non restare affascinati dai Cullen, a patto di concedere loro la possibilità di affascinare.
«A parte la scuola?», chiese Charlie interrompendo i miei pensieri.
«Non ho visto nessuno fuori scuola, papà. Sono in castigo, ricordi? E poi, anche Angela ha un ragazzo. Sta sempre con Ben. Se fossi davvero libera», aggiunsi, sottolineando il mio scetticismo, «magari potremmo uscire tutti assieme».
«D'accordo. Però... Tu e Jacob eravate inseparabili, e adesso...».
Lo interruppi. «Ti spiacerebbe arrivare al dunque, papà? Quali sono - precisamente - le tue condizioni?».
«Non mi va bene che sacrifichi tutte le altre amicizie per stare con il tuo ragazzo, Bella», disse con voce ferma. «Non è giusto, e penso che la tua vita sarebbe più equilibrata se comprendesse anche altre persone. Quel che è successo lo scorso settembre...».
Trasalii.
«Be'», precisò, «se nella tua vita ci fosse stato qualcun altro, oltre a Edward Cullen, magari sarebbe andata diversamente».
«Sarebbe andata esattamente allo stesso modo», mormorai.
«Forse sì, forse no».
«Andiamo al dunque?», insistetti.
«Usa la tua nuova libertà per stare anche con gli altri amici. Resta in equilibrio».
Annuii lentamente. «Vada per l'equilibrio. Dovrò dividere il mio tempo in parti precise?».
Fece una smorfia e scosse il capo. «Non renderla più complicata di quanto sia. Mi basta che non dimentichi gli amici... in particolare Jacob».
Faticai a trovare le parole giuste. «Con Jacob rischia di essere... difficile».
«I Black sono amici di famiglia, Bella», disse, di nuovo serio e paterno. «E Jacob ti è stato molto, molto vicino come amico».
«Lo so».
«Non ne senti mai la mancanza?», chiese Charlie esasperato.
All'istante sentii un nodo in gola e fui costretta a schiarirla due volte prima di parlare. «Sì, mi manca», ammisi senza staccare gli occhi da terra. «Mi manca parecchio».
«E allora dov'è la difficoltà?».
Non mi era concesso dare spiegazioni. Le regole impedivano alle persone normali - gli esseri umani come me e Charlie - di venire a contatto con il mondo clandestino e segreto popolato da miti e mostri che esisteva attorno a noi. Sapevo tutto di quel mondo e la conseguenza era stata una serie di problemi non da poco. Non intendevo trascinare Charlie negli stessi guai.
«Con Jacob sono in... contrasto», scandii. «Un contrasto relativo all'amicizia, intendo. A volte sembra che Jacob non se ne possa accontentare». Ricavai la mia scusa da dettagli reali ma assolutamente insignificanti di fronte all'odio cieco che il branco di licantropi di Jacob provava nei confronti della famiglia di vampiri di Edward, e quindi nei miei, dal momento che di quella famiglia ero seriamente intenzionata a fare parte. Era un problema irrisolvibile con un semplice biglietto e le telefonate continuavano a cadere nel vuoto. Inoltre il mio piano di discuterne con il licantropo in persona era tutt'altro che gradito ai vampiri.
«Edward non accetterebbe un po' di sana rivalità?». La voce di Charlie si era fatta sarcastica.
Gli lanciai uno sguardo torvo. «Non c'è nessuna rivalità».
«Se ti ostini a evitare Jake in questo modo lo ferisci e basta. Sono sicuro che preferirebbe restarti amico, piuttosto che niente».
Ah, adesso ero io a evitarlo?
«A Jake l'amicizia non basterebbe affatto, ne sono sicura». Le parole mi bruciavano in bocca. «Come ti vengono certe idee?».
Charlie sembrava imbarazzato. «Potrei averne parlato oggi con Billy...».
«Tu e Billy spettegolate peggio di due comari», replicai stizzita, e infilai con violenza la forchetta negli spaghetti solidificati nel piatto.
«Billy è preoccupato per Jacob», disse Charlie. «Se la passa molto male... È depresso».
Trasalii, senza staccare gli occhi dal grumo di pasta.
«E poi, eri sempre così felice dopo le giornate passate con Jake», sospirò Charlie.
«Anche adesso sono felice», ruggii decisa a denti stretti.
Il contrasto tra le mie parole e il tono della voce spezzò la tensione. Charlie scoppiò a ridere e io non riuscii a trattenermi.
«Va bene, va bene», risposi. «Equilibrio».
«E Jacob», insistette.
«Ci proverò».
«Bene. Trova un equilibrio, Bella. Ah, tra l'altro, c'è posta per te», disse Charlie chiudendo il discorso senza andare troppo per il sottile. «È sul caminetto».
Restai immobile, mentre i miei pensieri si intrecciavano attorno al nome di Jacob. Probabilmente era posta inutile: avevo ricevuto un pacco da mia madre il giorno prima e non aspettavo nient'altro.
Charlie spinse la sedia lontano dal tavolo e si alzò stiracchiandosi. Infilò il piatto nel lavandino, ma prima di aprire il rubinetto per sciacquarlo si fermò e mi gettò una spessa busta. Il plico scivolò sul tavolo e fece toc contro il mio gomito.
«Ehm, grazie», mormorai meravigliata da tanta insistenza. Poi notai l'indirizzo del mittente: la lettera veniva dall'Università dell'Alaska Southeast. «Che velocità. Temevo di essere arrivata in ritardo anche con loro».
Charlie ridacchiò.
Sollevai la linguetta e gli lanciai un'occhiataccia. «È già aperta».
«Ero curioso».
«Sono allibita, sceriffo. Secondo la legge federale è un crimine».
«Oh, l'ho appena letta».
Estrassi la lettera, assieme a un orario dei corsi ripiegato.
«Congratulazioni», disse senza nemmeno aspettare che leggessi. «Domanda accettata».
«Grazie, papà».
«Credo che dobbiamo parlare della retta. Ho risparmiato qualche soldo...».
«Alt, alt, fermo lì. La tua pensione non si tocca, papà. Ho anch'io dei risparmi per il college». O meglio, ciò che restava di una cifra che non era mai stata granché.
Charlie si rabbuiò. «Certi posti sono davvero costosi, Bells. Voglio aiutarti. Non sei costretta ad andare in Alaska soltanto perché costa meno».
Non costava meno, proprio no. Però era lontano, nella città di Juneau, che vantava una media di trecentoventun giorni di cielo nuvoloso all'anno. Il primo requisito l'avevo fissato io, il secondo Edward.
«Le spese sono coperte. E poi, laggiù danno un sacco di incentivi. È facile ottenere un prestito». Speravo che il bluff non fosse troppo palese. In realtà non ero così documentata.
«Quindi...», esordì Charlie, che subito increspò le labbra e guardò altrove.
«Quindi cosa?».
«Niente. Mi chiedevo...». S'incupì. «Mi chiedevo soltanto quali fossero i... piani di Edward per l'anno prossimo».
«Ah».
«Quindi?».
Tre colpi secchi alla porta mi salvarono. Charlie alzò gli occhi al cielo e io scattai.
«Arrivo!», gridai, mentre Charlie mormorò qualcosa che somigliava a un «vattene». Lo ignorai e andai ad aprire a Edward.
Spalancai la porta con forza - e con impazienza assurda - ed eccolo, il mio miracolo personale.
Il tempo non mi aveva resa immune alla perfezione di quel viso ed ero certa che non avrei mai dato per scontato niente del suo aspetto. Con lo sguardo ripercorsi i suoi lineamenti pallidi: la mascella quadrata, la curva più morbida delle labbra piene, che in quel momento mostravano un sorriso, la linea diritta del naso, l'angolo netto delle guance, l'arco liscio e marmoreo della fronte, spezzato da un ciuffo di capelli bronzei che la pioggia aveva reso più scuri...
Gli occhi li conservai per ultimi, certa che fissarli mi avrebbe fatto perdere il filo del discorso. Erano grandi, caldi d'oro liquido, incorniciati da ciglia nere e fitte. Guardarlo negli occhi mi faceva sentire sempre straordinaria, tanto leggera che quasi non sentivo più le ossa. Mi girava anche un po' la testa, forse perché mi ero dimenticata di respirare. Di nuovo.
Qualsiasi modello al mondo avrebbe venduto l'anima per un viso come il suo. Sì, forse il prezzo era proprio quello: un'anima.
No. Non ci credevo. Mi vergognai di averci pensato e mi sentii lieta - come sempre mi capitava - di essere l'unica persona i cui pensieri fossero un mistero per Edward.
Cercai la sua mano e sospirai quando le sue dita fredde trovarono le mie. Il contatto portò con sé una stranissima sensazione di sicurezza, come una sofferenza placata all'improvviso.
«Ciao». Sorrisi del mio saluto così poco enfatico.
Sollevò le nostre dita intrecciate per sfiorarmi la guancia con il dorso della mano. «Com'è stato il pomeriggio?».
«Lento».
«Anche il mio».
Avvicinò il mio polso al suo viso senza mollare la presa. Chiuse gli occhi, lo sfiorò con il naso e sorrise delicatamente senza riaprirli. Se resisteva al vino non significava che non ne potesse apprezzare il bouquet, così aveva detto.
Sapevo che l'odore del mio sangue - per lui molto più dolce del sangue di chiunque altro, davvero una tentazione simile al vino per un alcolista - gli causava una vera sofferenza per la sete bruciante che scatenava. Ma non sembrava temerlo più come un tempo. Riuscivo a malapena a immaginare lo sforzo titanico dietro un gesto tanto semplice.
Era triste pensare che dovesse impegnarsi in quel modo. Mi consolai con la certezza che un giorno avrei smesso per sempre di torturarlo.
A quel punto sentii avvicinarsi Charlie, che sfoderava il passo pesante con cui esprimeva il consueto fastidio per l'ospite. Gli occhi di Edward si aprirono di scatto e abbassò le nostre mani, senza abbandonare le mie dita.
«Buonasera, Charlie». Edward era sempre educato e impeccabile, benché Charlie non meritasse tanto.
Charlie brontolò qualcosa e poi restò fermo a braccia conserte. Da qualche tempo la sua idea di "controllo paterno" era un po' estrema.
«Ho portato qualche altra domanda d'iscrizione», mi disse Edward sfoderando una busta imbottita strapiena. Sul mignolo portava un rotolo di francobolli a mo' di anello.
Risposi con una smorfia. Com'era possibile che fossero rimasti altri college a cui ancora non mi aveva obbligata a presentare domanda? Come faceva a trovare sempre nuove scappatoie? Ormai l'anno scolastico era quasi finito.
Sorrise come se davvero mi leggesse nel pensiero: evidentemente l'espressione svelava tutto. «C'è ancora qualche termine non scaduto. Università disposte a fare un'eccezione».
Non era difficile immaginare cosa giustificasse le eccezioni. E quanti dollari ci fossero dietro.
Edward rise della mia espressione.
«Dopo di lei», disse spingendomi verso il tavolo della cucina.
Charlie sbuffò e ci seguì, benché non potesse lamentarsi del programma della serata. Non passava giorno senza che mi tormentasse con la necessità di scegliere il college.
Sparecchiai alla svelta, mentre Edward metteva in ordine una pila inquietante di moduli. Quando spostai Cime tempestose sul piano della cucina, Edward alzò un sopracciglio. Sapevo cosa stava pensando, ma Charlie lo interruppe prima che potesse commentare.
«A proposito di college e iscrizioni, Edward», disse mio padre, il tono di voce ancora più burbero - si sforzava di non parlare mai con Edward e, quando vi era costretto, il suo malumore saliva alle stelle, «io e Bella stavamo giusto parlando dell'anno prossimo. Hai deciso che istituto frequenterai?».
Edward sorrise a Charlie e parlò in tono amichevole. «Non ancora. Ho ricevuto qualche risposta positiva, ma ogni opzione resta aperta».
«Dove ti hanno accettato?», insistette Charlie.
«Syracuse... Harvard... Dartmouth... e oggi mi è arrivata anche la risposta positiva dell'Alaska Southeast». Edward si voltò verso di me quel tanto che bastava per strizzarmi l'occhio. Soffocai un risolino.
«Harvard? Dartmouth?», borbottò Charlie, incapace di nascondere l'irritazione. «Be', è davvero... qualcosa. Già, ma l'Università dell'Alaska... non dirmi che la prenderai in considerazione, di fronte alla possibilità di frequentare istituti così prestigiosi. Voglio dire, immagino che tuo padre preferisca che tu...».
«Carlisle accetta sempre di buon grado le mie scelte», rispose Edward, sereno.
«Mmm».
«Indovina un po', Edward», dissi con voce squillante, stando al gioco.
«Cosa, Bella?».
Indicai la busta spessa sul ripiano della cucina. «L'Università dell'Alaska ha appena accettato la mia domanda di iscrizione!».
«Congratulazioni!». Sorrise. «Che coincidenza».
Lo sguardo torvo di Charlie faceva avanti e indietro tra me ed Edward. «Bene», mormorò dopo un minuto. «Vado a vedere la partita, Bella. Nove e mezza».
Era l'ordine con cui si congedava, sempre.
«Ehm, papà? Ricordi la recentissima discussione a proposito della mia libertà?».
Fece un sospiro. «Certo. Va bene, dieci e mezza. Nei giorni di scuola resta il coprifuoco».
«Bella non è più in castigo?», chiese Edward. Malgrado la sua sorpresa non fosse sincera, non sentii forzature nell'improvviso entusiasmo della sua voce.
«Libertà vigilata», precisò Charlie a denti stretti. «A te cosa importa?».
Lanciai un'occhiataccia a mio padre, che non se ne accorse.
«È bello saperlo», disse Edward. «Alice è alla disperata ricerca di una compagna per lo shopping, e sono certo che a Bella piacerebbe dare un'occhiata alle luci della città». Mi sorrise.
Ma Charlie ruggì: «No!», e si fece rosso in viso.
«Papà? Cosa c'è che non va?».
Si sforzò di rilassare i lineamenti contratti. «Non voglio che tu vada a Seattle, per il momento».
«Eh?».
«Ti ho detto dell'articolo sul giornale: c'è una specie di banda assetata di sangue a Seattle e voglio che tu ne resti lontana, okay?».
Alzai gli occhi al cielo. «Papà, le probabilità che un fulmine mi colpisca sono più alte di quelle che a Seattle...».
«No, ha ragione, Charlie», disse Edward, interrompendomi. «Non intendevo Seattle. In realtà pensavo a Portland. Nemmeno io porterei mai Bella a Seattle. Ci mancherebbe».
Lo guardai incredula, ma a quel punto aveva afferrato il giornale di Charlie e leggeva la prima pagina con attenzione.
Probabilmente cercava di placare mio padre. L'idea che il più pericoloso degli esseri umani potesse farmi del male, se al mio fianco c'erano Alice o Edward, era decisamente ridicola.
Funzionò. Charlie fissò Edward per un secondo ancora, e scrollò le spalle. «D'accordo». Si diresse in salotto a grandi passi, quasi di fretta: forse non voleva perdersi l'inizio della partita.
Attesi che Charlie accendesse la TV, così che non potesse sentirmi.
«Cosa...», cercai di chiedere.
«Aspetta», disse Edward senza alzare gli occhi dal giornale. Con lo sguardo fisso sulla pagina mi avvicinò il primo modulo sul tavolo. «Per questo penso che tu possa riciclare le tue tesine. Stesse domande».
Evidentemente Charlie ci stava ascoltando. Sospirai e iniziai a scrivere le solite informazioni: nome, indirizzo, numero di previdenza sociale... Qualche minuto dopo alzai lo sguardo, ma trovai Edward assorto, lo sguardo perso fuori dalla finestra. Tornai al lavoro e per la prima volta notai il nome dell'istituto.
Feci una smorfia e allontanai i moduli.
«Bella?».
«Sii serio, Edward. Dartmouth?».
Edward sollevò il modulo che avevo appena scartato e lo ripose con delicatezza di fronte a me. «Credo che il New Hampshire ti piacerà», disse. «Per me c'è un programma completo di corsi serali, e per gli appassionati di trekking non mancano le foreste. Ricche di animali selvatici». Sfoderò il sorriso sghembo a cui sapeva che non avrei resistito.
«Ti concederò di restituirmi i soldi, se proprio ci tieni», promise. «Se vuoi posso chiederti anche gli interessi sul prestito».
«Come se potessi superare la prova d'ammissione senza imbrogliare clamorosamente. Oppure vuoi dirmi che sarebbe tutto compreso nel prestito? Ci sarà una nuova "sala Cullen" in biblioteca? Uffa. Perché rifacciamo questo discorso?».
«Ti dispiacerebbe finire di riempire il modulo, per favore, Bella? Per una domanda di ammissione non muore nessuno».
La mia mascella si contrasse. «Sai una cosa? Penso che non lo farò».
Cercai i moduli, decisa ad accartocciarli in una forma che potessi scagliare nella spazzatura, ma non c'erano già più. Per un istante fissai il tavolo vuoto e poi Edward. Sembrava che non si fosse mosso, ma probabilmente la domanda di iscrizione era già al sicuro nella tasca del suo giubbotto.
«Cosa credi di fare?», chiesi.
«Sono capace di fare la tua firma persino meglio di te. E il resto l'hai già scritto di tuo pugno».
«Stai tirando un po' troppo la corda, e lo sai bene». Parlavo a bassa voce, nell'eventualità che Charlie non fosse del tutto perso nella partita. «Non è necessario che chieda di iscrivermi altrove. Mi hanno già accettata all'Alaska. Posso quasi permettermi la retta del primo semestre. Come alibi va bene. Non c'è bisogno di sprecare un mucchio di soldi, poco importa di chi siano».
Uno sguardo spaventato indurì la sua espressione. «Bella...».
«Non cominciare. Capisco di dover inscenare tutto al meglio, per il bene di Charlie, ma sappiamo entrambi che il prossimo autunno non sarò in grado di iscrivermi a nessuna università. Né di avvicinare le persone».
Avevo un'idea ancora approssimativa di cosa sarebbero stati i miei primi anni da vampira. Edward non era mai sceso nei dettagli - non era il suo argomento preferito - ma sapevo che non erano piacevoli. L'autocontrollo era solo apparentemente una qualità acquisita. E al massimo, potevo concedermi dei corsi per corrispondenza.
«Pensavo che non avessimo ancora parlato di tempi», mi ricordò Edward in un bisbiglio. «Può darsi che ti piaccia frequentare un semestre o due di università. Ci sono un sacco di esperienze umane che non hai mai fatto».
«Per quelle avrò tempo dopo».
«Non ci saranno più esperienze umane, dopo. Non avrai un'altra possibilità, Bella».
Sospirai. «Devi pensare con razionalità al modo e al tempo, Edward. È troppo pericoloso cincischiare».
«Non siamo ancora in pericolo», insistette.
Gli lanciai un'occhiataccia. Non eravamo in pericolo? Certo che no. C'era soltanto una vampira sadica desiderosa di vendicare la morte del suo compagno uccidendo me, preferibilmente con una lenta tortura. Era il caso di preoccuparsi di Victoria? Ah, già, c'erano anche i Volturi - la famiglia reale dei vampiri, con il loro piccolo esercito di guerrieri - determinati ad arrestare i battiti del mio cuore, prima o poi, in un futuro prossimo, perché a nessun umano era concesso di sapere della loro esistenza. Certo. Non c'era nessun motivo per andare nel panico.
Benché Alice fosse all'erta - Edward confidava che le sue visioni soprannaturali del futuro ci avrebbero avvertiti in anticipo - rischiare era una follia.
Inoltre, avevo già chiuso il discorso. La data della mia trasformazione era stata fissata all'incirca poco dopo la consegna dei diplomi di scuola superiore, giorno da cui ci separava soltanto una manciata di settimane.
Una fitta di inquietudine mi perforò lo stomaco quando mi resi conto che mancava così poco tempo. Certo, la trasformazione, oltre a rappresentare la chiave di ciò che desideravo più di ogni cosa al mondo, era indispensabile, ma sentivo forte la presenza di mio padre, seduto nell'altra stanza a godersi la partita, come ogni sera. E di mia madre Renée, lontana, sotto il sole della Florida, che ancora mi implorava di passare l'estate assieme a lei e al suo nuovo marito. E di Jacob, che a differenza dei miei genitori sapeva esattamente cosa sarebbe successo dopo la mia partenza per una università lontana. Anche se per un bel po' mio padre e mia madre non avessero sospettato nulla, anche se fossi riuscita a cancellare le visite con qualche scusa legata alle spese di viaggio, allo studio o alla malattia, Jacob avrebbe intuito la verità.
Per un istante il pensiero del suo disgusto inevitabile sovrastò ogni altra sofferenza.
«Bella», mormorò Edward, il volto contratto quando colse l'inquietudine sul mio. «Non è il caso di avere fretta. Ci sarò io a difenderti. Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi».
«Voglio fare in fretta», sussurrai sforzandomi di sorridere, cercando di fare dell'ironia. «Anch'io voglio essere un mostro».
Serrò i denti e parlò, rigido. «Non ti rendi conto di ciò che dici». All'improvviso frustò con il giornale umido il tavolo che ci divideva. Puntò un dito sul titolo in prima pagina:

CONTINUA LA SCIA DI OMICIDI
LA POLIZIA: FORSE È UNA BANDA

«E questo cosa c'entra?».
«I mostri non sono uno scherzo, Bella».
Fissai di nuovo il titolo e tornai all'espressione contratta di Edward. «È... è colpa di un vampiro?», sussurrai.
Sorrise serio. La sua voce era bassa e gelida. «Saresti sorpresa, Bella, se ti raccontassi quanto spesso sono quelli della mia razza a riempire di orrore le vostre cronache. Chi sa vedere li riconosce facilmente. A giudicare da queste informazioni, c'è un vampiro appena nato a piede libero, a Seattle. Assetato di sangue, selvaggio, fuori controllo. Come siamo stati tutti».
Posai di nuovo lo sguardo sul giornale, evitando i suoi occhi.
«Teniamo d'occhio la situazione da qualche settimana. I segni ci sono tutti: sparizioni improbabili, sempre di notte, cadaveri celati male, assenza di altri indizi... Sì, uno nuovo. E nessuno sembra vegliare l'attività del neofita...». Prese fiato. «Be', non è un problema nostro. Non ci occuperemmo neanche della faccenda, se non fosse così vicino a casa nostra. Te l'ho detto, succede di continuo. La presenza dei mostri implica conseguenze mostruose».
Cercai di non leggere i nomi sulla pagina, ma risaltavano tra le colonne come fossero scritti in grassetto. Cinque persone la cui vita era terminata, le cui famiglie erano in lutto. Leggere quei nomi era diverso dal pensare in astratto all'omicidio. Maureen Gardiner, Geoffrey Campbell, Grace Razi, Michelle O'Connell, Ronald Albrook. Persone che avevano avuto genitori, figli, amici, animali domestici, lavori, speranze, progetti, ricordi e futuro...
«Per me sarà diverso», sussurrai, parlando anche a me stessa. «Tu non mi permetterai di diventare così. Vivremo in Antartide».
Edward sbuffò e spezzò la tensione. «In mezzo ai pinguini. Sai che bello».
Mi lasciai sfuggire una risata nervosa e per non avere più quei nomi sott'occhio cacciai via il giornale, che cadde sul pavimento con un colpo secco. Era ovvio che Edward valutasse le possibilità di caccia. Lui e i suoi familiari "vegetariani", tutti impegnati a salvaguardare la vita degli umani, per soddisfare le proprie necessità alimentari preferivano il sapore dei grandi predatori. «Allora Alaska, come abbiamo deciso. Magari in un posto più isolato di Juneau... dove ci siano un sacco di grizzly».
«Così va meglio», concesse. «Ci sono anche gli orsi polari. Molto cattivi. E i lupi sono piuttosto grossi».
Spalancai la bocca con un respiro secco.
«Che c'è che non va?», chiese Edward. Prima che potessi riprendermi, la confusione svanì e il suo corpo sembrò irrigidirsi. «Oh, va bene, lasciamo perdere i lupi, se l'idea ti mette a disagio». La sua voce era severa, formale, le spalle rigide.
«Era il mio migliore amico, Edward», mormorai. Usare l'imperfetto mi bruciava. «È ovvio che l'idea mi metta a disagio».
«Perdona la mia leggerezza», disse, sempre molto formale. «Era meglio non entrare nel dettaglio».
«Non preoccuparti». Guardai le mie mani, strette a pugno sul tavolo.
Per qualche istante restammo in silenzio, e a quel punto sentii il suo dito freddo che, da sotto il mento, cercava di sollevarmi il viso. La sua espressione era di nuovo molto rilassata.
«Scusa. Davvero».
«Lo so. So che non è lo stesso. Non avrei dovuto reagire così. È solo che... be', stavo pensando a Jacob già prima che tu arrivassi». Non sapevo come continuare. I suoi occhi fulvi sembravano farsi più scuri ogni volta che pronunciavo il nome di Jacob. La mia voce si fece implorante. «Secondo Charlie, Jake se la passa male. Sta soffrendo... per colpa mia».
«Non hai fatto niente di male, Bella».
Respirai a fondo. «Ho bisogno di aiutarlo, Edward. Glielo devo. Oltretutto, Charlie l'ha posta tra le sue condizioni...».
Mentre parlavo cambiò espressione e ridiventò rigido come una statua.
«Sai bene che è fuori discussione che tu frequenti un licantropo senza che nessuno ti protegga, Bella. E se uno di noi entrasse nel loro territorio, infrangeremmo il patto. Vuoi forse che scateniamo una guerra?».
«Certo che no!».
«Allora non ha senso continuare a discutere». Ritirò la mano e guardò altrove, in cerca di un appiglio per cambiare argomento. Si soffermò su qualcosa alle mie spalle e sorrise, malgrado lo sguardo preoccupato.
«Sono lieto che Charlie abbia deciso di lasciarti uscire, temo che tu abbia bisogno di fare visita a una libreria. Non posso credere che stia rileggendo Cime tempestose. Non lo sai a memoria ormai?».
«Non tutti abbiamo una memoria fotografica», tagliai corto.
«Memoria fotografica o no, non capisco come faccia a piacerti. I protagonisti sono personaggi disgustosi che si rovinano la vita a vicenda. Non mi capacito del fatto che Heathcliff e Cathy siano considerati al livello di coppie come Romeo e Giulietta oppure Elizabeth Bennet e Darcy. La loro è una storia d'odio, non d'amore».
«Proprio non ti vanno giù i classici, eh?», sbottai.
«Forse è perché non mi colpisce ciò che è antico». Sorrise, evidentemente lieto di avere dirottato la mia attenzione. «Seriamente, perché ti ostini a rileggerlo?». A quel punto i suoi occhi erano accesi di vero interesse, per l'ennesima volta desiderosi di sciogliere i pensieri annodati nella mia mente. Si sporse sopra il tavolo per prendermi il viso tra le mani. «Cos'è che ti attira tanto?».
La sua curiosità sincera mi colse di sorpresa. «Non saprei», risposi, in cerca di un barlume di coerenza mentre il suo sguardo scompigliava involontariamente i miei pensieri. «Penso abbia a che fare con l'inevitabilità della loro unione. Niente può separarli: né l'egoismo di lei, né la cattiveria, e alla fine la morte...».
Valutava le mie parole con espressione pensierosa. Dopo qualche istante sfoderò un sorriso ironico. «Continuo a pensare che sarebbe una storia migliore se uno dei due avesse almeno un pregio».
«Forse il punto è proprio questo», replicai. «L'unico pregio che hanno è il loro amore».
«Spero che tu non sia tanto temeraria da innamorarti di una persona così... malevola».
«Ormai è tardi per decidere di chi innamorarmi. E nonostante le raccomandazioni, mi sembra di essermela cavata piuttosto bene».
Ridacchiò. «Sono lieto che tu ne sia convinta».
«Be', io spero che tu sia abbastanza sveglio da evitare una persona tanto egoista. La vera origine di tutti i problemi è Catherine, non Heathcliff».
«Starò in guardia», promise.
Sospirai. Era proprio bravo a cambiare discorso.
Gli strinsi la mano perché non si allontanasse dal mio viso. «Ho bisogno di vedere Jacob».
Chiuse gli occhi. «No».
«Guarda che non è pericoloso», dissi implorante. «Ho passato giornate intere a La Push assieme a tutti loro e non è mai successo niente».
Ma mi tradii: alla fine della frase la mia voce cedette, perché mi resi conto che tra le mie parole c'era una bugia. Non era vero che non fosse mai successo niente.
Un'immagine mi passò davanti - un enorme lupo grigio rannicchiato e pronto a scattare, che mi mostrava i denti affilati come lame - e mi fece sudare freddo, portando con sé l'eco di un vecchio spavento.
Edward sentì il mio cuore accelerare e annuì, come se avessi confessato ad alta voce. «I licantropi sono instabili. Chi gli sta accanto finisce per farsi male. Qualcuno ha rischiato anche la morte».
Avrei voluto controbattere, ma un'altra immagine me lo impedì. Visualizzai il volto di Emily Young, un tempo bello ma ora rovinato da tre cicatrici scure che le curvavano l'angolo dell'occhio destro e condannavano la sua bocca a una smorfia eterna di dolore e sofferenza.
Torvo e trionfante, restò in attesa che ritrovassi la voce.
«Non li conosci», sussurrai.
«Li conosco meglio di quanto pensi, Bella. L'ultima volta, io c'ero».
«L'ultima volta?».
«La nostra strada incrociò quella dei lupi circa settant'anni fa... Ci eravamo appena stabiliti nei pressi di Hoquiam. Fu prima che Alice e Jasper si unissero a noi. Eravamo più numerosi di loro, ma ciò non sarebbe bastato a impedire lo scontro, se non ci fosse stato Carlisle. Riuscì a convincere Ephraim Black che la coesistenza era possibile, e alla fine sancimmo la tregua».
Il nome del bisnonno di Jacob mi fece trasalire.
«Pensavamo che la discendenza non fosse andata oltre Ephraim», mormorò Edward; sembrava stesse parlando da solo. «Che il difetto genetico all'origine della mutazione fosse sparito...». Perse le staffe e mi lanciò uno sguardo accusatore. «La tua malasorte sembra farsi più potente ogni giorno che passa. Ti rendi conto che la tua attrazione inarrestabile verso tutto ciò che è letale è riuscita addirittura a salvare dall'estinzione un branco di canidi mutanti? Se fosse possibile imbottigliare la tua sfortuna, avremmo tra le mani un'arma di distruzione di massa».
Ignorai la battuta, scossa com'ero dalla sua deduzione: diceva sul serio? «Ma non sono stata io a riportarli in vita. Non lo sai?».
«Che cosa?».
«La mia sfortuna non c'entra nulla. I licantropi sono tornati quando sono riapparsi i vampiri».
Edward mi fissò, pietrificato dallo stupore.
«Jacob mi ha raccontato che è stata la presenza della tua famiglia a rimettere tutto in moto. Pensavo già lo sapessi...».
Mi guardò torvo. «Ne sono proprio convinti?».
«Edward, considera i fatti. Settant'anni fa, quando siete arrivati, ecco comparire i licantropi. Ora siete tornati, e riecco anche loro. La giudichi una coincidenza?».
Sbarrò gli occhi e il suo sguardo si rilassò. «Carlisle troverà interessante la tua teoria».
«Teoria, certo», sbuffai.
Per un istante restò zitto, lo sguardo perso nella pioggia fuori dalla finestra; forse rifletteva sul fatto che la presenza della sua famiglia avesse trasformato certi indigeni in cani giganti.
«Interessante, ma non del tutto rilevante», sussurrò poco dopo. «La situazione non cambia».
La traduzione era molto facile: niente amici licantropi.
Sapevo di dover portare pazienza, con Edward. Il problema non era la sua razionalità, ma la sua incapacità di capire. Non si rendeva conto di quanto dovessi a Jacob Black: mi aveva salvato più volte la vita, e forse solo grazie a lui non ero impazzita.
Di quel brutto periodo non mi andava mai di parlare con nessuno, tanto meno con Edward. Andandosene, aveva soltanto cercato di salvarmi, di salvare la mia anima. Non lo ritenevo responsabile delle stupidaggini che avevo commesso in sua assenza, né di quanto avevo sofferto.
Lui invece sì.
Perciò, era il caso di soppesare con cura ogni spiegazione.
Mi alzai per spostarmi dall'altra parte del tavolo. Aprì le braccia per accogliermi e mi sedetti in braccio a lui, protetta dalla sua stretta potente e fredda. Parlai guardandogli le mani.
«Ti prego, ascoltami per un minuto soltanto. Per me è importante, non è solo il capriccio di voler rivedere un vecchio amico. Jacob sta male». Pronunciai l'ultima parola con voce secca. «Non posso non cercare di aiutarlo, non posso abbandonarlo ora che ha bisogno di me. Soltanto perché non è sempre umano... Be', lui mi è stato vicino quando nemmeno io ero più... tanto umana. Tu non sai come mi sono sentita...». Non trovavo le parole. Le braccia di Edward mi cingevano rigide, stringeva i pugni, i tendini erano contratti. «Se Jacob non mi avesse aiutata... non so cosa avresti trovato al tuo ritorno. Gli devo molto più di tutto questo, Edward».
Preoccupata, osservai la sua espressione. Teneva gli occhi chiusi e la mascella rigida.
«Non mi perdonerò mai di averti abbandonata», sussurrò. «Nemmeno se vivrò altri mille anni».
Avvicinai una mano al suo viso e attesi finché non lo vidi sospirare e aprire gli occhi.
«Hai soltanto cercato di prendere la decisione migliore. E sono certa che avrebbe funzionato, con qualcuno meno pazzo di me. Ma adesso sei qui. Solo questo conta».
«Se non me ne fossi andato, adesso non ti sentiresti in. dovere di rischiare la vita per aiutare un cane».
Mi irrigidii. Ero abituata a Jacob e a certe ingiurie offensive, come succhiasangue, sanguisuga, parassita... che pronunciate dalla voce vellutata di Edward sembravano davvero sgraziate.
«Non trovo le parole giuste per dirtelo», rispose Edward, cupo. «Ti sembrerà crudele, temo. Ma ho rischiato già troppe volte di perderti. So quanto pesa la certezza di non averti più. Non intendo tollerare alcun comportamento pericoloso».
«Ti chiedo soltanto di fidarti. Andrà tutto bene».
Di nuovo il dolore sul suo viso. «Bella, per favore», sussurrò.
Fissai i suoi occhi dorati d'un tratto accesi. «Per favore cosa?».
«Per favore, fallo per me. Per favore, sii razionale e sforzati di proteggere te stessa. Io farò tutto il possibile, ma mi piacerebbe che collaborassi almeno un po'».
«Farò del mio meglio», mormorai.
«Hai idea di quanto importante tu sia per me? Riesci a renderti conto di quanto ti amo?». Mi strinse più forte contro il suo petto marmoreo e accolse la mia testa sotto il mento.
Sfiorai con le labbra il suo collo freddo come la neve. «Mi rendo conto del mio amore per te», risposi.
«È come paragonare un alberello a un'intera foresta».
Alzai gli occhi al cielo senza che Edward potesse vedermi. «Impossibile».
Mi baciò la testa e sospirò.
«Niente licantropi».
«Non intendo obbedire. Devo vedere Jacob».
«Allora sarò costretto a fermarti».
Sembrava sicurissimo che non sarebbe stato un problema.
E sapevo che aveva ragione.
«Vedremo», risposi bluffando. «È ancora mio amico».
Il biglietto di Jacob nella tasca era diventato ingombrante, come se all'improvviso pesasse cinque chili. Riuscivo a sentirlo parola per parola, come se mi stesse parlando, sembrava quasi d'accordo con Edward, eppure nella realtà non lo sarebbe stato mai.
Ma tanto non serve a niente. Scusa.

2
Evasione

Mi sentivo stranamente sollevata mentre uscivo dalla lezione di spagnolo e andavo a mensa. Certo, camminavo mano nella mano con la persona più perfetta del pianeta, ma la ragione non era soltanto quella.
Forse era la consapevolezza di avere scontato la condanna, di essere tornata in libertà.
O forse non aveva niente a che fare con me. Forse era l'atmosfera di libertà che aleggiava in tutta la scuola. Le lezioni stavano per finire e, soprattutto per quelli dell'ultimo anno, l'eccitazione nell'aria era palpabile.
La libertà era tanto vicina da poterla toccare, gustare. C'erano indizi dappertutto. I poster intasavano le pareti della mensa, i bidoni della spazzatura erano coperti di volantini che li sommergevano di colori: reclamizzavano almanacchi dell'anno scolastico, distintivi delle classi e annunci vari; scadenze entro cui ordinare le toghe dei diplomati, i cappelli e i fiocchi; slogan su cartelli fluorescenti - la campagna elettorale per le elezioni dei rappresentanti di classe - e inquietanti avvisi, decorati di rose, per il ballo di fine anno. Alla grande festa mancava soltanto poco più di una settimana, ma avevo obbligato Edward a non infliggermela mai più. Dopotutto, quel genere di esperienza umana l'avevo già fatto.
Probabilmente a rendermi così raggiante era la mia libertà personale. La fine dell'anno scolastico non suscitava in me la stessa soddisfazione che vedevo negli altri studenti. Anzi, mi sentivo nervosa e quasi nauseata ogni volta che ci pensavo. Cercavo di non pensarci.
Ma era difficile sfuggire a un argomento di conversazione così onnipresente.
«Avete già spedito gli inviti?», chiese Angela quando io ed Edward ci accomodammo al nostro tavolo. Aveva raccolto i capelli castano chiaro in una coda disordinata, anziché nella sua solita acconciatura impeccabile, e nel suo sguardo c'era un che di ansioso.
Anche Alice e Ben erano già arrivati e occupavano i posti di fianco ad Angela. Ben era assorto nella lettura di un fumetto, gli occhiali gli scivolavano sul naso affilato. Alice osservava il mio banale abbinamento di jeans e maglietta con un'aria che mi metteva a disagio. Probabilmente stava architettando l'ennesimo cambiamento. Sospirai. Il mio atteggiamento indifferente nei confronti della moda era una spina nel fianco, per lei. Se glielo avessi permesso, mi avrebbe vestita volentieri ogni giorno - anche più volte al giorno - come una specie di bambola di carta in tre dimensioni, a grandezza naturale.
«No», risposi ad Angela. «Ma d'altronde non ne ho bisogno. Renée già conosce la data del diploma. Chi altro mi manca?».
«E tu, Alice?».
Alice sorrise. «Tutto a posto».
«Fortunata», sospirò Angela. «Mia madre ha mille cugini e pretende che compili tutti gli indirizzi a mano. Mi verrà la sindrome del tunnel carpale. Non posso più posticipare e sono terrorizzata».
«Ti posso aiutare io», proposi. «Se non badi troppo alla mia scrittura orrenda».
Così avrei fatto felice Charlie. Con la coda dell'occhio notai il sorriso di Edward. Avrei fatto felice anche lui, rispettando le condizioni di Charlie senza coinvolgere i licantropi.
Angela parve tranquillizzarsi. «Sei davvero gentile. Vengo da te quando vuoi».
«A dire la verità preferirei venire io da te, se non è un problema: ho la nausea di casa mia. Charlie mi ha rimessa in libertà ieri sera». Le diedi la buona notizia con un sorriso.
«Davvero?», chiese Angela e un leggero entusiasmo accese i suoi occhi castani sempre così dolci. «Sbaglio o avevi detto che era un ergastolo?».
«Sono più sorpresa di te. Pensavo di dover aspettare come minimo la fine dell'anno scolastico, prima che mi liberasse».
«Be', è una grande notizia, Bella! Dobbiamo uscire a festeggiare!».
«Non hai idea di quanto ne abbia voglia».
«Cosa facciamo?», commentò Alice, lo sguardo acceso di impazienza. Le idee di Alice di solito erano un po' troppo grandiose per i miei standard e in quel momento le leggevo negli occhi la tipica tendenza a esagerare quando si trattava di mettersi all'opera.
«Qualunque cosa tu stia pensando, Alice, dubito di essere così libera di farla».
«La libertà è la libertà, no?», insistette lei.
«Di sicuro ho dei confini da rispettare, per esempio quelli degli Stati Uniti».
Angela e Ben risero, ma Alice si lasciò andare a una smorfia di sincero disappunto.
«E stasera cosa facciamo?», si ostinò.
«Niente. Aspettiamo un paio di giorni per essere certe che non sia uno scherzo. E poi domani c'è lezione».
«Allora festeggiamo nel weekend». Soffocare l'entusiasmo di Alice era impossibile.
«D'accordo», risposi nella speranza di placarla. Sapevo che non avrei fatto niente di troppo sfacciato: meglio proseguire un passo alla volta, con Charlie. Dargli la possibilità di apprezzare la mia lealtà e la mia maturità, prima di chiedergli altri favori.
Angela e Alice iniziarono a valutare le possibilità; Ben mise da parte i fumetti e si unì alla conversazione. La mia attenzione si perse altrove. Con mia grande sorpresa, all'improvviso la libertà non era più l'argomento entusiasmante di pochi istanti prima. Mentre le ragazze decidevano cosa fare a Port Angeles o magari a Hoquiam, iniziai a sentirmi più nervosa.
Non mi occorse molto per capire da dove nascesse la mia inquietudine.
Da quando avevo detto addio a Jacob Black, nel bosco di fronte a casa mia, ero stata perseguitata dalle intrusioni insistenti e fastidiose di un'immagine ben precisa. Spuntava tra i miei pensieri a intervalli regolari come una radiosveglia fastidiosa programmata per suonare ogni mezz'ora e mi riempiva la testa con l'apparizione del viso di Jacob contratto dal dolore. Era l'ultimo ricordo che avevo di lui.
Quella visione dolorosa mi colpì di nuovo e compresi perfettamente perché non fossi soddisfatta della mia libertà. Perché era incompleta.
Certo, ero libera di andare dovunque volessi... esclusa La Push. Libera di fare ciò che mi andava... escluso vedere Jacob. Fissai torva il tavolo. Doveva esserci una via di mezzo.
«Alice? Alice!».
La voce di Angela mi risvegliò bruscamente dalle riflessioni in cui mi ero persa. Sventolava una mano di fronte al viso inerte e impassibile di Alice. Era un'espressione che conoscevo, quella che mi faceva scattare immediatamente il panico. Lo sguardo vuoto nei suoi occhi era segno che stava vedendo qualcosa di molto diverso dal banale scenario di commensali che ci circondava, qualcosa che però, a suo modo, era altrettanto reale. Qualcosa che presto sarebbe accaduto. Sentii le mie guance sbiancare.
Poi Edward rise in modo molto naturale e rilassato. Angela e Ben lo guardarono, ma io non riuscivo a staccare gli occhi da Alice. Che all'improvviso scattò come se qualcuno l'avesse scalciata da sotto il tavolo.
«È già l'ora del sonnellino, Alice?», la provocò Edward.
Lei tornò in sé. «Scusate. Mi sa che stavo sognando a occhi aperti».
«Meglio sognare a occhi aperti che affrontare altre due ore di lezione», disse Ben.
Alice si gettò nella conversazione con più entusiasmo di prima - forse un po' troppo. A un certo punto vidi il suo sguardo incrociare quello di Edward, per un istante, e tornare a fissare Angela prima che chiunque potesse notarlo. Edward, muto, giocava distratto con una ciocca dei miei capelli.
Aspettai con ansia l'opportunità di chiedergli cos'avesse visto sua sorella, ma il pomeriggio trascorse senza che riuscissimo a restare soli nemmeno per un minuto.
Mi sembrava strano, come se lo facesse apposta. Dopo pranzo Edward rallentò il passo per seguire Ben e parlare con lui di un certo compito, che di sicuro aveva già svolto. Anche tra una lezione e l'altra, nei momenti in cui di solito riuscivamo a isolarci, c'era sempre qualcuno. Al suono dell'ultima campana, Edward attaccò bottone addirittura con Mike Newton, che intercettò mentre si dirigeva al parcheggio. Mi lasciai trascinare da Edward e li seguii.
Restai ad ascoltare, allibita, mentre Mike rispondeva alle domande stranamente amichevoli di Edward. A quanto pareva, la sua auto aveva qualche problema.
«...ma ho appena cambiato la batteria», diceva Mike. Lanciò un'occhiata nervosa altrove e tornò a Edward. Sbalordito, proprio come me.
«Magari sono i cavi?», ipotizzò Edward.
«Forse. Di macchine non ci capisco niente», confessò Mike. «Dovrei farla rivedere, ma portarla da Dowling mi costerebbe un patrimonio».
Stavo quasi per consigliargli il mio meccanico, ma preferii tapparmi la bocca. Il mio meccanico era occupato: se ne andava in giro nei panni di un lupo gigante.
«Io qualcosa ne so... se ti va posso darci un'occhiata», propose Edward. «Dopo che avrò portato a casa Alice e Bella».
Io e Mike restammo a guardarlo a bocca aperta.
«Ehm... grazie», mormorò Mike superata la sorpresa. «Ma devo andare a lavorare. Magari un'altra volta».
«Senz'altro».
«Ci vediamo». Mike saltò in macchina scuotendo la testa, incredulo.
La Volvo di Edward, su cui già era seduta Alice, era poco lontana.
«Che storia è questa?», mormorai mentre Edward mi teneva aperta la portiera.
«Volevo soltanto rendermi utile», rispose.
Poi Alice, che ci attendeva sul sedile posteriore, iniziò a ciarlare a velocità massima.
«Non sei così bravo come meccanico, Edward. Faresti meglio a chiedere a Rosalie di darci un'occhiata stanotte, tanto per fare bella figura nel caso Mike decidesse di lasciarsi aiutare, sai com'è. Non che non sarebbe divertente vedere la sua faccia se fosse Rosalie a presentarsi. Ma siccome ufficialmente Rosalie frequenta un college dall'altra parte della nazione, immagino che non sia la più brillante delle idee. Peccato. Anche se penso che per l'auto di Mike le tue conoscenze basteranno. È soltanto quando si tratta di mettere le mani sulla meccanica raffinata delle sportive italiane che perdi la bussola. E a proposito di Italia e di auto sportive rubate laggiù, ricorda che mi devi una Porsche gialla. Non so se riuscirò ad aspettare fino a Natale...».
Dopo pochi istanti cessai di ascoltarla e lasciai che il suo rapido parlare si trasformasse in rumore di fondo, rassegnandomi a pazientare.
Avevo la sensazione che Edward volesse evitare le mie domande. Bene. Ma prima o poi si sarebbe ritrovato solo con me. Era soltanto questione di tempo.
Anche lui sembrava rendersene conto. Scaricò Alice, come al solito, all'imbocco del vialetto dei Cullen, benché a quel punto quasi immaginavo che l'avrebbe lasciata di fronte a casa e accompagnata in camera sua.
Quando scese, Alice gli lanciò un'occhiataccia. Edward sembrava completamente a proprio agio.
«A più tardi», le disse. E annuì in maniera quasi impercettibile.
Alice si voltò e sparì tra gli alberi.
In silenzio invertì la marcia e puntò di nuovo verso Forks. Restai in attesa, nel dubbio che fosse lui a sollevare la questione. Non lo fece e finì per innervosirmi. Cos'aveva visto Alice a pranzo? Qualcosa che Edward non voleva farmi sapere, senza che avesse motivi evidenti per custodire un segreto. Forse era meglio prepararmi al peggio, prima di chiedere. Non volevo perdere la testa e convincerlo che avrei reagito male, di qualunque cosa si trattasse.
Perciò restammo entrambi zitti finché non fummo di fronte a casa di Charlie.
«Pochi compiti, stasera», commentò.
«Eh, sì».
«Secondo te ho ancora il permesso di entrare?».
«Quando sei venuto a prendermi, Charlie non ha fatto scenate».
Eppure ero certa che mio padre avrebbe perso il buonumore all'istante se rientrando in casa mi avesse trovata in compagnia di Edward. Forse era il caso di preparare una cena superspeciale.
Appena entrata puntai verso le scale ed Edward mi seguì. Si accomodò sul mio letto a guardare fuori dalla finestra, sembrava indifferente al mio nervosismo.
Svuotai la borsa e accesi il computer. Dovevo occuparmi di una e-mail di mia madre a cui non avevo ancora risposto: quando aspettavo troppo andava nel panico. Tamburellai con le dita nell'attesa che il computer decrepito tornasse in vita ronzando; ticchettavo sulla scrivania a colpi secchi e nervosi.
Poi sentii le sue dita posarsi sulle mie per immobilizzarle.
«Siamo un po' inquieti, oggi?», sussurrò.
Alzai lo sguardo, pronta a fare un commento sarcastico, ma trovai il suo viso più vicino di quanto avessi immaginato. I suoi occhi dorati ardevano a pochi centimetri da me e il suo respiro era freddo sulle mie labbra aperte. Ne sentivo il profumo sulla lingua.
Non ricordavo più la risposta sagace che stavo per dargli. Non ricordavo più neanche il mio nome.
Non mi concesse la possibilità di riprendermi.
Se avessi potuto fare di testa mia, avrei passato ogni giorno a baciare Edward. Nella mia vita non c'era niente di paragonabile alle sue labbra fredde e marmoree, ma sempre così delicate mentre si muovevano assieme alle mie.
Non riuscivo quasi mai a fare di testa mia.
Perciò fui un po' sorpresa quando sentii le sue dita infilarsi tra i miei capelli e avvicinare il mio viso al suo. Con le mani mi afferrai decisa alle sue spalle e desiderai di essere tanto forte da farlo mio prigioniero. Una mano scivolò sulla mia schiena e mi strinse al suo petto roccioso. Pur coperta dal maglione, la sua pelle era così fredda che mi vennero i brividi: brividi di piacere, di felicità, che convinsero anche le sue mani a sciogliersi.
Sapevo che mancavano circa tre secondi prima che sospirasse e mi allontanasse da sé con destrezza, spiegandomi che per quel pomeriggio avevamo messo già abbastanza a repentaglio la mia vita. Per approfittare dei miei ultimi istanti lo strinsi ancora più forte, adeguandomi alla sua posizione. Con la punta della lingua tracciai il contorno del suo labbro inferiore, liscio e perfetto come fosse stato appena lucidato, e con un sapore...
Allontanò il mio viso sciogliendosi dalla presa con facilità. Probabilmente non si era neanche accorto che avevo usato tutte le forze che avevo.
Fece una risata breve e gutturale. Il suo sguardo era acceso dall'eccitazione che aveva imparato a gestire così bene.
«Ah, Bella», sospirò.
«Vorrei dire che mi dispiace, ma non mi dispiace».
«E a me dovrebbe dispiacere che non ti dispiaccia, ma non mi dispiace. Forse è meglio che torni a sedermi sul letto».
Sbuffai, vagamente agitata. «Se pensi che sia necessario...».
Con un sorriso sghembo sciolse l'abbraccio.
Scossi la testa, cercando di riordinare i pensieri, e tornai al computer. A quel punto era attivo e ronzante. Be', più che ronzare, sbadigliava.
«Salutami Renée».
«Certo».
Controllavo la e-mail di mia madre e di tanto in tanto scuotevo la testa di fronte alle sue solite piccole follie. Ero divertita e terrorizzata come la prima volta che l'avevo letta. Era tipico di Renée essersi ricordata che soffriva terribilmente di vertigini soltanto quando si era ritrovata un paracadute e un istruttore appiccicati alle spalle. Mi arrabbiai un po' con Phil, con cui era sposata da quasi due anni, per averle permesso di combinare anche questa. Io avrei saputo come tenerla d'occhio. La conoscevo molto meglio.
Prima o poi dovrai abbandonarli al loro destino, mi ripetei. Devi lasciare che vivano la propria vita...
Avevo trascorso quasi tutta la mia esistenza a tenere d'occhio Renée, sforzandomi con pazienza di sconsigliarle certi progetti assurdi, e sopportando con buon senso quelli da cui non ero riuscita a dissuaderla. Ero sempre stata indulgente con lei, divertita e forse un po' troppo complice. Immaginai la cornucopia dei suoi errori e, tra me, sorrisi. Che svampita, Renée.
Io ero molto diversa. Più ragionevole e prudente. Ero io quella responsabile, l'adulta. Così mi vedevo. Ormai ero abituata all'idea.
Con il sangue ancora alla testa dopo il bacio di Edward, non riuscivo a non pensare all'errore più decisivo nella vita di mia madre. Romantica e sciocca, si era sposata subito dopo il diploma con un uomo che conosceva appena e nel giro di un anno aveva messo al mondo me. Giurava da sempre di non aver avuto rimpianti e che io ero il regalo più grande che avesse ricevuto dalla vita. Eppure non aveva mai perso l'occasione di tartassarmi: chi ha sale in zucca prende il matrimonio sul serio. Le persone mature vanno all'università e si fanno una carriera, prima di legarsi definitivamente a qualcuno. Era sicura che non sarei mai stata incosciente, goffa e provinciale com'era stata lei...
Serrai i denti e cercai di concentrarmi sulla risposta al suo messaggio.
Poi mi accorsi di come mi aveva salutata e ricordai perché non le avessi risposto al volo.
«Non mi hai detto più niente di Jacob», aveva scritto. «Cosa combina ultimamente?».
Era stato Charlie a metterle la pulce nell'orecchio, di sicuro.
Sospirai e scrissi svelta, concentrando la risposta alla sua domanda tra due paragrafi poco importanti.

Jacob sta bene, credo. Non lo vedo spesso; ormai se ne sta quasi sempre con quel suo branco di amici giù a La Push.

Sorrisi beffarda a me stessa, aggiunsi i saluti da parte di Edward e cliccai su INVIA.
Mi accorsi che Edward era rimasto in silenzio alle mie spalle soltanto quando spensi il computer e mi allontanai dalla scrivania. Ero sul punto di arrabbiarmi con lui, dopo che aveva sbirciato lo schermo, ma mi resi conto che non era a me che prestava attenzione.
Stava esaminando una scatola nera e piatta, da cui penzolava una ragnatela di cavi che sembravano tutt'altro che funzionanti, a qualunque cosa servissero. Dopo un secondo riconobbi l'autoradio che Emmett, Rosalie e Jasper mi avevano regalato per il mio compleanno. Mi ero dimenticata di quei regali, nascosti da un velo sempre più spesso di polvere nel fondo dell'armadio.
«Cos'hai combinato con questa?», chiese sconvolto.
«Non voleva levarsi dal cruscotto».
«Perciò ti sei sentita in diritto di torturarla?».
«Sai come sono con le faccende manuali. Se le ho fatto del male, è stata una disgrazia».
Scosse la testa, sul volto una finta maschera tragica. «L'hai uccisa».
Mi strinsi nelle spalle. «Pazienza».
«Se la vedessero si offenderebbero a morte», disse. «Tutto sommato è un bene che tu sia rimasta in castigo. Mi toccherà recuperarne un'altra prima che se ne accorgano».
«Grazie, ma non ho bisogno di una radio ultimo modello».
«Non è per fare un piacere a te che voglio rimpiazzarla».
Feci un sospiro.
«Non mi sembra che ti sia goduta granché i tuoi regali di compleanno», disse amareggiato. All'improvviso lo vidi farsi aria con un cartoncino lungo.
Non risposi per paura di perdere la voce. Il disastro del mio diciottesimo compleanno, con le sue conseguenze estreme, era un ricordo tutt'altro che piacevole ed era strano che proprio lui ne parlasse. Era ancora più sensibile di me al riguardo.
«Sai che questi stanno per scadere?», chiese e mi passò il cartoncino. Era uno dei regali: un buono per due biglietti aerei per la Florida, che Esme e Carlisle mi avevano regalato perché andassi a trovare Renée.
Respirai a fondo e risposi imperturbabile. «No. Anzi, a dire la verità me ne ero dimenticata».
La sua reazione fu misurata, limpida e positiva; nelle sue parole non c'era traccia di emozioni violente. «Be', ci resta ancora un po' di tempo. Ormai sei libera... e non abbiamo progetti per il fine settimana, dal momento che ti rifiuti di accompagnarmi al ballo di fine anno». Sorrise. «Perché non cogliamo l'occasione e festeggiamo la tua libertà?».
Restai senza fiato. «Andando in Florida?».
«Mi sembra che rientri nei confini degli Stati Uniti».
Gli lanciai un'occhiataccia, diffidente e curiosa di capire da dove venisse l'ispirazione.
«Be'?», chiese. «Andiamo o no a trovare Renée?».
«Charlie non mi darà mai il permesso».
«Charlie non può impedirti di andare a trovare tua madre. Legalmente sei stata affidata a lei».
«Come maggiorenne, sono affidata solo a me stessa».
Sfoderò un sorriso brillante. «Appunto».
Ci pensai per qualche istante e decisi che non valeva la pena di litigare. Charlie si sarebbe imbestialito, e non perché andavo a trovare Renée, ma perché ci andavo assieme a Edward. Non mi avrebbe rivolto la parola per mesi e probabilmente avrei finito per scontare un altro castigo. Era decisamente più saggio lasciar perdere. Magari qualche settimana più avanti, come regalo di diploma o qualcosa del genere.
Eppure, era difficile resistere alla tentazione di rivedere mia madre subito anziché nel giro di qualche settimana. Era passato troppo tempo dal nostro ultimo incontro. E in che condizioni era avvenuto. L'ultima volta che ero stata in sua compagnia a Phoenix, avevo passato tutto il tempo in un letto d'ospedale. L'ultima volta che mi era venuta a trovare l'avevo accolta in stato più o meno catatonico. Non erano esattamente i ricordi migliori da lasciarle.
E magari, se avesse visto quanto ero felice assieme a Edward, avrebbe suggerito a Charlie di tranquillizzarsi.
Edward osservava il mio viso mentre meditavo.
Sospirai. «Non questo fine settimana».
«Perché no?».
«Non voglio litigare con Charlie. Non così presto, dopo che mi ha perdonata».
Aggrottò le sopracciglia. «Secondo me questo fine settimana è perfetto», mormorò.
Scossi la testa. «Un'altra volta».
«Non sei stata l'unica intrappolata in questa casa, sai». Mi guardò torvo.
Il sospetto tornò. Non era da lui comportarsi così. Era sempre assurdamente altruista; sapevo che mi stava viziando.
«Tu sei libero di andare dove ti pare», precisai.
«Il resto del mondo non mi interessa, se non ci sei tu».
Alzai gli occhi al cielo, di fronte a quell'esagerazione.
«Dico sul serio», aggiunse.
«Usciamo a vedere il resto del mondo un po' alla volta, d'accordo? Per esempio potremmo iniziare da un cinema a Port Angeles...».
«Lasciamo perdere. Ne riparleremo», disse infastidito.
«Non c'è nient'altro di cui parlare».
Alzò le spalle.
«D'accordo, allora, cambiamo argomento», proposi. Avevo quasi dimenticato le preoccupazioni di quel pomeriggio... era forse questo il suo vero intento? «Cos'ha visto Alice oggi a pranzo?». Parlavo senza staccare gli occhi dal suo viso per misurarne le reazioni.
La sua espressione restò composta; lo sguardo topazio s'irrigidì appena. «Ha visto Jasper in un luogo strano, da qualche parte nel sud-ovest, probabilmente, nei dintorni della sua vecchia... famiglia. Eppure lui non ha mai manifestato l'intenzione di tornare», sospirò. «Si è preoccupata».
«Ah». Non mi aspettavo nulla del genere. Certo, era logico che Alice tenesse d'occhio il futuro di Jasper. Era il suo compagno, la sua metà, benché la loro relazione non fosse appariscente come quella tra Rosalie ed Emmett. «Perché non me l'hai detto subito?».
«Non pensavo che te ne fossi accorta», rispose. «Comunque credo non sia nulla di importante».
La mia immaginazione era assurdamente fuori controllo. Avevo preso un pomeriggio assolutamente normale e l'avevo deformato, fino a leggervi i segni che Edward voleva tenermi nascosto qualcosa, a tutti i costi. Avevo bisogno di uno psicologo.
Scendemmo a fare i compiti, in caso di arrivo anticipato di Charlie. Edward finì dopo pochi minuti; io mi trascinai con fatica attraverso la matematica, finché non decisi che era ora di preparare la cena a Charlie. Edward mi diede una mano e ogni tanto faceva una smorfia di fronte agli ingredienti crudi - il cibo umano gli dava una leggera nausea. Cucinai un filetto alla Strogonoff con la ricetta di nonna Swan, perché ero esausta. Non era tra i miei piatti preferiti, ma a Charlie sarebbe piaciuto.
Mio padre sembrava già di buonumore quando tornò a casa. Non si sforzò nemmeno di essere scortese con Edward. Il quale si scusò di non poter mangiare con noi, come al solito. Dal salotto arrivava l'audio del notiziario della sera, ma dubitavo che Edward lo stesse davvero guardando.
Dopo aver trangugiato tre piatti, Charlie buttò i piedi sulla sedia libera e incrociò le braccia, soddisfatto, sulla pancia piena.
«Ottimo, Bells».
«Contenta che ti sia piaciuto. Com'è andata al lavoro?». Era stato talmente concentrato sul cibo che non ero riuscita a parlargli.
«Giornata lunga. Anzi, lunghissima. Ho giocato a carte con Mark per quasi tutto il pomeriggio», ammise sorridendo. «Ho vinto, diciannove mani a sette. Poi sono stato un po' al telefono con Billy».
Cercai di non cambiare espressione. «Come sta?».
«Bene, bene. A parte qualche fastidio alle articolazioni».
«Ah. Mi dispiace».
«Eh, sì. Ci ha invitati a casa sua questo fine settimana. Pensava di chiamare anche i Clearwater e gli Uley. Iniziano i play-off, guardiamo la partita tutti assieme...».
La mia risposta geniale fu: «Ah». Ma che altro potevo dire? Ero certa di non poter frequentare una festa di licantropi, nemmeno accompagnata da mio padre. Chissà se per Edward era un problema che Charlie bazzicasse La Push. Oppure dava per scontato che siccome Charlie frequentava Billy, che era un essere umano, non correva alcun pericolo?
Mi alzai e impilai i piatti senza guardare Charlie. Li riposi nel lavandino e aprii l'acqua. Edward comparve silenzioso e afferrò un asciugamano.
Charlie sospirò e preferì tacere, benché immaginassi che avrebbe ripreso il discorso non appena fossimo stati soli. Si alzò e si diresse verso la TV, come ogni sera.
«Charlie», disse Edward in tono amichevole.
Charlie si arrestò nel centro della piccola cucina. «Sì?».
«Bella le ha mai detto di avere ricevuto, come regalo di compleanno dei miei, due biglietti aerei per andare a trovare Renée?».
Mollai il piatto che stavo asciugando. Scivolò dal ripiano della cucina e si schiantò rumoroso sul pavimento. Non si ruppe, ma schizzò la stanza, e noi tre, di acqua e schiuma. Charlie quasi non se ne accorse.
«Bella?», domandò sbalordito.
Guardai fissa il piatto e mi chinai a raccoglierlo. «Sì, è vero».
Charlie deglutì rumorosamente, e aggrottò le sopracciglia prima di rivolgersi a Edward. «No, non me ne ha mai parlato».
«Ah», mormorò Edward.
«Come mai te ne sei ricordato?», chiese Charlie, secco.
Edward si strinse nelle spalle. «Stanno per scadere. Non vorrei che Esme ci rimanesse male, se Bella non sfrutta il regalo. Certo, non credo che me lo farebbe notare».
Fissai Edward, incredula.
Charlie ci pensò per qualche istante. «Tutto sommato è una buona idea andare a far visita a tua madre, Bella. Le farebbe piacere. Mi sorprende che tu non me ne abbia mai parlato, però».
«Me ne ero dimenticata», confessai.
Si rabbuiò. «Ti eri dimenticata di aver ricevuto in regalo dei biglietti?».
Risposi con un mormorio indefinito e mi voltai verso il lavandino.
«Ho notato che hai detto che stanno per scadere, Edward», proseguì Charlie. «Quanti sono i biglietti?».
«Soltanto uno per lei... e uno per me».
Il secondo piatto che mi sfuggì di mano atterrò nel lavandino e non fece troppo rumore. Sentii chiaro lo sbuffo di mio padre. Mi sentii arrossire, accesa di irritazione e dolore. Perché Edward si comportava così? Nel panico, restai a fissare le bolle dentro il lavello.
«Non se ne parla nemmeno!». Charlie aveva perso la pazienza in un secondo e urlava già.
«Perché?», chiese Edward, la voce satura di innocenza e meraviglia. «Ha appena detto che sarebbe bello se sua figlia andasse a trovare la madre».
Charlie finse di non sentire. «Signorina, tu con lui non vai da nessuna parte!», strillò. Mi voltai e lo vidi puntare un dito verso di me.
Mi sentii invadere dalla rabbia, reazione istintiva al suo tono di voce. «Non sono una bambina, papà. E non sono più in castigo, ricordi?».
«Oh, invece sì. Da questo momento».
«Perché?».
«Perché lo dico io».
«Devo ricordarti che sono maggiorenne, Charlie?».
«Questa è casa mia. E devi rispettare le mie regole!».
Il mio sguardo si fece di ghiaccio. «Come preferisci. Vuoi che me ne vada stasera? O mi concedi qualche giorno per fare le valigie?».
Il volto di Charlie si fece paonazzo. Mi sentii subito malissimo per aver giocato la carta dell'abbandono.
Respirai a fondo e cercai di parlare in tono più razionale. «Accetterò le punizioni quando combinerò qualcosa di sbagliato, papà, ma non ho intenzione di accettare i tuoi pregiudizi».
Farfugliò qualcosa ma dalla sua bocca non uscì nulla di coerente.
«Ora, io so che tu sai che ho il pieno diritto di andare a trovare la mamma durante il fine settimana. Non dirmi che ti opporresti se ad accompagnarmi fossero Alice o Angela».
«Ragazze», grugnì con un cenno del capo.
«Ti preoccuperesti se partissi con Jacob?».
Lo avevo chiamato in causa soltanto perché sapevo della simpatia di mio padre per lui, ma all'istante me ne pentii. Edward digrignò i denti con uno scatto secco e udibile.
Mio padre si sforzò di calmarsi prima di rispondere. «Sì», disse in tono niente affatto convincente. «Mi preoccuperei».
«Stai dicendo una bugia, papà».
«Bella...».
«Non sto andando a Las Vegas a fare la ballerina o chissà cosa. Voglio andare a trovare la mamma», ribadii. «La sua potestà vale quanto la tua».
Mi trafisse con uno sguardo.
«Vorresti insinuare qualcosa sulla capacità della mamma di prendersi cura di me?».
Charlie trasalì di fronte alla sfida implicita nella mia domanda.
«Ti conviene sperare che non parli di tutto questo con lei», dissi.
«Meglio di no», replicò. «Ma non mi fai contento, Bella».
«Non è il caso di perdere la calma».
Alzò gli occhi al cielo, ma ormai avevo capito che la tempesta era passata.
Mi voltai a togliere il tappo dal lavandino. «Quindi, ho fatto i compiti, ho preparato la cena, ho lavato i piatti, non sono in castigo. Esco. Torno entro le dieci e mezza».
«Dove vai?». Il suo viso, che era quasi tornato normale, si rifece paonazzo.
«Non lo so», confessai. «Cercherò di restare nel raggio di una ventina di chilometri, d'accordo?».
Grugnì qualcosa che non somigliava a una risposta positiva e uscì a grandi passi dalla stanza. Ovviamente, subito dopo aver avuto la meglio nel litigio mi sentii in colpa.
«Usciamo?», chiese Edward sottovoce ma con entusiasmo.
Mi voltai e lo guardai in cagnesco. «Sì. Credo di dover fare due chiacchiere con te, da soli».
Non sembrava preoccupato come mi aspettavo.
Per parlare, attesi che fossimo al sicuro nella sua auto.
«Cosa ti è saltato in mente?», domandai.
«So che ci tieni a rivedere tua madre, Bella... Hai parlato di lei nel sonno. Con una certa preoccupazione».
«Davvero?».
Annuì. «Ma ovviamente eri troppo codarda per parlarne con Charlie, perciò ho deciso di intercedere».
«Intercedere? Mi hai dato in pasto a una belva!».
Alzò gli occhi al cielo. «Non mi sembra che fossi in pericolo».
«Ti avevo detto che non volevo litigare con Charlie».
«Nessuno ti obbligava».
Lo guardai torva. «Non riesco a trattenermi quando fa il prepotente in quel modo... il mio istinto naturale di adolescente s'impossessa di me».
Ridacchiò. «Be', questo non è colpa mia».
Lo fissai, assorta. Non sembrava farci caso. Guardava sereno oltre il parabrezza. C'era qualcosa che non andava, ma non riuscivo a intuire cosa. Ma forse, di nuovo, era colpa della mia immaginazione che aveva ripreso ad andare a briglia sciolta.
«Quest'improvviso bisogno di andare in Florida ha qualcosa a che fare con la festa a casa di Billy?».
La sua espressione si contrasse. «Niente affatto. Fossi a casa o dall'altra parte del mondo, non ci andresti comunque».
Sembrava di sentire Charlie quando mi trattava come una bambina disobbediente. Serrai le mascelle per non mettermi a strillare. Non volevo litigare anche con Edward.
Dopo un sospiro, la sua voce tornò morbida e vellutata. «Cosa ti va di fare stasera?», chiese.
«Andiamo a casa tua? Non vedo Esme da un sacco di tempo».
Sorrise. «Le farà piacere. Soprattutto quando le racconteremo qual è la meta del nostro weekend».
Borbottai qualcosa, sconfitta.

Come avevo promesso, non facemmo tardi. Non fui sorpresa di trovare le luci ancora accese quando accostammo di fronte a casa: sapevo che Charlie mi stava aspettando per poter urlare ancora un po'.
«Meglio che tu stia fuori», dissi. «Non faresti che peggiorare la situazione».
«I suoi pensieri sono relativamente tranquilli», disse Edward malizioso.
Con la sua espressione insinuò il dubbio che mi stessi perdendo chissà quale ironia nascosta. Gli angoli della sua bocca si contrassero per soffocare un sorriso.
«Ci vediamo dopo», mormorai cupa.
Lui rise e mi baciò il dorso della mano. «Tornerò quando Charlie russa».
Quando entrai la TV era a tutto volume. Per qualche istante pensai alla possibilità di sgattaiolare in camera.
«Bella, per favore, vieni qui?». La richiesta di Charlie soffocò il mio piano.
Trascinai i piedi sui cinque gradini.
«Che c'è, papà?».
«Vi siete divertiti stasera?», chiese. Sembrava tutt'altro che rilassato. Prima di rispondere cercai il significato nascosto nelle sue parole.
«Sì», risposi, esitante.
«Cos'avete fatto?».
Mi strinsi nelle spalle. «Siamo stati con Alice e Jasper. Edward ha battuto Alice a scacchi, poi ho giocato contro Jasper. Mi ha distrutta».
Sorrisi. Edward e Alice che giocavano a scacchi erano una delle cose più assurde che avessi mai visto. Restavano quasi immobili a fissare la scacchiera, Alice prevedeva le scelte del fratello e lui le leggeva le contromosse nel pensiero. Giocavano quasi tutta la partita a mente; dopo due movimenti di pedone Alice aveva sollevato il suo re per arrendersi. Non era durata più di tre minuti.
Charlie tolse l'audio della TV, un gesto insolito.
«Senti, devo parlarti di una cosa». Si fece scuro in viso, sembrava parecchio a disagio.
Restai immobile, in attesa. Incrociò il mio sguardo per un istante e tornò a fissare il pavimento. Non aggiunse altro.
«Cosa c'è, papà?».
Sospirò. «Non sono tanto pratico di queste cose. Non so da dove iniziare...».
Cercai di non mettergli fretta.
«Okay, Bella. Questo è quanto». Si alzò dal divano e iniziò a passeggiare avanti e indietro per la stanza, senza staccare lo sguardo da terra. «A quanto pare tu ed Edward fate davvero sul serio, e penso che tu debba stare attenta a certe cose. Certo, ormai sei maggiorenne, ma sei ancora giovane, Bella, e ci sono parecchie cose importanti che devi sapere prima di... be', prima di lasciarti andare a livello fisico con...».
«Oh, no, ti prego, no!», esclamai scattando in piedi. «Ti prego, non dirmi che vuoi parlare di educazione sessuale, Charlie».
Fissò il pavimento. «Sono tuo padre. Ho responsabilità precise. Ricorda che sono imbarazzato almeno quanto te».
«Non penso sia umanamente possibile. E comunque, la mamma ti ha anticipato di dieci anni. Ti ha tolto un peso».
«Dieci anni fa non avevi un ragazzo», mormorò, senza volerlo. Era evidente che stava combattendo contro il desiderio di evitare l'argomento. Eravamo entrambi in piedi, gli sguardi bassi e in direzioni opposte.
«Non penso che i fondamentali siano cambiati granché», mormorai, e probabilmente le mie guance erano rosse quanto le sue. Eravamo ben oltre il girone dei violenti dell'inferno: peggio ancora, visto e considerato che Edward aveva previsto tutto. C'era poco da meravigliarsi che in auto fosse stato tanto elusivo.
«Garantiscimi soltanto che terrete la testa sulle spalle», mi implorò Charlie, che a quel punto desiderava soltanto che il pavimento si spalancasse e lo ingoiasse all'istante.
«Non preoccuparti, papà, non è come pensi».
«Non è che non mi fidi di te, Bella, ma so che tu non vuoi parlarmene, e tu sai che io non voglio saperne nulla. Cercherò di essere aperto a tutto, comunque. So che i tempi sono cambiati».
Scoppiai in una risata scomposta. «Sarà, ma Edward è un tipo all'antica, sai? Non c'è niente di cui preoccuparsi».
Charlie sospirò. «Certo, come no», farfugliò.
«Uffa! Non sai quanto mi pesi dovertelo dire ad alta voce, papà. Sul serio. Però... sono ancora... vergine, e al momento non ho in programma di cambiare».
Eravamo entrambi imbarazzati, ma l'espressione di Charlie sembrava più tranquilla. Forse mi credeva.
«Adesso posso andare a letto? Per favore».
«Un minuto», rispose.
«E dai, papà. Ti scongiuro».
«Non temere, la parte imbarazzante è finita», mi assicurò.
Gli lanciai un'occhiata, fui lieta di vederlo più rilassato e con un colorito normale. Sprofondò nel divano e sbuffò, contento di essersi lasciato alle spalle il discorso sul sesso.
«Che c'è?».
«Volevo soltanto sapere come va la storia dell'equilibrio».
«Ah, bene, direi. Oggi mi sono messa d'accordo con Angela. L'aiuto a preparare gli inviti alla cerimonia del diploma. Una cosa tra ragazze».
«Bene. E di Jake cosa mi dici?».
Sbuffai. «Ancora non mi ci sono messa, papà».
«Provaci, Bella. So che ce la farai. Sei una brava ragazza».
Bene. Voleva dire che se non fossi riuscita ad aggiustare le cose con Jacob mi sarei dimostrata una "cattiva" ragazza? Questo era un colpo basso.
«Certo, certo», commentai. La risposta automatica mi fece quasi sorridere visto che era un tic che avevo preso da Jacob. L'avevo pronunciata quasi nello stesso tono accondiscendente che usava lui con suo padre.
Charlie sorrise e alzò il volume. Sprofondò ulteriormente tra i cuscini, fiero dell'opera compiuta. A quel punto era chiaro che la partita lo avrebbe tenuto impegnato per un po'.
«'Notte, Bells».
«A domattina!». Scattai verso le scale.
Edward era lontano e non sarebbe tornato finché Charlie non si fosse addormentato - probabilmente era fuori a caccia o qualcosa del genere, per passare il tempo - perciò non avevo fretta di cambiarmi e di andare a dormire. Non ero dell'umore giusto per stare da sola, ma neanche per scendere a passare la serata con mio padre, con il rischio che sfoderasse qualche argomento di educazione sessuale su cui non si era soffermato; rabbrividii.
Così, grazie a Charlie, ero tesa e ansiosa. Avevo fatto tutti i compiti e non mi sentivo abbastanza rilassata per leggere né per ascoltare un disco. Pensai di chiamare Renée per dirle della mia visita, ma mi ricordai che la Florida era tre ore avanti e di sicuro mia madre stava già dormendo.
Forse avrei potuto chiamare Angela.
Ma all'istante capii che non era con Angela che desideravo parlare. Non avevo bisogno di lei.
Fissai la finestra nera e vuota, in preda all'incertezza: trattare Jacob come meritava, rivedere il mio amico più caro, comportarmi da brava ragazza, oppure scatenare la rabbia di Edward? Non so quanto tempo passai a soppesare i pro e i contro, forse dieci minuti. Abbastanza per decidere che i pro erano giustificati, e i contro no. Edward era preoccupato soltanto per la mia sicurezza, ma io sapevo che quello non era un problema serio.
Il telefono era inutile: Jacob aveva smesso di rispondere alle mie chiamate da quando Edward era tornato. E poi, avevo bisogno di vederlo, soprattutto di vederlo sorridere come un tempo. Se volevo conquistare almeno un po' di tranquillità, dovevo cancellare quell'ultimo orribile ricordo in cui la sua espressione era distorta ed esasperata dal dolore.
Mi restava più o meno un'ora. Avrei potuto fare una corsa fino a La Push e tornare indietro prima che Edward si accorgesse della fuga. Era scattato il coprifuoco, ma Charlie ci avrebbe fatto davvero caso, con Edward assente? C'era soltanto un modo per scoprirlo.
Afferrai il giubbotto e me lo infilai correndo giù per le scale.
Charlie alzò lo sguardo dalla partita, diffidente.
«È un problema se vado a trovare Jake stasera?», chiesi senza fiato. «Vado e torno».
Non appena pronunciai il nome di Jake, l'espressione di Charlie si rilassò in un sorriso bonario. Non sembrava affatto sorpreso che la sua ramanzina avesse avuto effetti così immediati. «Certo, piccola. Non c'è problema. Torna quando ti pare».
«Grazie, papà», risposi mentre scattavo verso la porta.
Da brava fuggiasca, non potei fare a meno di lanciarmi qualche occhiata alle spalle mentre correvo verso il pick-up, ma la notte era talmente buia che il gesto non aveva senso. Fui costretta ad avvicinarmi a tentoni alla fiancata e alla portiera.
Mentre ancora i miei occhi si stavano abituando al buio infilai la chiave nel quadro. La girai con forza verso sinistra ma, anziché riprendere vita con un ruggito, il motore singhiozzò. Ci riprovai, con lo stesso risultato.
Poi un movimento ai margini del mio campo visivo mi fece scattare.
«Ah!», esclamai spaventata quando scoprii di non essere sola nell'abitacolo.
Edward era immobile, una macchia sbiadita nell'oscurità, solo le sue mani si muovevano mentre armeggiava con un misterioso oggetto nero. Senza smettere di guardarlo, parlò.
«Ha chiamato Alice», sussurrò.
Alice! Maledizione. I miei piani non avevano tenuto conto di lei. Evidentemente mi controllava.
«Si è innervosita quando ha visto il tuo futuro sparire di colpo, cinque minuti fa».
I miei occhi, già spalancati per la sorpresa, schizzarono fuori dalle orbite.
«Perché non riesce a vedere i lupi, sai», spiegò. «Te ne eri dimenticata? Quando decidi di mescolare il tuo destino al loro, sparisci anche tu. Capisco che questo possa esserti sfuggito. Ma ti rendi conto che la cosa mi mette un po' in... ansia? Alice ti ha vista sparire, e non riusciva nemmeno a vedere se saresti tornata a casa o no. Il tuo futuro si è perso, come il loro. Non sappiamo perché funzioni così. Forse è una difesa naturale di cui sono dotati». Parlava come fosse impegnato in un monologo, senza staccare gli occhi dal pezzo di motore con cui giocherellava. «Non è del tutto probabile, perché io non ho mai avuto problemi a leggere nei loro pensieri. Perlomeno, in quelli dei Black. Secondo Carlisle la ragione sta nel fatto che le loro vite sono scandite dalle trasformazioni. Più che di decisioni, si tratta di reazioni involontarie. Del tutto imprevedibili, in grado di cambiare la loro essenza. Nell'istante in cui passano da una forma all'altra, è come se non esistessero nemmeno. Sfuggono persino al futuro...».
Restai ad ascoltare le sue riflessioni muta come un pesce.
«Aggiusterò la tua auto entro domattina, nel caso tu voglia usarla per andare a scuola», mi rassicurò.
Serrando le labbra, sfilai le chiavi e scesi meccanicamente dal pick-up.
«Chiudi la finestra se vuoi che stanotte me ne stia lontano. Capirò», mi sussurrò appena prima che sbattessi la portiera.
Mi trascinai in casa e sbattei anche la porta d'ingresso.
«C'è qualcosa che non va?», chiese Charlie dal divano.
«Il pick-up non parte», ruggii.
«Vuoi che ci dia un'occhiata?».
«No. Riprovo domattina».
«Vuoi usare la mia macchina?».
Di solito avevo il divieto di usare l'auto della polizia. Evidentemente Charlie era impaziente che tornassi a La Push. Almeno quanto me.
«No, sono stanca», farfugliai. «'Notte».
A passi pesanti salii le scale e mi precipitai alla finestra. Diedi una spinta brusca alla cornice di metallo: si chiuse con uno schianto e il vetro tremò.
Restai a fissare le vibrazioni del vetro nero a lungo, finché non si fermò. Poi, con un sospiro, spalancai completamente la finestra.

3
Motivi

Ancora non si capiva se il sole, sepolto dietro le nuvole, fosse tramontato. Dopo un volo così lungo, da est verso ovest all'inseguimento della luce all'orizzonte, mi sentivo disorientata; il tempo era trascorso in maniera strana. Restai sorpresa quando la foresta lasciò il posto ai primi edifici, il segnale che eravamo vicini a casa.
«Che silenzio», osservò Edward. «Hai il mal d'aria?».
«No, sto bene».
«Ti è dispiaciuto ripartire?».
«Più che dispiaciuta sono sollevata, credo».
Mi guardò di sottecchi. Dirgli di continuare a fissare la strada era vano e, per quanto odiassi ammetterlo, inutile.
«In un certo senso Renée è molto più... perspicace di Charlie. Mi ha innervosita».
Edward rise. «Tua madre ha una mente molto interessante. Quasi infantile, ma molto sagace. Vede le cose in modo diverso dagli altri».
Sagace. Era una buona descrizione di mia madre - quando era attenta. Di solito Renée era talmente sorpresa dalla sua stessa vita da non accorgersi granché del resto. Durante quel fine settimana, però, mi aveva prestato molta attenzione.
Phil era impegnato - i liceali della squadra di baseball che allenava avevano raggiunto i playoff - e restare sola con me ed Edward aveva permesso a Renée di affilare lo sguardo. Finiti gli abbracci e i gridolini di gioia, aveva iniziato a tenerci d'occhio. E, mentre ci osservava, i suoi grandi occhi blu si erano fatti prima perplessi, poi preoccupati.
Quella mattina avevamo passeggiato insieme sul lungomare. Voleva mostrarmi le bellezze della sua nuova città, forse sperava ancora che il sole potesse convincermi ad abbandonare Forks. Voleva anche parlare con me a quattr'occhi e non fu difficile trovare il modo. Edward si era inventato una tesina da scrivere: una buona scusa per chiudersi in casa tutto il giorno.
Tornai con la mente alla nostra conversazione...
Io e Renée costeggiavamo lente il marciapiede, cercando di restare all'ombra delle poche palme. Malgrado l'orario, il caldo era soffocante. Con l'aria così carica d'umidità, si faceva fatica persino a respirare.
«Bella?», chiese mia madre, e parlando spostò lo sguardo dalla sabbia alle onde che s'infrangevano leggere sulla riva.
«Che c'è, mamma?».
Sospirò, senza guardarmi. «Sono preoccupata...».
«Cosa c'è che non va?», le chiesi improvvisamente ansiosa. «Posso aiutarti?».
«Non si tratta di me». Scosse la testa. «Sono preoccupata per te... e per Edward».
Mentre pronunciava il suo nome tornò a guardarmi, desolata.
«Ah», farfugliai, fissando lo sguardo su due fanatici del jogging che correvano zuppi di sudore.
«Le cose fra voi sembrano molto più serie di quanto pensassi», proseguì.
Aggrottai le sopracciglia e feci un veloce riassunto mentale dei due giorni precedenti. Edward e io c'eravamo a malapena sfiorati, perlomeno davanti a lei. Chissà, forse anche Renée era pronta a darmi una lezione di senso della responsabilità. La cosa non mi disturbava com'era accaduto con Charlie. Con mia madre non m'imbarazzavo. Dopotutto, era il genere di ramanzina che le avevo fatto io chissà quante volte nei dieci anni precedenti.
«C'è qualcosa di... strano, nel modo in cui state insieme», mormorò, la fronte corrugata e lo sguardo preoccupato. «Il modo in cui ti guarda... è così protettivo. Come se fosse pronto a farti scudo di fronte a una pistola, o qualcosa del genere».
Risi, non ancora in grado di incrociare il suo sguardo. «È una cosa brutta?».
«No». Aggrottò le sopracciglia mentre cercava le parole. «È una cosa diversa. È molto coinvolto da te e... molto premuroso. E come se non capissi davvero cosa c'è tra voi. Come se mi nascondeste un segreto».
«Vedi cose che non ci sono, mamma», risposi subito, sforzandomi di mantenere un tono rilassato. Il mio stomaco sussultò. Avevo dimenticato quanto mia madre sapesse osservare. La sua idea semplice del mondo le permetteva di sfrondare il superfluo e mirare dritto alla verità. Non era mai stato un problema, fino a quel momento. Non avevo mai custodito segreti inconfessabili.
«Non è soltanto lui». Tese le labbra, sulla difensiva. «Dovresti vedere come ti muovi quando gli sei accanto».
«In che senso?».
«I tuoi spostamenti... ti orienti attorno a lui senza neanche pensarci. Quando lui si muove, anche di poco, cambi posizione. Come le calamite, o la gravità. Sei come un... satellite, o giù di lì. Mai visto niente del genere».
Increspò le labbra e abbassò lo sguardo.
«Dimmi un po' mamma», la presi in giro sforzandomi di sorridere. «Hai ricominciato a leggere i thriller, vero? O stavolta sei passata alla fantascienza?».
Renée arrossì appena. «Questo non c'entra».
«Hai scoperto qualche libro interessante?».
«Be', sì, uno... ma questo non c'interessa. Ora stiamo parlando di te».
«Dovresti darti ai romanzi d'amore, mamma. Lo sai che perdi la testa troppo facilmente».
Accennò un sorriso. «Mi sto comportando da stupida, vero?».
Non riuscii a rispondere subito. Bastava sempre poco per condizionare Renée. A volte era meglio così, specie quando perdeva di vista il buon senso. Eppure, vederla cedere così velocemente alle mie banalità mi turbò, perché stavolta era lei ad avere ragione da vendere.
Alzò lo sguardo e cercai di controllare la mia espressione.
«Non da stupida, soltanto da mamma».
Rise, e con un gesto ampio indicò la spiaggia bianca e le acque azzurre.
«Tutto questo non basta a farti tornare dalla tua stupida mamma?».
Con un gesto teatrale mi passai la mano sulla fronte e feci il gesto di strizzarmi i capelli.
«All'umidità ci si abitua», mi assicurò.
«Anche alla pioggia», replicai.
Mi diede una gomitata giocosa, poi mi riaccompagnò verso l'auto tenendomi per mano.
A parte le preoccupazioni per me, sembrava felice. Soddisfatta. Guardava ancora Phil con occhi da pesce lesso, il che era confortante. Di certo la sua vita era ricca e appagante. Non avrebbe sentito la mia mancanza più di tanto, nemmeno dopo...
Le dita ghiacciate di Edward mi accarezzarono la guancia. Alzai lo sguardo, strizzai gli occhi e tornai al presente. Lui si chinò a baciarmi la fronte.
«Siamo a casa, Bella Addormentata. È ora di svegliarsi».
Eravamo fermi davanti a casa di Charlie. La luce in veranda era accesa, l'auto della polizia parcheggiata sul vialetto d'ingresso. Esaminai le finestre e dalla tenda tirata del salotto vidi filtrare un raggio di luce gialla che illuminava il prato buio.
Sospirai. Charlie era pronto all'assalto.
Probabilmente Edward aveva lo stesso timore, perché aprì la mia portiera con l'espressione rigida e lo sguardo lontano.
«È grave?», chiesi.
«Charlie non sarà un problema», mi rassicurò, senza un filo d'ironia nella voce. «Ha sentito la tua mancanza».
Lo guardai torva e dubbiosa. E allora perché Edward sembrava teso come prima di una battaglia?
La mia valigia era leggera, ma insistette per portarla in casa. Charlie ci tenne la porta aperta.
«Bentornata, piccola!», gridò Charlie in tono sorprendentemente sincero. «Com'è Jacksonville?».
«Umida. E piena d'insetti».
«Dunque Renée non ti ha convinta a iscriverti all'università laggiù?».
«Ci ha provato. Ma io l'acqua preferisco berla, non respirarla».
Gli occhi di Charlie guizzarono involontariamente su Edward. «Tu ti sei trovato bene?».
«Sì», rispose Edward sereno. «Renée è stata molto ospitale».
«Mi fa... ehm, piacere. Sono contento che vi siate divertiti». Charlie distolse lo sguardo da Edward e mi tirò a sé per un abbraccio inaspettato.
«Notevole», gli sussurrai nell'orecchio.
Scoppiò a ridere. «Mi sei mancata davvero, Bells. Il cibo qui fa schifo quando non ci sei».
«Ora ci penso io», gli dissi quando mi lasciò andare.
«Forse è meglio se prima chiami Jacob: mi sta assillando dalle sei di stamattina, si fa vivo ogni cinque minuti. Gli ho promesso che l'avresti chiamato prima ancora di disfare la valigia».
Non fu necessario guardare Edward per sentire che era impietrito, immobile accanto a me. Ecco la causa di tanta tensione.
«Jacob vuole parlarmi?».
«Con urgenza, direi. Non mi ha voluto spiegare, ha detto solo che era importante».
In quel momento squillò il telefono, insistente e stridulo.
«Eccolo ancora, ci scommetto il prossimo stipendio», brontolò Charlie.
«Rispondo io». Corsi in cucina.
Edward mi seguì e Charlie scomparve in salotto.
Agguantai il telefono a metà squillo e mi voltai verso la parete per non mostrare il viso. «Pronto?».
«Sei tornata», disse Jacob.
La sua voce familiare e rauca scatenò un'ondata di nostalgia. Mille ricordi iniziarono a girare aggrovigliati nella mia mente: una spiaggia di sassi punteggiata di tronchi d'albero, un garage fatto di casotti prefabbricati, bibite calde in una busta di carta, una stanza minuscola con un divano malandato e troppo piccolo. La risata nei suoi occhi neri e profondi, il calore febbricitante della sua grande mano che stringeva la mia, il bagliore dei denti bianchi a contrasto con la pelle scura, il viso disteso in quel sorriso ampio che era sempre stato la chiave di una porta segreta, aperta soltanto per gli spiriti affini.
Era una specie di nostalgia di casa, il desiderio del luogo e della persona che mi avevano protetta nei momenti più bui.
Sciolsi il nodo che avevo in gola. «Sì», risposi.
«Perché non mi hai chiamato?», chiese Jacob.
Il suo tono arrabbiato mi fece subito drizzare i capelli. «Perché sono in casa da quattro secondi esatti, e quando il telefono ha squillato Charlie mi stava giusto dicendo che avevi chiamato».
«Ah. Scusa».
«Niente. Allora, perché stai tormentando Charlie?».
«Ho bisogno di parlarti».
«Fin qui c'ero arrivata da sola. Dimmi».
Seguì una breve pausa.
«Domani vai a scuola?».
Aggrottai le sopracciglia, incapace di dare un senso alla domanda. «Ovvio che ci vado. Perché non dovrei?».
«Niente. Ero solo curioso».
Un'altra pausa.
«Allora, di cosa volevi parlare, Jake?».
Esitò. «Di niente, credo. Volevo... volevo sentire la tua voce».
«Sì, lo so. Sono molto contenta che tu mi abbia chiamato, Jake. Io...». Ma non sapevo cosa aggiungere. Forse che avrei voluto uscire in quello stesso istante per andare a La Push. Ma non potevo dirglielo.
«Ora devo andare», disse all'improvviso.
«Cosa?».
«Ti chiamo presto, okay?».
«Ma Jake...».
Aveva già riattaccato. Restai incredula ad ascoltare il segnale del telefono.
«Una chiamata breve», bofonchiai.
«Tutto bene?», chiese Edward, con voce bassa e premurosa.
Mi voltai lentamente verso di lui. La sua espressione era perfettamente calma. Indecifrabile.
«Non lo so. Non ho capito bene cosa volesse». Era assurdo che Jacob avesse tormentato Charlie tutto il giorno soltanto per sapere se sarei andata a scuola. E se voleva sentire la mia voce, perché aveva riattaccato così presto?
«Probabilmente sei l'unica che può indovinarlo», disse Edward, stiracchiando la bocca in un sorriso.
«Chissà», mormorai. Era vero. Conoscevo Jake come le mie tasche. Non era mai stato così difficile immaginare le sue motivazioni.
Con i pensieri a chilometri di distanza - più di venti, lungo la strada per La Push - passai al setaccio il frigorifero in cerca degli ingredienti per la cena di Charlie. Edward si appoggiò al ripiano della cucina; sapevo che i suoi occhi, a distanza, fissavano il mio viso, ma ero troppo assorta per preoccuparmi di cosa ci vedesse.
Forse la faccenda della scuola era la chiave di tutto. Era l'unica vera domanda che mi aveva fatto Jake. E di sicuro era in cerca di una risposta precisa, a giudicare dall'insistenza con cui aveva tormentato Charlie.
Ma perché mettersi a tenere il conto delle mie presenze?
Cercai di pensarci razionalmente. Se non fossi andata a scuola il giorno seguente, quale sarebbe stato il problema, per Jacob? Charlie mi aveva fatto una piccola predica sulla necessità di evitare le assenze quando mancava così poco agli esami, ma l'avevo convinto che un venerdì non avrebbe compromesso i miei studi. Difficile che Jake fosse preoccupato di questo.
Dal mio cervello non veniva alcuna intuizione brillante. Forse mi era sfuggita qualche informazione fondamentale.
Che cosa poteva essere cambiato di così importante, in soli tre giorni, da convincere Jacob a spezzare la sua sequela di dinieghi e a rimettersi in contatto con me? Che differenza facevano tre giorni?
Restai immobile al centro della cucina. La scatola di hamburger surgelati che avevo fra le mani mi scivolò dalle dita intorpidite. Passò un secondo interminabile, in cui mi persi il tonfo che avrebbero dovuto fare sul pavimento.
Edward li aveva presi al volo e poggiati sul ripiano. Le sue braccia erano già attorno a me, le sue labbra al mio orecchio.
«Cosa c'è che non va?».
Scrollai la testa, confusa.
Tre giorni possono cambiare tutto.
In fondo, non mi ero convinta io stessa che l'alternativa del college fosse impraticabile? Che non avrei più potuto avvicinare nessuno, dopo aver attraversato i tre dolorosi giorni di trasformazione necessari per liberarmi della mortalità e trascorrere l'eternità con Edward? La trasformazione che mi avrebbe resa per sempre prigioniera della mia sete...
Forse Charlie aveva detto a Billy che ero sparita per tre giorni? Forse Billy aveva tirato conclusioni affrettate? Forse Jacob voleva soltanto assicurarsi che fossi ancora un essere umano? Che il patto dei licantropi non fosse stato infranto, che nessuno dei Cullen avesse osato mordere un umano... mordere, non uccidere?
Ma pensava davvero che sarei tornata a casa da Charlie, in tal caso?
Edward mi diede uno strattone. «Bella?», chiese, sinceramente ansioso.
«Credo... credo che volesse controllare», mugugnai. «Rassicurarsi. Che sono un essere umano, ecco».
Edward s'irrigidì e un sibilo profondo mi risuonò nell'orecchio.
«Dovremo andarcene», sussurrai. «Prima. Per rispettare il patto. Non potremo tornare mai più».
Le sue braccia si strinsero a me. «Lo so».
Charlie si schiarì forte la voce dietro di noi.
Con un sussulto mi liberai dall'abbraccio di Edward, mentre arrossivo. Edward tornò ad appoggiarsi al ripiano. Mi guardava di sottecchi. La preoccupazione e la rabbia erano evidenti.
«Se non hai voglia di preparare da mangiare, posso farmi portare una pizza», suggerì Charlie.
«No, tutto a posto, sono già all'opera».
«Okay», rispose. Si appoggiò allo stipite della porta, a braccia incrociate.
Sospirai e mi misi al lavoro, cercando di ignorare il mio pubblico.

«Se ti chiedessi di fare una cosa, ti fideresti?», mi chiese Edward, un filo di nervosismo nella voce morbida.
Eravamo quasi a scuola. Fino a un momento prima aveva scherzato come se niente fosse ma, all'improvviso, aveva afferrato stretto il volante, sforzandosi di non sbriciolarlo.
Osservai la sua espressione ansiosa. Lo sguardo era distante, come distratto da voci lontane.
Il battito del mio cuore accelerò, innescato dalla tensione, ma replicai con la dovuta fermezza. «Dipende».
Entrammo nel parcheggio della scuola.
«Temevo che avresti risposto così».
«Cosa vuoi che faccia, Edward?».
«Voglio che resti in macchina». Parcheggiò al solito posto e mentre parlava spense il motore. «Voglio che resti ad aspettare finché non torno».
«Ma... perché?».
In quel momento lo notai. Alto com'era, lo avrei visto svettare in mezzo agli altri studenti anche se non si fosse appoggiato alla moto nera, parcheggiata sfrontatamente sul marciapiede.
«Oh».
Il volto di Jacob era una maschera tranquilla che conoscevo bene. Era l'espressione che usava quando era deciso a imbrigliare le emozioni, a mantenere il controllo. Somigliava a Sam, il più vecchio dei lupi, il capo del branco dei Quileute. Ma Jacob non avrebbe mai potuto conquistare la serenità perfetta irradiata da Sam.
Avevo dimenticato quanto m'infastidisse quell'espressione. Ero riuscita a conoscere Sam piuttosto bene prima del ritorno dei Cullen - tanto da apprezzarlo, persino - ma quando Jacob imitava quello sguardo non potevo fare a meno di stizzirmi. Era il volto di uno sconosciuto. Con quella maschera addosso, non era il mio Jacob.
«Ti sei sbagliata, ieri sera», mormorò Edward. «Ti ha chiesto della scuola perché sapeva di potermi trovare dov'eri tu. Cercava un posto sicuro per parlarmi. Un posto con dei testimoni».
Dunque la sera precedente avevo frainteso le ragioni di Jacob. Mancanza di informazioni, ecco il problema. Per esempio, perché mai Jacob avrebbe dovuto parlare proprio con Edward?
«Non resto in macchina», dissi.
Edward sospirò tranquillo. «Lo sapevo. Bene, leviamoci questo impiccio».
Il volto di Jacob s'indurì quando ci vide camminare verso di lui, mano nella mano.
Notai altri volti, i miei compagni di scuola. Strabuzzavano gli occhi di fronte al metro e novantacinque del lungo corpo di Jacob, alla muscolatura tutt'altro che usuale per un ragazzo di sedici anni e mezzo. Li vedevo indugiare sulla sua maglietta nera aderente - a maniche corte, nonostante la giornata fosse più fredda della media - sui jeans logori e macchiati di grasso e sulla moto nera e lucida alla quale era appoggiato. Non si soffermavano sul viso: qualcosa nella sua espressione li induceva a deviare lo sguardo. Gli avevano creato il vuoto attorno, una bolla di spazio che nessuno osava invadere.
Con un certo stupore, mi resi conto che Jacob a loro sembrava pericoloso. Che strano.
Edward si fermò a pochi metri da lui; lo sentivo, non era a suo agio sapendomi così vicina a un licantropo. Portando la mano indietro, si mise davanti a me, in modo da coprirmi per metà.
«Avresti potuto chiamarci», disse Edward in tono duro come l'acciaio.
«Scusa», rispose Jacob, distorcendo il viso in un ghigno. «Non ci sono sanguisughe nella mia rubrica».
«Mi avresti trovato a casa di Bella, lo sai».
Jake fece una smorfia e aggrottò le sopracciglia. Non rispose.
«Non è questo il posto, Jacob. Ne possiamo parlare più tardi?».
«Certo, come no. Dopo scuola posso sempre fermarmi alla tua cripta». Jacob ghignò. «L'orario è un problema?».
Edward lanciò uno sguardo pungente tutt'attorno e si soffermò sugli altri studenti che si trovavano appena fuori del raggio delle nostre voci. Alcuni erano fermi sul marciapiede, con gli occhi luccicanti d'attesa. Forse speravano che scoppiasse una rissa, tanto per alleviare la noia del lunedì mattina. Vidi Tyler Crowley dare di gomito ad Austin Marks, ed entrambi si fermarono a osservare.
«So già che cosa sei venuto a dire», ricordò Edward a Jacob con voce tanto bassa che persino io feci fatica a distinguerla. «Messaggio ricevuto. Consideraci avvisati».
Edward mi rivolse uno sguardo fugace e preoccupato.
«Avvisati?», domandai ingenua. «Di cosa state parlando?».
«Non gliel'hai detto?», chiese Jacob, con gli occhi spalancati di stupore. «Che c'è, avevi paura che si schierasse con noi?».
«Piantala Jacob, per favore», disse Edward impassibile.
«Perché?», lo sfidò Jacob.
Corrugai la fronte, confusa. «Cos'è che non so? Edward?».
Edward inchiodò con lo sguardo Jacob, come se non mi avesse sentito.
«Jake?».
Jacob mi guardò di sottecchi. «Non ti ha raccontato che il suo grande... "fratello" ha passato il confine sabato sera?», domandò sarcastico. Poi i suoi occhi scintillarono di nuovo verso Edward. «Paul era nel pieno diritto di...».
«Era terra di nessuno!», sibilò Edward.
«No!».
Jacob era visibilmente alterato. Gli tremavano le mani. Scosse la testa e respirò a fondo.
«Emmett e Paul?», sussurrai. Nel branco Paul era il più imprevedibile. Era lui che aveva perso il controllo quel giorno nei boschi... il ricordo del lupo grigio che ringhiava si fece improvvisamente vivo dentro di me. «Cos'è successo? Hanno combattuto?». Il panico rese la mia voce più stridula. «Perché? Paul è ferito?».
«Non c'è stato nessun combattimento», disse Edward tranquillo, rivolgendosi a me. «Non si è ferito nessuno. Non farti prendere dall'ansia».
Jacob ci osservava, lo sguardo incredulo. «Non le hai detto un bel niente, vero? Ecco perché l'hai portata via! Per non farle sapere che...».
«Ora vattene». Edward lo interruppe a metà frase e il suo viso si fece improvvisamente spaventoso. Per un secondo, sembrò un... vampiro. Fulminò Jacob con uno sguardo pieno d'odio e sfacciata cattiveria.
Jacob alzò le sopracciglia, ma non mosse altro. «Perché non gliel'hai detto?».
Si guardarono in silenzio per un istante interminabile. Molti studenti si erano raggruppati dietro Tyler e Austin. Vidi Mike accanto a Ben: poggiava una mano sulla sua spalla, come per trattenerlo.
Nel silenzio assoluto, un'intuizione improvvisa rimise ogni dettaglio al suo posto.
C'era qualcosa di cui Edward non aveva voluto parlarmi.
Qualcosa che Jacob non mi avrebbe tenuta nascosta.
Qualcosa che aveva attirato i Cullen e i lupi nella foresta e li aveva fatti avvicinare pericolosamente.
Qualcosa che aveva convinto Edward a insistere perché prendessimo l'aereo e ce ne andassimo.
Qualcosa che Alice aveva visto la settimana precedente e su cui Edward mi aveva mentito.
Tuttavia, stavo aspettando proprio quel momento. Lo temevo, ed ero pronta ad affrontarlo, malgrado desiderassi con tutta me stessa che non arrivasse mai. Ma i miei guai non potevano aver fine, vero?
Sentivo il respiro pesante e affannoso sulle mie labbra, e non riuscivo a fermarlo. Era come se la scuola stesse tremando, come se ci fosse un terremoto, ma sapevo che erano i miei fremiti a provocare quella sensazione.
«È tornata a cercarmi», dissi con voce strozzata.
Victoria si sarebbe arresa soltanto dopo avermi uccisa. Avrebbe continuato a ripetere la stessa tattica - finta, fuga, finta, fuga - fino ad aprirsi un varco tra i miei difensori.
Magari, con un po' di fortuna, i Volturi mi avrebbero trovata per primi: perlomeno mi avrebbero uccisa più velocemente.
Edward mi strinse forte, posizionandosi in modo da non lasciare varchi fra me e Jacob, e mi accarezzò il viso con mani ansiose. «Va tutto bene», sussurrò. «Va tutto bene. Non le permetterò mai di avvicinarsi, non preoccuparti».
Poi fulminò Jacob. «Questa risposta è sufficiente alla tua domanda, randagio?».
«Non credi che Bella abbia diritto di sapere?», lo incalzò Jacob. «È la sua vita».
Edward abbassò il tono; nemmeno Tyler, che ormai era lontano solo pochi centimetri, riuscì a sentirlo. «Perché dovrebbe essere preoccupata, se non è mai stata in pericolo?».
«Meglio una preoccupazione che una bugia».
Cercai di riprendere il controllo, ma avevo gli occhi inondati di lacrime. Mi bastava chiuderli per vederla: il volto di Victoria, le labbra che scoprivano i denti, gli occhi rossi accesi dall'ossessione di vendetta; riteneva Edward responsabile della morte di James, il suo amato. Non si sarebbe fermata finché non gli avesse portato via me, il suo amore.
Edward mi asciugò le lacrime con la punta delle dita.
«Credi davvero che tormentarla sia meglio che proteggerla?», mormorò.
«È più forte di quanto credi», disse Jacob. «E ne ha passate di peggiori».
All'improvviso Jacob cambiò espressione e restò a guardare Edward con uno sguardo strano, pensieroso. I suoi occhi si strinsero, come cercasse di risolvere un difficile problema di matematica.
Sentii Edward rabbrividire. Lo guardai, il suo viso era contratto, preda di un evidente dolore. Per un terribile istante, ricordai quel nostro pomeriggio in Italia, nel macabro salone della torre dei Volturi, dove Jane aveva torturato Edward con i suoi poteri maligni, ustionandolo con la sola forza del pensiero...
Il ricordo mi fece riprendere da quel momento di quasi isteria e rimise tutto in prospettiva. Avrei permesso a Victoria di uccidermi cento volte, piuttosto che vedere di nuovo Edward soffrire in quel modo.
«Molto divertente», disse Jacob ridendo mentre osservava Edward.
Edward trasalì, ma con un piccolo sforzo si distese. Non riusciva a nascondere del tutto l'agonia nei suoi occhi.
Strabuzzai gli occhi e passai dalla smorfia di Edward al ghigno di Jacob.
«Che cosa gli stai facendo?», domandai.
«Non è niente, Bella», disse Edward pacato. «Jacob ha soltanto buona memoria, tutto qui».
Jacob sorrise ed Edward rabbrividì di nuovo.
«Basta! Qualunque cosa tu stia facendo finiscila».
«Certo, se vuoi». Jacob si strinse nelle spalle. «Comunque è soltanto colpa sua se i miei ricordi non gli piacciono».
Lo guardai, e mi rispose con un sorriso impertinente, come un bambino sorpreso a fare qualcosa che sapeva di non dover fare, da qualcuno che sa che non lo punirà.
«Il preside sta arrivando a controllare chi è ancora in giro», mormorò Edward. «Andiamo a inglese, Bella, così non ti darà noia».
«Iperprotettivo, eh?», disse Jacob, rivolgendosi a me. «Qualche problemino rende la vita divertente. Fammi indovinare, scommetto che non hai il permesso di divertirti, vero?».
Lo sguardo di Edward si riempì di rabbia e tese le labbra per scoprire lentamente i denti.
«Chiudi il becco, Jake», dissi.
Jacob rise. «Mi suona come un "no". Ehi, vieni a trovarmi, se ti torna la voglia di avere una vita. Ho ancora la tua moto nel garage».
La notizia mi distrasse. «Avresti dovuto venderla. Hai promesso a Charlie che l'avresti venduta».
Se non l'avessi pregato in nome di Jacob - dopotutto, le due motociclette gli erano costate settimane di lavoro e meritava una ricompensa - Charlie avrebbe buttato la mia moto in un cassonetto. E magari avrebbe dato fuoco pure al cassonetto.
«Sì, è vero. Ma, come potrei? È tua, non mia. Comunque, me la terrò stretta finché non la rivorrai».
Un piccolo cenno del sorriso che ricordavo apparve improvvisamente agli angoli della sua bocca.
«Jake...».
Si chinò in avanti, con un'espressione più sincera, priva del suo sarcasmo amaro. «Credo di essermi sbagliato; voglio dire, sul fatto che non possiamo essere amici. Forse ce la possiamo fare, dentro i miei confini. Vieni a trovarmi».
Sentivo forte la presenza di Edward, il suo abbraccio protettivo stretto attorno a me, immobile come una roccia. Lanciai un'occhiata al suo viso: era calmo, paziente.
«Io... be'... non lo so, Jake».
Jacob rinunciò del tutto alla facciata da cattivo. Come se si fosse dimenticato di Edward, o perlomeno avesse deciso di ignorarlo del tutto. «Mi manchi, Bella. Sento la tua mancanza tutti i giorni. Non è lo stesso senza di te».
«Lo so e mi dispiace, Jake, io...».
Scosse la testa e sospirò. «Lo so. Non importa, okay? Non morirò di certo, figuriamoci. Tanto a che servono gli amici?». Fece una smorfia, cercando di coprire il dolore con un debole accenno di spavalderia.
Il dolore di Jacob aveva sempre stimolato il mio lato protettivo. Non c'era un motivo razionale, visto che Jake non aveva bisogno della scarsa protezione fisica che gli potevo offrire. Ma le mie braccia, bloccate da quelle di Edward, desiderarono raggiungerlo. Avvolgersi al suo petto ampio e caldo, in una promessa muta di comprensione e conforto.
Le braccia protettive di Edward erano diventate un freno.
«Okay, tutti in classe», risuonò dietro di noi una voce severa.
«Si muova, signor Crowley».
«Torna a scuola, Jake», sussurrai ansiosa non appena riconobbi la voce del preside. Jacob frequentava la scuola dei Quileute e rischiava di ficcarsi nei guai per essere entrato nel nostro complesso.
Edward mi lasciò andare, tenendomi solo la mano, ma senza smettere di farmi scudo con il suo corpo.
Il signor Greene si fece strada nel cerchio degli spettatori, con le sopracciglia che premevano sugli occhietti piccoli come nuvole minacciose di tempesta. «Forse non mi sono spiegato», minacciò. «Punizione per chiunque sarà ancora qui quando torno».
L'adunata del pubblico si sciolse prima ancora che finisse la frase.
«Ah, signor Cullen. C'è qualche problema?».
«Assolutamente no, signor Greene. Stavamo giusto andando in classe».
«Benissimo. Non mi sembra di conoscere il suo amico». Greene spostò lo sguardo su Jacob. «Lei è un nostro nuovo studente?»,
Gli occhi di Greene scrutarono Jake e capii che stava arrivando alla stessa conclusione degli altri: pericoloso. Un provocatore.
«Negativo», rispose Jacob, un sorrisetto compiaciuto sulle labbra piene.
«In questo caso, giovanotto, le suggerisco di allontanarsi dalla struttura scolastica immediatamente, prima che chiami la polizia».
Il sorrisetto di Jacob si spalancò; di sicuro immaginava la scena in cui Charlie veniva ad arrestarlo. Era un sorriso troppo amaro, troppo beffardo per soddisfarmi. Non era il sorriso che mi aspettavo di vedere.
«Sì, signore», disse Jacob, e schioccò un saluto militare prima di mettersi in sella alla sua moto e avviarla proprio lì sul marciapiede. Il motore ringhiò e gli pneumatici stridettero mentre girava la moto con un gesto aggressivo e sgommava via. In pochi secondi, Jacob sparì.
Il signor Greene assistette all'esibizione a denti stretti.
«Signor Cullen, mi aspetto che dica al suo amico di trattenersi dall'entrare di nuovo».
«Non è un mio amico, signor Greene, ma trasmetterò il suo avviso».
Il signor Greene strinse le labbra. La media perfetta e l'immacolata carriera scolastica di Edward erano chiaramente un fattore importante nella valutazione dell'incidente. «Bene. Se c'è qualcosa che la preoccupa, sarò lieto di...».
«Non c'è niente di cui preoccuparsi, signor Greene. Non ci sarà alcun problema».
«Spero sia vero. Bene, allora. Tornate in classe. Anche lei, signorina Swan».
Edward annuì e mi trascinò svelto verso l'istituto d'inglese.
«Te la senti di andare a lezione?», sussurrò una volta superato il preside.
«Sì», sussurrai a mia volta, senza sapere bene se fosse una bugia. Non contava poi molto che mi sentissi bene o no. Avevo bisogno di parlare subito con Edward e di sicuro l'aula non era il luogo ideale per la conversazione che avevo in mente.
Ma, con il signor Greene alle nostre spalle, non c'erano grandi alternative.
Entrammo in classe un po' in ritardo e prendemmo velocemente posto. Il professor Berty stava recitando una poesia di Frost. Ignorò il nostro ingresso e non permise che spezzassimo il suo ritmo.
Strappai una pagina bianca dal quaderno e cominciai a scrivere; la grafia era meno leggibile del solito, a causa dell'agitazione.

Che cosa è successo? Raccontami tutto. E smettila con la cazzata del proteggermi, per favore.

Mostrai il biglietto a Edward. Lui fece un sospiro e cominciò a scrivere. Impiegò meno tempo di me per consegnarmi un paragrafo intero scritto con la sua grafia ordinata.

Alice ha visto che Victoria stava tornando. Ti ho portato fuori città soltanto come precauzione, non c'era neanche una possibilità che ti si avvicinasse. Emmett e Jasper sono quasi riusciti a prenderla, ma Victoria ha una specie d'istinto speciale per la fuga. È scappata lungo il confine del Quileute neanche avesse in mano una mappa. I poteri di Alice purtroppo sono stati annullati dal coinvolgimento dei lupi. Onestamente, anche i Quileute avrebbero potuto prenderla se non ci fossimo avvicinati noi. Il grande lupo grigio credeva che Emmett avesse superato il confine e si è schierato sulla difensiva. Ovviamente Rosalie ha reagito e tutti hanno mollato la caccia per proteggere i propri compagni. Carliste e Jasper sono riusciti a calmare le acque prima che la situazione si facesse incontrollabile. Ma a quel punto Victoria se l'era già squagliata. Tutto qui.

Osservai le sue parole accigliata. C'erano proprio tutti: Emmett, Jasper, Alice, Rosalie, e Carlisle. Forse pure Esme, anche se non l'aveva nominata. E poi Paul e il resto del branco dei Quileute. C'era mancato poco che scoppiasse una battaglia, che la mia futura famiglia e i miei vecchi amici si mettessero gli uni contro gli altri. Chiunque avrebbe potuto ferirsi. I lupi si sarebbero trovati in pericolo maggiore, forse, ma l'idea della piccola Alice davanti a un enorme licantropo, a combattere...
Rabbrividii.
Cancellai l'intero paragrafo con la gomma e poi scrissi:

E Charlie? Sarebbe potuta andare da lui.

Edward iniziò a scuotere la testa prima ancora che avessi finito, ovviamente per minimizzare qualunque pericolo riguardasse Charlie. Tese la mano, ma lo ignorai e aggiunsi.

Non puoi sapere se lei ci stessa pensando, perché non c'eri. Che brutta idea la Florida.

Mi sfilò il foglio di mano.

Non ti avrei mai lasciata partire da sola. Con la fortuna che ti ritrovi, dell'aereo non sarebbe sopravvissuta neanche la scatola nera.

Non era affatto ciò che intendevo; non avrei mai pensato di andarci senza di lui. Pensavo che saremmo dovuti rimanere. Ma la sua risposta mi lasciò sconcertata e un po' offesa. Dunque non potevo volare senza far schiantare l'aereo? Proprio divertente.

Va bene, allora la mia sfortuna avrebbe fatto precipitare l'aereo. E cosa avresti fatto tu in quel caso, esattamente?

Perché l'aereo sta precipitando?

Ora cercava di mascherare un sorriso.

I piloti si sono ubriacati e sono svenuti.

Facile. Guido io l'aereo.

Ovvio. Increspai le labbra e ci riprovai.

Entrambi i motori sono esplosi e ci stiamo avvitando in una caduta libera mortale.

Aspetto che siamo abbastanza vicini a terra, ti stringo forte, do un calcio alla parete e salto. Poi ti riporto sul luogo dell'incidente ed eccoci barcollanti, i due superstiti più fortunati della storia.

Lo fissai senza parole. «Che c'è?», sussurrò.
Scossi la testa, in soggezione. «Niente», mimai con la bocca. Cancellai quella conversazione sconcertante e scrissi un'altra riga.

La prossima volta mi spiegherai.

Sapevo che ci sarebbe stata una prossima volta. La tattica sarebbe continuata finché qualcuno non ci fosse cascato.
Edward mi fissò per un istante interminabile. Mi chiesi che aspetto avesse il mio viso: sentivo freddo, come se il sangue non fosse risalito alle guance. Le ciglia erano ancora bagnate.
Sospirò e annuì con un cenno.
Il foglio scomparve da sotto la mia mano. Guardai in alto, sorpresa, mentre il professor Berty camminava tra le file di banchi.
«C'è qualcosa che vorrebbe condividere con noi, signor Cullen?».
Edward alzò uno sguardo innocente e mostrò il foglio di carta in cima alla cartellina. «I miei appunti?», chiese con aria confusa.
Il professor Berty esaminò gli appunti, cioè una trascrizione precisa e perfetta della sua lezione, e si allontanò accigliato.
Fu più tardi, durante l'ora di algebra - il mio unico corso senza Edward - che mi accorsi del chiacchiericcio che si era scatenato.
«Io punto sull'indiano gigante», diceva qualcuno.
Sbirciai e vidi Tyler, Mike, Austin e Ben assorti in una fitta conversazione.
«Sì», sussurrò Mike. «Hai visto la "taglia" di quel Jacob? Per me è capace di fare Cullen a pezzetti». Mike sembrava compiaciuto all'idea.
«Non credo», replicò Ben. «Edward ha qualcosa di particolare. È sempre così sicuro di sé. Secondo me se la caverebbe».
«Sono d'accordo con Ben», commentò Tyler. «Fra l'altro, se quel tipo sistema Edward, di sicuro i suoi enormi fratelli si occuperanno di lui».
«Siete andati a La Push ultimamente?», chiese Mike. «Io e Lauren siamo stati al mare un paio di settimane fa e, credetemi, gli amici di Jacob sono grandi tanto quanto lui».
«Ah», disse Tyler. «Peccato che non sia successo niente. Mi sa che non sapremo mai come sarebbe andata a finire».
«Secondo me non è finita», disse Austin. «Magari riusciremo a vedere il seguito».
Mike sorrise. «A qualcuno va di scommettere?».
«Dieci su Jacob», disse Austin tutto d'un fiato.
«Dieci su Cullen», intervenne Tyler.
«Dieci su Edward», aggiunse Ben.
«Jacob», disse Mike.
«Ehi, ragazzi, voi sapete cosa c'è dietro?», si chiese Austin. «Potrebbe influenzare le puntate».
«Io forse sì», disse Mike, e mi lanciò un'occhiata, insieme a Ben e Tyler.
A giudicare dalle espressioni, nessuno di loro si era reso conto che da dove stavo riuscivo a sentirli. Distolsero lo sguardo all'istante e riordinarono i fogli sul banco.
«Confermo, io punto su Jacob», commentò Mike sotto voce.

4
Natura

Era proprio una brutta settimana.
In sostanza non era cambiato niente. Victoria non aveva rinunciato ai suoi propositi... ma avevo mai davvero sperato che lo facesse? La sua ricomparsa era soltanto la conferma di ciò che già sapevo. Non c'era ragione di farsi prendere dal panico.
Almeno in teoria. "Niente panico" era più facile a dirsi che a farsi.
Mancavano poche settimane al diploma e mi chiedevo se non fosse un po' stupido rimanere così, come una facile preda, ad aspettare il disastro. Restare umana mi sembrava troppo pericoloso: era come andare in cerca di guai. Una come me non avrebbe dovuto essere umana. Con la sfortuna che avevo, non potevo permettermi di restare così sprovveduta.
Ma nessuno mi stava ad ascoltare.
Carlisle mi aveva risposto: «Siamo in sette, Bella. E con Alice dalla nostra parte, non credo che Victoria riuscirà a coglierci impreparati. Per il bene di Charlie, è meglio attenerci al nostro piano originario».
Esme aveva aggiunto: «Tesoro, non permetteremo che ti succeda qualcosa. Lo sai. Cerca di mantenere la calma». Poi mi aveva baciato in fronte.
Emmett aveva commentato: «Sono felice che Edward non ti abbia uccisa. È tutto molto più divertente quando ci sei tu».
Rosalie l'aveva fulminato con lo sguardo.
Alice, alzando gli occhi al cielo, aveva detto: «Mi sento offesa. Non dirmi che sei preoccupata sul serio per questa storia».
«Se non è una cosa grossa, perché Edward mi ha trascinato in Florida?», avevo ribattuto.
«Bella, non hai ancora notato che Edward ha una leggerissima tendenza a lasciarsi prendere la mano?».
Jasper, in silenzio, aveva cancellato il panico e la tensione dal mio corpo, grazie alla sua bizzarra capacità di controllare il clima emotivo. Mi sentii rassicurata e lasciai che mi convincessero a rinunciare alle mie richieste disperate.
Ovviamente, la calma svanì non appena io ed Edward uscimmo dalla stanza.
L'accordo, dunque, era che mi sarei semplicemente dimenticata del fatto che una vampira scatenata mi stava dando la caccia per uccidermi. Avrei dovuto badare ai fatti miei.
Ci provai. E, guarda un po', oltre a essere nella lista delle specie a rischio di estinzione, c'erano preoccupazioni quasi altrettanto pressanti su cui concentrarmi...
Perché la risposta che avevo ricevuto da Edward era stata la più frustrante di tutte.
«Dipende da te e Carlisle», aveva detto. «Ovviamente sai che potrei farlo in qualunque momento desideri. Sai anche qual è la mia condizione». E aveva sorriso come un angelo.
Uffa. Conoscevo la sua condizione. Mi aveva dato la sua totale disponibilità a trasformarmi... a patto che prima ci fossimo sposati.
A volte mi chiedevo se non mentisse, quando diceva di non riuscire a leggermi nel pensiero. Come poteva aver posto l'unica condizione che avevo problemi ad accettare, l'unica condizione che metteva un freno alla mia decisione?
Nel complesso, una settimana orribile. E oggi era il giorno peggiore.
Era sempre un brutto giorno quando Edward non c'era. Alice non aveva previsto niente di strano per il fine settimana, dunque avevo insistito perché approfittasse per andare a caccia con i suoi fratelli. Sapevo quanto lo annoiava cacciare solo prede facili nelle vicinanze.
«Vai e divertiti», gli avevo detto. «Prendi qualche puma anche per me».
Di fronte a lui non avrei mai ammesso quanto fosse dura per me quando non c'era, quanto in fretta si risvegliassero gli incubi dell'abbandono. Se glielo avessi detto lo avrei intimorito, terrorizzato, e si sarebbe rifiutato di allontanarsi persino di fronte ai motivi più stringenti. Sarebbe stato come all'inizio, subito dopo il ritorno dall'Italia. I suoi occhi dorati erano diventati scuri e aveva sofferto la sete più del necessario. Per questo avevo deciso di fare la coraggiosa e lo cacciavo di casa ogni volta che Emmett e Jasper volevano partire.
Eppure credo che avesse capito come stavo. Un po'. Quella mattina c'era un biglietto sul mio cuscino:

Tornerò talmente presto che non avrai neanche il tempo di sentire la mia mancanza.
Prenditi cura del mio cuore, te l'ho lasciato.

Perciò mi aspettava un sabato lungo e vuoto, senza nulla che mi distraesse a parte il turno al negozio di articoli sportivi dei Newton. E, ovviamente, le rassicuranti promesse di Alice.
«Rimarrò a cacciare vicino a casa. Sarò a non più di un quarto d'ora di distanza, in caso di bisogno. Terrò gli occhi aperti per qualunque problema».
Traduzione: non pensare di fare pazzie solo perché Edward si è allontanato.
E Alice non aveva niente da invidiare a Edward, quanto a capacità di sabotare il mio pick-up.
Provai a essere ottimista. Dopo il lavoro, avevo in programma di aiutare Angela con gli inviti, il che mi sarebbe servito a distrarmi. Grazie all'assenza di Edward, Charlie era d'umore eccellente e finché fosse durato avrei potuto godermela. Se fossi stata tanto patetica da chiederglielo, Alice avrebbe trascorso la notte con me. E l'indomani Edward sarebbe stato di nuovo al mio fianco. Me la sarei cavata.
Non volevo rendermi ridicola arrivando in anticipo al lavoro, perciò feci colazione pian piano, un cornflake alla volta. Poi, lavati i piatti, disposi in linea perfetta tutte le calamite sul frigorifero. Forse stavo sviluppando qualche disturbo ossessivo-compulsivo.
Le ultime due calamite - due pratici cerchi neri, i miei preferiti perché riuscivano a tenere appesi al frigo fino a dieci fogli di carta - non volevano collaborare. Avevano polarità rovesciata: ogni volta che provavo ad allineare l'ultimo, l'altro schizzava fuori posto.
Questo, forse a causa di una sindrome maniacale imminente, m'irritava. Non potevano mettersi tranquillamente in fila? In preda alla mia testardaggine continuai a maneggiarle, quasi mi aspettassi che si arrendessero. Avrei potuto rovesciarne una, ma sarebbe stato come dargliela vinta. Alla fine, esasperata più da me stessa che dalle calamite, le staccai dal frigo e le unii stringendole tra le mani. Ci volle un po' di sforzo: erano abbastanza grandi da cercare di resistermi, ma le costrinsi a coesistere, l'una accanto all'altra.
«Visto», dissi ad alta voce, e non è mai un buon segno quando uno inizia a parlare con gli oggetti inanimati, «che non è poi così orribile?».
Rimasi lì come una stupida per un secondo, incapace di ammettere la mia sconfitta di fronte a un principio scientificamente provato. Poi, con un sospiro, risistemai le calamite sul frigo, distanti.
«Non c'è bisogno di essere così inflessibili», borbottai.
Benché fosse troppo presto, decisi che era meglio uscire di casa prima che gli oggetti inanimati cominciassero a rispondermi.
Quando arrivai dai Newton, Mike spolverava metodico gli scaffali con uno straccio bagnato, mentre sua madre sistemava un nuovo espositore sul bancone. Li beccai nel mezzo di una discussione; non si erano accorti del mio arrivo.
«Ma Tyler potrà partire solo questa volta», si lamentava Mike. «Avevi detto dopo il diploma...».
«Devi aspettare e basta», sbottò la madre. «Tu e Tyler troverete qualcos'altro da fare. Non andrai a Seattle finché la polizia non metterà fine a ciò che sta succedendo, qualunque cosa sia. So che Beth Crowley ha detto a Tyler la stessa cosa, dunque non farmi fare la parte della cattiva... Oh, buongiorno, Bella», disse appena si accorse di me, e schiarì subito il tono di voce. «Sei in anticipo».
Karen Newton era l'ultima persona alla quale avrei chiesto consiglio in un negozio d'abbigliamento sportivo. I suoi capelli biondi, dalla tinta impeccabile, erano sempre raccolti in un elegante chignon dietro il collo, e le unghie, anche quelle dei piedi, ben visibili nei sandali con cinturino e tacco alto, erano curatissime: niente a che vedere con la vasta offerta di scarpe da trekking esposte in negozio.
«Non c'era traffico», scherzai mentre afferravo la mia odiosa divisa arancione da sotto il bancone. Mi sorprendeva che la signora Newton fosse preoccupata quanto Charlie dalla faccenda di Seattle. Pensavo che lui esagerasse.
«Be', ehm...». La signora Newton restò indecisa per un attimo, giocando goffamente con la pila di volantini che stava sistemando vicino alla cassa.
Mi fermai con un braccio infilato nella divisa. Conoscevo quello sguardo.
Quando avevo comunicato ai Newton che non avrei lavorato per loro durante l'estate - abbandonandoli nella stagione peggiore, peraltro - avevano ingaggiato Katie Marshall come mia sostituta in prova. Non potevano proprio permettersi tutt'e due a libro paga, così, nelle giornate tranquille come quella...
«Ti stavo per chiamare», continuò la signora Newton. «Per oggi non prevediamo molto lavoro. Mike e io ce la possiamo cavare, credo. Mi dispiace che ti sia dovuta alzare e venire fin qui...».
Di solito una coincidenza del genere mi mandava in estasi. Quel giorno però... non troppo.
«Va bene», sospirai. Le mie spalle crollarono. E ora come occupavo la giornata?
«Non è giusto, mamma», disse Mike. «Se Bella vuole lavorare...».
«No, va bene così, signora Newton. Davvero, Mike. Ho gli esami da preparare e un sacco di altre cose...». Non volevo essere il pretesto di una lite familiare, visto che stavano già discutendo.
«Grazie, Bella. Mike, ti sei dimenticato la quarta fila. Ah, Bella, ti dispiace buttare questi volantini nella spazzatura, mentre esci? Ho detto alla ragazza che li ha lasciati che li avrei messi sul bancone, ma proprio non c'è spazio».
«Certo, come no». Mi levai la divisa, presi i volantini e mi diressi fuori, sotto la pioggerellina.
La spazzatura era dietro l'angolo, vicino al parcheggio dei dipendenti. Strascicavo i piedi e scalciavo irritata i sassolini. Ero sul punto di far volare la catasta di foglietti color giallo acceso nel cassonetto, quando l'intestazione in grassetto attirò il mio sguardo. Una parola in particolare catturò la mia attenzione.
Afferrai il foglio fissando l'immagine sotto la scritta. All'istante sentii un nodo in gola.

SALVIAMO IL LUPO DELLA PENISOLA OLIMPICA

Sotto la scritta, un disegno particolareggiato mostrava il lupo di fronte a un abete, con la testa inclinata all'indietro, come se ululasse alla luna. Era un'immagine sconcertante; c'era qualcosa, nell'aria malinconica del lupo, che lo faceva sembrare disperato. Come stesse urlando di dolore.
Corsi al mio pick-up, con i volantini ancora ben stretti in mano.
Avevo quindici minuti, non uno di più. Ma erano sufficienti. Per raggiungere La Push bastava un quarto d'ora e sicuramente avrei passato il confine qualche minuto prima di raggiungere il centro della cittadina. Il mio pick-up prese vita con un rombo, senza alcuna difficoltà.
Alice non mi avrebbe vista, perché era un'azione che non avevo progettato. Decidere all'istante, ecco il segreto! Per sfruttarlo a mio vantaggio dovevo muovermi veloce.
Nella fretta avevo lanciato i volantini umidi, che si erano sparsi ovunque, sul sedile del passeggero: un centinaio di scritte in grassetto, un centinaio di lupi scuri e ululanti che spiccavano sullo sfondo giallo.
Imboccai a razzo l'autostrada bagnata, azionando i tergicristalli a tutta potenza e ignorando il gemito del vecchio motore. Impossibile persuaderlo ad andare a più di ottanta all'ora; pregai che fosse sufficiente.
Non avevo idea di dove fosse il confine, ma superate le prime case fuori La Push mi sentii più al sicuro. Dovevo già essere oltre la zona permessa ad Alice.
L'avrei chiamata da casa di Angela nel pomeriggio, per farle sapere che stavo bene. Non aveva motivo di allarmarsi. Non era il caso che si arrabbiasse con me... Edward si sarebbe infuriato per due, al suo ritorno.
Il mio furgoncino sbuffò contento grattando una frenata davanti alla casa rossa scolorita che mi era così familiare. Fissai il luogo che un tempo era stato il mio piccolo rifugio e mi tornò il nodo alla gola. Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che ci ero stata.
Non avevo ancora spento il motore e lui era già lì sulla porta, muto e vinto dallo stupore.
Il motore esalò l'ultimo rombo; nel silenzio improvviso, sentii Jacob ansimare.
«Bella?».
«Ciao, Jake!».
«Bella!», gridò di nuovo e il sorriso che aspettavo gli si distese sul viso come il sole quando si libera delle nuvole. I denti bianchi e lucidi risaltavano sulla pelle ramata. «Non posso crederci!».
Corse al furgone e quasi mi strappò via dalla portiera aperta. Dopo un attimo stavamo già saltellando su e giù come bambini.
«Come sei arrivata fin qui?».
«Sono scappata!».
«Fantastico!».
«Ciao, Bella!». Billy si era trascinato da solo sulla porta, per vedere a cosa fosse dovuta tanta eccitazione.
«Ciao, Bill!».
Poi rimasi senza fiato: Jacob mi afferrò da dietro in un abbraccio soffocante e mi fece roteare.
«Che bello vederti qui!».
«Non... respiro», ansimai.
Rise e mi lasciò andare.
«Bentornata, Bella», disse sorridente. Il tono era quello di un "bentornata a casa".

Iniziammo a camminare, troppo agitati per chiuderci in casa. I passi di Jacob erano lunghi come salti e mi toccò ricordargli più di una volta che le mie gambe non erano lunghe tre metri.
Camminando accanto a Jake mi sentivo trasformare pian piano in un'altra versione di me, quella che ero stata con lui. Un po' più giovane, un po' meno responsabile. Una che poteva, di tanto in tanto, fare qualche grossa stupidaggine senza alcuna buona ragione.
Pieni di esuberanza cominciammo a parlare: come stavamo, che cosa stavamo combinando, quanto mi ci era voluto e che cosa mi aveva spinto ad andare lì. Quando, esitante, gli dissi del volantino sul lupo, la sua risata poderosa risuonò tra gli alberi.
Poi però, camminando a passo lento sul retro del negozio, spingendoci verso la spessa boscaglia che circondava il confine di First Beach, toccammo argomenti più spinosi. Affrontammo subito le ragioni della nostra lunga separazione e vidi il volto del mio amico indurirsi in una maschera di amarezza che mi era fin troppo familiare.
«E allora, come vanno le cose?», mi chiese Jacob, scalciando con forza un pezzo di legno che volò oltre la sabbia e urtò rumorosamente contro le rocce. «Voglio dire... dall'ultima volta che... be', prima, ecco...». Si sforzò di trovare le parole. Prese fiato e ci riprovò. «Quello che vorrei sapere è... è tornato tutto come prima che lui partisse? Lo hai perdonato per tutto?».
Respirai a fondo. «Non c'era niente da perdonare».
Avrei voluto evitare la parte dei tradimenti e delle accuse, ma sapevo che era la prima cosa da chiarire.
Il viso di Jacob si contrasse come se avesse appena succhiato un limone. «Vorrei che Sam avesse fatto una foto quando ti ha trovato quella notte, lo scorso settembre. Sarebbe stata una prova schiacciante».
«Non siamo in tribunale».
«Magari lo fossimo».
«Neanche tu ce l'avresti con lui, se sapessi perché se n'è andato».
Mi fissò per qualche secondo. «Va bene», mi sfidò, acido. «Stupiscimi».
La sua ostilità m'infastidiva, mi pungeva nel vivo; era una sofferenza sentirlo adirato con me. Mi ricordò un tetro pomeriggio di tanto tempo prima, quando, dietro ordine di Sam, mi aveva detto che non potevamo più essere amici. Ma in un secondo mi ripresi.
«Lo scorso autunno Edward mi ha lasciato perché secondo lui era meglio che smettessi di frequentare i vampiri. Era convinto che la sua partenza sarebbe stata salutare per me».
Jacob reagì a scoppio ritardato. Per qualche istante fu costretto a rimescolare le carte. Qualunque cosa avesse pensato di dire, non era più pertinente. Ero contenta che non sapesse cosa aveva innescato la decisione di Edward. Stentavo a immaginare la sua reazione se gli avessi detto che Jasper aveva cercato di uccidermi.
«Però è tornato, no?», mugugnò Jacob. «Peccato che non sia capace di rispettare le decisioni».
«Se ti ricordi bene, sono andata io a riprenderlo».
Jacob mi fissò per un momento, poi indietreggiò. Rilassò il viso e parlò con voce più calma.
«È vero. In effetti non ho mai capito come fosse andata. Cosa è successo?».
Restai in silenzio, indecisa.
«È un segreto?». C'era un che di offensivo nella sua voce. «Non hai il permesso di dirmelo?».
«No», replicai subito. «È solo una storia molto lunga».
Jacob sorrise arrogante e puntò verso la spiaggia, aspettandosi che lo seguissi.
Non era divertente stare con lui quando si comportava così. Seguii i suoi passi automaticamente, chiedendomi se non fosse meglio girare i tacchi e andarmene. A casa però avrei dovuto affrontare Alice... Non c'era tutta questa fretta, tutto sommato.
Jacob si diresse verso un tronco familiare, enorme: un albero intero, con tanto di radici e tutto il resto, scolorito e arenato nella sabbia: il nostro albero, in un certo senso.
Si sedette su quella panchina naturale, facendomi segno di sedermi accanto a lui.
«Le storie lunghe non mi dispiacciono. C'è un po' d'azione?».
Alzai gli occhi al cielo e mi sedetti. «In effetti sì», ammisi.
«Non sarebbe un vero horror senza un po' d'azione».
«Horror!», sbottai nervosa. «Mi stai ad ascoltare, o pensi di interrompermi a forza di commenti antipatici sui miei amici?».
Finse di chiudersi le labbra con il lucchetto e ne lanciò la chiave invisibile dietro le spalle. Cercai di non ridere, ma non ci riuscii.
«Comincerò con la parte che ti coinvolge in prima persona», decisi, cercando di organizzare i fatti mentalmente prima di cominciare.
Jacob alzò una mano.
«Dimmi».
«Così va meglio», rispose. «Non ho capito molto di ciò che è successo quella volta».
«Sì, be', è complicato, quindi stai attento. Tu sai che Alice "vede" le cose?».
Considerai un "sì" il suo sguardo accigliato - i lupi non erano entusiasti del fatto che la leggenda sui poteri soprannaturali dei vampiri fosse vera - e procedetti con il racconto della mia corsa attraverso l'Italia per salvare Edward.
La feci più breve possibile, tralasciando tutto ciò che non era davvero essenziale. Cercai di interpretare le reazioni di Jacob, ma la sua espressione restava enigmatica mentre gli spiegavo di quando Alice aveva visto il tentativo di suicidio di Edward, convinto che io fossi morta. A volte Jacob sembrava così assorto da lasciarmi il dubbio che non stesse ascoltando. M'interruppe soltanto una volta.
«La succhiasangue chiromante non può vederci?», ripeté con il viso fiero e gioioso a un tempo. «Davvero? Ottimo!».
Serrai i denti e rimanemmo in silenzio, ma gli si leggeva in faccia che era ansioso di sentirmi continuare. Lo fissai finché non capì il proprio errore.
«Ops!», disse. «Scusami». E si chiuse di nuovo le labbra con il lucchetto.
Le sue reazioni furono più comprensibili quando arrivai alla parte dei Volturi. Serrò le mascelle, gli venne la pelle d'oca e allargò le narici. Non scesi nei dettagli, gli dissi soltanto che Edward ci aveva liberato dai guai, senza rivelare la promessa che avevamo dovuto fare né la visita che aspettavamo. Non c'era bisogno che Jacob condividesse i miei incubi.
«Ora conosci tutta la storia», conclusi. «Tocca a te parlare. Cosa è successo nel fine settimana in cui sono stata da mia madre?». Sapevo che Jacob mi avrebbe dato più dettagli di Edward. Non temeva di terrorizzarmi.
Si tese in avanti, subito animato. «Embry, Quil e io eravamo di pattuglia sabato sera, i soliti controlli ordinari, quando dal nulla... bam!». Allargò le braccia, imitando un'esplosione. «Un'orma fresca, era lì da non più di quindici minuti. Sam ha voluto che l'aspettassimo, ma io non sapevo che tu fossi partita, né se i tuoi succhiasangue ti stavano controllando o no. Dunque l'abbiamo seguita a tutta velocità, ma prima che potessimo prenderla aveva già superato il confine. Ci siamo sparpagliati lungo la linea, sperando che la superasse di nuovo. È stato frustrante, lo confesso». Agitò la testa e i capelli, che si era fatto ricrescere da quando si era unito al branco, gli cascarono sugli occhi. «Siamo finiti troppo a sud. I Cullen l'hanno inseguita qualche chilometro più a nord, verso di noi. Sarebbe stata una perfetta imboscata se avessimo saputo dove aspettare».
Scosse la testa con una smorfia. «Da quel momento è diventato rischioso. Sam e gli altri l'hanno raggiunta prima di noi, ma andava su e giù lungo il confine, e tutta la famiglia si trovava proprio dall'altra parte. Quello grosso, come si chiama...».
«Emmett».
«Esatto, proprio lui. Le si è scagliato contro, ma quella rossa è veloce! È volato proprio dietro di lei ed è quasi andato a sbattere contro Paul. E Paul... be', sai com'è fatto».
«Sì».
«Non ci ha visto più. Non posso biasimarlo, il succhiasangue gigante gli era proprio addosso. È saltato... ehi, non guardarmi così. Il vampiro era nel nostro territorio».
Provai a ricompormi per farlo andare avanti. Con le mani strette a pugno, affondavo le unghie nei palmi, turbata da quella storia, pur sapendo che si era conclusa bene.
«A ogni modo, Paul ha mancato il colpo, e il gigante è tornato sui suoi passi. Ma allora la, ehm, be', la... bionda...». L'espressione di Jacob era un miscuglio comico di disgusto e ammirazione involontaria, mentre cercava di trovare una parola per descrivere la sorella di Edward.
«Rosalie».
«Quello che è. Si è fatta aggressiva, perciò Sam e io siamo tornati ad affiancare Paul. Così il loro capo, e l'altro biondo...».
«Carlisle e Jasper».
Mi rivolse uno sguardo esasperato. «Non m'interessa come si chiamano, lo sai. Comunque, Carlisle ha parlato con Sam, cercando di calmare le acque. Ed è stato strano, perché tutti si sono tranquillizzati subito. Era quello lì di cui mi hai già parlato a confonderci le idee. Ma, anche se sapevamo ciò che stava facendo, non potevamo non calmarci».
«Sì, so come ci si sente».
«Molto infastiditi, ecco come. Solo che il fastidio lo senti dopo». Scosse la testa con rabbia. «Così, Sam e il vampiro-capo hanno stabilito che Victoria era la priorità, e ci siamo rimessi alle sue calcagna. Carlisle ci ha indicato dove seguire il suo odore, ma lei ha raggiunto le colline a nord del territorio dei Makah, dove per qualche chilometro il confine sfiora la costa. Si è tuffata di nuovo in acqua. Il tipo grosso e quello calmo ci hanno chiesto il permesso di superare il confine per seguirla, ma ovviamente abbiamo risposto di no».
«Bene. Voglio dire, vi siete comportati da stupidi, ma sono contenta. Emmett non è mai molto accorto. Avrebbe potuto farsi male».
Jacob grugnì. «Scommetto che il tuo vampiro ti ha raccontato che siamo stati noi ad attaccare senza motivo, e che il suo clan è innocente...».
«No», lo interruppi. «Edward mi ha raccontato la stessa storia, ma senza tutti questi dettagli».
Jacob annuì sottovoce e si chinò in avanti per raccogliere una pietra fra i milioni di sassolini ai nostri piedi. Con un lancio distratto, la spedì a oltre cento metri di distanza, verso la baia. «Be', credo che tornerà. Proveremo di nuovo a prenderla».
Rabbrividii: certo che sarebbe tornata. Edward me l'avrebbe detto? Non ne ero sicura. Dovevo tenere d'occhio Alice, osservare i segnali che preannunciavano che gli eventi si stavano per ripetere...
Jacob non sembrò notare la mia reazione. Guardava fra le onde con aria pensierosa, le labbra carnose contratte.
«A cosa pensi?», gli chiesi dopo una lunga pausa silenziosa.
«A ciò che mi hai detto. A quando la chiromante ti ha visto saltare dalla scogliera e ha pensato che ti stessi suicidando, a come tutto è sfuggito al controllo... Ti rendi conto che se mi avessi aspettato, come avresti dovuto, la succhiasangue... Alice non ti avrebbe mai vista saltare? Non sarebbe cambiato niente. Magari ora saremmo nel mio garage, come tutti i sabati. Non ci sarebbe nessun vampiro a Forks, e noi due...». Perse la voce, immerso nei pensieri.
Il tono di voce che aveva usato era sconcertante, come se l'assenza dei vampiri da Forks fosse una cosa positiva. Il mio cuore si agitò davanti al quadro desolato che stava dipingendo.
«Edward sarebbe tornato comunque».
«Ne sei sicura?», chiese di nuovo bellicoso.
«La lontananza... non ha fatto bene né a me né a lui».
Fece per dire qualcosa, qualcosa di rabbioso a giudicare dalla sua espressione, ma si fermò e dopo un bel respiro proseguì.
«Sai che Sam ce l'ha con te?».
«Con me?». Mi ci volle un po' per realizzarlo. «Oh, ci credo. È convinto che non sarebbero tornati se non ci fossi stata io».
«No. Non è per questo».
«Allora qual è il problema?».
Jacob si piegò in basso per raccogliere un'altra pietra. Se la rigirò tra le dita; i suoi occhi rimasero inchiodati sul sasso nero, mentre parlava a voce bassa.
«Quando Sam ha visto... come stavi all'inizio, quando Billy gli ha spiegato della preoccupazione di Charlie perché non ti riprendevi, quando poi hai iniziato a tuffarti dagli scogli...».
Cambiai espressione. Per nessuna ragione avrei mai dimenticato quel periodo.
Gli occhi di Jacob lampeggiarono nei miei. «Pensava che tu fossi l'unica persona al mondo con il suo stesso diritto di odiare i Cullen. Sam si sente... tradito, perché hai permesso loro di tornare nella tua vita come se non ti avessero mai fatto del male».
Non credetti neanche per un secondo che Sam fosse l'unico a sentirsi in quel modo. E l'acidità nella mia voce adesso era diretta a entrambi.
«Puoi dire a Sam di andare direttamente a...».
«Guarda», m'interruppe Jacob, indicando un'aquila che scendeva in picchiata verso l'oceano da un'altezza incredibile. All'ultimo minuto, riprese il controllo e con i soli artigli, per una frazione di secondo, ruppe la superficie delle onde. Poi volò lontano, sbattendo forte le ali per opporsi al peso del grosso pesce che aveva afferrato.
«È così dappertutto», disse Jacob con voce improvvisamente distante. «Questa è la natura: preda e cacciatore, il ciclo infinito della vita e della morte».
Non capivo il senso di quella lezione di biologia; pensai che stesse cercando di cambiare argomento. Ma poi mi guardò con quel sarcasmo nero negli occhi.
«Non vedrai mai il pesce che cerca di schioccare un bacio all'aquila. Mai». Sorrise beffardo.
Gli risposi accennando un sorriso, ma in bocca sentivo ancora il sapore acido. «Magari il pesce ci stava provando», suggerii. «È difficile capire cosa pensano i pesci. In fondo le aquile sono animali molto belli, no?».
«Tutto qui?». La sua voce si fece improvvisamente più tagliente. «È soltanto questione di bellezza?».
«Non fare lo scemo, Jacob».
«Sono i soldi, allora?», insistette.
«Che bello», borbottai alzandomi. «Sono lusingata dall'alta considerazione che hai di me». Gli voltai le spalle e feci per allontanarmi.
«Ehi, non ti arrabbiare». Mi raggiunse e mi afferrò il polso per costringermi a voltarmi. «Dico sul serio! Sto cercando di capire, e sto impazzendo».
Le sue sopracciglia si unirono in un'espressione di rabbia e nei suoi occhi c'era un'ombra profonda e nera.
«Io lo amo. Non perché sia bello o ricco!», scandii per bene l'ultima parola. «Sarebbe molto meglio se non lo fosse. Il divario fra noi non sarebbe così grande e lui resterebbe la persona più adorabile, generosa, brillante e onesta che abbia mai incontrato. Lo amo, certo. È così difficile da capire?».
«È impossibile».
«Per favore illuminami allora, Jacob». Lasciai scorrere abbondante il sarcasmo. «Dimmi qual è la ragione più valida per amare una persona. A quanto pare mi sfugge qualcosa».
«Per esempio, potresti iniziare cercando tra quelli della tua stessa specie. Di solito funziona».
«Sì, ma pensa che roba!», sbottai. «Mi sa che sarei costretta ad accontentarmi di Mike Newton».
Jacob esitò, indeciso. Le mie parole l'avevano ferito, ma ero ancora troppo arrabbiata per provare rimorso. Mi lasciò il polso e incrociò le braccia, dandomi le spalle per guardare l'oceano.
«Io sono umano», mugugnò con voce quasi inesistente.
«Non sei umano come Mike», continuai senza pietà. «Credi ancora che sia questa l'argomentazione principale?».
«Non è la stessa cosa». Jacob non distolse lo sguardo dalle onde grigie. «Non è una scelta mia».
Risi, incredula. «Secondo te Edward l'ha scelto? Non sapeva che cosa gli stesse accadendo, proprio come te. Non ha mica firmato un contratto».
Jacob scuoteva la testa avanti e indietro a scatti brevi e veloci.
«Sai, Jacob, sei troppo moralista... visto e considerato che sei un licantropo».
«Non è la stessa cosa», ribadì inchiodandomi con lo sguardo.
«Non capisco perché no. Potresti essere un po' più comprensivo verso i Cullen. Non hai idea di quanto siano buoni nel profondo, Jacob».
Si accigliò ancora di più. «Non dovrebbero esistere. La loro esistenza è contro natura».
Lo fissai per un istante interminabile, con un sopracciglio sollevato, incredula. Ci volle un po' prima che lo notasse.
«Che c'è?».
«A proposito di cose contro natura...», suggerii.
«Bella», disse con voce lenta e diversa. Adulta. All'improvviso sembrava più adulto di me. Come un genitore, o un insegnante. «Ciò che io sono è nato con me. È parte del mio essere, di ciò che è la mia famiglia, di ciò che siamo come tribù. È la ragione per cui siamo ancora qui. A parte questo», mi guardò con i suoi occhi neri impenetrabili, «io sono un essere umano».
Mi prese la mano e la premette contro il suo petto caldo e febbricitante. Attraverso la maglietta, sentivo il battito accelerato del suo cuore.
«Gli esseri umani non sollevano motociclette come fossero giocattoli».
Accennò un debole sorriso. «Gli esseri umani, quelli normali, scappano dai mostri, Bella. E io non ho mai detto di essere normale. Soltanto umano».
Arrabbiarmi con Jacob era troppo faticoso. Mentre allontanavo la mano dal suo petto mi spuntò un sorriso.
«Io ti trovo molto umano», concessi. «Per il momento».
«È proprio come mi sento». Il suo sguardo mi oltrepassò, distante. Si morse con forza il labbro tremante.
«Oh, Jake», sussurrai cercando la sua mano.
Ecco perché ero là. Ecco perché ero pronta ad affrontare qualunque accoglienza, al mio rientro. Perché, dietro alla rabbia e al sarcasmo, Jacob soffriva. Ormai glielo leggevo negli occhi. Non sapevo come aiutarlo, ma sapevo di doverci provare. Era il minimo che potessi fare per lui. Perché mi sentivo colpita dal suo stesso dolore. Jacob era diventato parte di me, ormai era impossibile tornare indietro.

5
Imprinting

«Tu come stai, Jake? Charlie ha detto che stavi passando un brutto periodo... Va un po' meglio?».
La sua mano calda si chiuse sulla mia. «Un po'», disse senza incrociare il mio sguardo.
Tornò lentamente al tronco, fissando i sassolini color arcobaleno e tirandomi al suo fianco. Mi sedetti sul nostro albero, mentre lui si accomodava sul terreno bagnato e roccioso. Forse per nascondere più facilmente il viso. Mi teneva la mano.
Cercai di riempire il silenzio. «È passato così tanto tempo da quando sono venuta qui l'ultima volta. Mi sarò persa un sacco di cose. Come stanno Sam ed Emily? Ed Embry? Quil ha...».
Mi fermai a metà frase quando ricordai che il suo amico Quil era un argomento sensibile.
«Ah, Quil», sospirò Jacob.
Dunque era successo. Quil si era unito al branco.
«Mi dispiace», mormorai.
Con mia sorpresa, Jacob grugnì. «Non rivolgerti così quando parlerai con lui».
«Che vuoi dire?».
«Quil non è in cerca di compassione. Al contrario. È in fermento. Totalmente entusiasta».
La cosa non aveva senso per me. Un tempo avevo visto il terrore negli altri lupi, di fronte all'idea che l'amico condividesse il loro destino.
«Cosa?».
Jacob inclinò la testa all'indietro per guardarmi. Sorrise e alzò gli occhi al cielo.
«Quil pensa che sia la cosa più bella che gli sia mai accaduta. In parte perché finalmente conosce la verità. E poi è eccitato all'idea di avere di nuovo con sé i suoi amici, di far parte del "giro"». Jacob grugnì di nuovo. «C'è poco da sorprendersi, credo. Quil è fatto così».
«Nel senso che è "contento"?».
«A dir la verità... lo sono quasi tutti», ammise Jacob lentamente. «Ci sono degli innegabili aspetti positivi: la velocità, la libertà, la forza... il senso di famiglia. Sam e io siamo gli unici a sentirne il lato amaro. E Sam ci è passato già da un sacco di tempo. Dunque per ora il piagnucolone sono io». Jacob rise di sé.
C'erano davvero tante cose che volevo sapere. «Perché tu e Sam siete diversi? E che cosa è successo a Sam? Qual è il suo problema?». Le domande irruppero una dopo l'altra senza spazio per le risposte e Jacob rise di nuovo.
«È una lunga storia».
«Anch'io ti ho raccontato una lunga storia. Fra l'altro, non ho alcuna fretta di tornare a casa», dissi, poi feci una smorfia pensando ai guai in cui ormai mi ero cacciata.
Con un'occhiata, captò il doppio senso delle mie parole. «Si arrabbierà con te?».
«Sì», confessai. «Detesta quando faccio cose che considera... rischiose».
«Andare in giro con i licantropi, per esempio».
«Esatto».
Jacob scrollò le spalle. «Allora non tornarci. Dormirò sul divano».
«Grande idea», brontolai. «Così verrà dritto a cercarmi».
Jacob s'irrigidì, poi fece un sorriso tetro. «Davvero?».
«Se temesse per la mia incolumità, o qualcosa del genere, penso di sì».
«La proposta mi sembra sempre più perfetta».
«Dai, Jake, per favore. Mi irrita veramente».
«Cosa?».
«Che voi due siate pronti ad ammazzarvi l'un l'altro», mi lamentai. «Mi fa impazzire. Non potete comportarvi da persone civili?».
«Lui pronto ad ammazzarmi?», chiese Jacob con un sorriso arcigno, incurante della mia rabbia.
«Non quanto lo sembri tu!». Mi resi conto che stavo gridando. «Almeno lui è un po' più maturo: sa che fare del male a te sarebbe come farlo a me, quindi non si permetterebbe mai. Ma tu... sembra non te ne importi niente».
«Sì, è vero», borbottò Jacob. «Di sicuro il pacifista è lui».
«Uffa!». Liberai la mano e mi allontanai. Mi rannicchiai con le ginocchia strette al petto.
Fissai lo sguardo verso l'orizzonte, infuriata.
Jacob restò in silenzio per qualche minuto. Alla fine si alzò e si sedette accanto a me, cingendomi la spalla con il braccio. Lo scrollai via.
«Scusa», disse tranquillo. «Cercherò di comportarmi bene».
Non risposi.
«Vuoi ancora che ti racconti di Sam?», propose.
Alzai le spalle.
«Come ti dicevo, è una lunga storia. E molto... strana. Ci sono così tante cose strane in questa nuova vita. Non ho avuto tempo di raccontarti quasi niente. E la storia di Sam... be', non so neanche se sarò in grado di spiegartela bene».
Le sue parole innescarono la mia curiosità, calmando la mia irritazione.
«Ti ascolto», dissi rigida.
Con la coda dell'occhio vidi la sua guancia atteggiarsi a sorriso.
«Per Sam è stata molto più dura che per noi. È stato il primo: era solo e non c'era nessuno a spiegargli niente. Il nonno di Sam è morto prima che lui nascesse e il padre non c'è mai stato. Non c'era nessuno che potesse cogliere i segnali. La prima volta che è successo - la prima volta che si è trasformato - pensava di essere impazzito. Gli ci vollero due settimane per calmarsi e ritrasformarsi. Fu prima che tu arrivassi a Forks, quindi non puoi ricordare. La madre di Sam e Leah Clearwater chiamarono la forestale e la polizia per cercarlo. La gente pensò che fosse successo qualcosa, un incidente...».
«Leah?», chiesi sorpresa. Leah era la figlia di Harry. Il suo nome m'ispirò un moto immediato di compassione. Harry Clearwater, carissimo amico di Charlie, era morto la primavera precedente per infarto.
La voce di Jacob si fece più grave. «Sì. Leah e Sam erano fidanzati, al liceo. Iniziarono a uscire insieme che lei era solo al primo anno. Quando lui scomparve, lei perse la testa».
«Ma lui ed Emily...».
«Ci arriverò; fa parte della storia», rispose.
In effetti era stupido da parte mia immaginare che Sam non avesse mai amato nessuna prima di Emily. È normale innamorarsi più volte nel corso della vita. Eppure, dopo averlo conosciuto non potevo immaginarlo insieme a nessun'altra. Il modo in cui guardava Emily... Sì, avevo notato qualcosa di simile negli occhi di Edward. Quando guardava me.
«Sam tornò», continuò Jacob, «ma non disse a nessuno dov'era stato. Giravano delle voci, perlopiù si diceva che avesse combinato qualcosa di brutto. Poi, un pomeriggio, Sam s'imbatté nel nonno di Quil, il vecchio Quil Ateara, che era passato a trovare la signora Uley. Sam gli strinse la mano. E al vecchio Quil venne un colpo». Jacob si mise a ridere.
«Perché?».
Jacob posò la mano sulla mia guancia, girandomi il viso perché lo guardassi: chino verso di me, il volto a pochi centimetri dal mio. Il suo palmo bruciava come se avesse la febbre.
«Ah, è vero», dissi. Mi metteva a disagio tenere il viso così vicino a quello di Jacob, con la sua mano calda sulla mia pelle. «Sam aveva la febbre».
Jacob rise di nuovo. «Sembrava che avesse lasciato la mano sul fornello acceso».
Era così vicino che sentivo il suo respiro caldo. Mi alzai con naturalezza, per liberarmi il viso, e intrecciai le dita con le sue per non turbarlo. Lui sorrise e si drizzò, la mia falsa disinvoltura non l'aveva ingannato.
«Così il vecchio Ateara andò dritto dagli altri anziani», proseguì Jacob. «Erano gli unici che sapevano ancora, che ricordavano. Il vecchio Quil, Billy e Harry avevano visto i loro nonni trasformarsi. Quando vennero a sapere di Sam, s'incontrarono con lui in segreto e gli spiegarono tutto. Capire gli rese le cose più semplici: non era più solo. Sapevano che non sarebbe stato l'unico a reagire al ritorno dei Cullen», pronunciò il nome con inconsapevole amarezza, «ma nessuno era ancora abbastanza adulto. Così Sam ha aspettato che lo raggiungessimo...».
«I Cullen non potevano saperlo», sussurrai. «Non immaginavano che i licantropi esistessero ancora. Non sapevano che venire qui vi avrebbe trasformati».
«Questo non ha impedito che succedesse».
«Ricordami di non stuzzicare il tuo lato cattivo».
«Credi che con loro dovrei essere comprensivo come sei tu? Non possiamo essere tutti santi e martiri».
«Cresci una buona volta, Jacob».
«Mi piacerebbe», mormorò piano.
Lo fissai, confusa di fronte alla sua risposta. «In che senso?».
Jacob sogghignò. «Una di quelle strane cose a cui accennavo».
«Tu non puoi... crescere?», dissi inespressiva. «Non ci credo. Tu non... invecchi? Mi prendi in giro?».
«No», disse a mezza voce.
Mi sentii arrossire. Lacrime di rabbia mi riempirono gli occhi. Dai miei denti uscì un ringhio.
«Bella? Che ho detto?».
Ero di nuovo in piedi, con i pugni chiusi e le ossa tremanti.
«Tu. Non. Invecchi», ringhiai a denti stretti.
Jacob mi prese il braccio con delicatezza, cercando di farmi sedere. «Né io né gli altri. Che cos'hai?».
«Sono io l'unica che dovrà diventare vecchia? Io invecchio ogni schifoso giorno!». Quasi strillai, lanciando le braccia al cielo. Una piccola parte di me si rendeva conto che stavo facendo una scenata alla Charlie, ma il mio lato razionale era ampiamente offuscato da quello irrazionale. «Merda! Che razza di mondo è questo? Dove sta la giustizia?».
«Non te la prendere, Bella».
«Zitto, Jacob. Stai zitto! È così ingiusto!».
«Stai veramente pestando i piedi per questo? Pensavo che le ragazze lo facessero solo in TV».
Ruggii senza grande effetto.
«Non è terribile come credi. Siediti e ti spiego».
«Voglio stare in piedi».
Alzò gli occhi al cielo. «Okay. Fa' come ti pare. Ma, ascolta, io invecchierò... un giorno».
«Spiegati».
Mi fece segno di sedermi sull'albero. Lo fissai arrabbiata per un secondo, poi lo accontentai. La mia collera si era spenta nel momento stesso in cui divampava e mi ero calmata abbastanza da rendermi conto che mi stavo comportando da stupida.
«Una volta raggiunto l'autocontrollo sufficiente a non...», cominciò Jacob. «Quando riusciamo a non trasformarci per un certo periodo di tempo, ricominciamo a invecchiare. Non è facile». Scosse la testa, improvvisamente dubbioso. «Ci vorrà un bel po' di tempo per imparare a tenere il freno, credo. Nemmeno Sam ci è ancora riuscito. Certo, il fatto che ci sia un enorme clan di vampiri dietro l'angolo non aiuta. Non possiamo permetterci di smettere finché la tribù avrà bisogno di protettori. Non è il caso che tu ci perda la testa, a ogni modo, perché sono già più vecchio di te, almeno fisicamente».
«In che senso?».
«Guardami, Bells. Dimostro sedici anni?».
Squadrai il suo corpo gigantesco, cercando di essere obiettiva. «Direi proprio di no».
«Per niente. Quando il gene del licantropo s'innesca, ci bastano pochi mesi per raggiungere il massimo della crescita. È uno scatto tremendo, un fulmine». Fece una smorfia. «Fisicamente sono un venticinquenne, più o meno. Per almeno altri sette anni, non dovrai andare in crisi perché sei più vecchia di me».
Venticinquenne, più o meno. L'idea mi confondeva. Eppure ricordavo quella crescita lampo: era diventato più alto e robusto proprio sotto il mio naso. Ricordavo come fosse cambiato da un giorno all'altro... Scossi la testa, in preda alle vertigini.
«Allora, volevi sapere di Sam o preferisci continuare la ramanzina per qualcosa che non posso controllare?».
«Scusa. L'età è un argomento delicato per me. Hai sfiorato un tasto sensibile».
Jacob affilò lo sguardo; sembrava in cerca delle parole giuste.
Non era mia intenzione parlare di argomenti delicati, come i miei piani per il futuro, o i patti che rischiavano di infrangere, così gli diedi un suggerimento. «Dunque, dicevi che dopo aver capito cosa stava succedendo, e parlato con Billy, Harry e il signor Ateara, le cose non sono più state così difficili per Sam. Poi hai detto che il bello doveva ancora venire... Ma perché Sam li odia così tanto? Perché desidera che io li odi?».
Jacob sospirò. «Questa è davvero la parte più strana».
«Sono una professionista delle stranezze».
«Sì, lo so». Sorrise. «Dunque, hai ragione. Sam sapeva cosa stesse accadendo, e tutto era quasi a posto. Tutto sommato la sua vita, be', non era tornata normale. Era migliorata». Poi la sua espressione si tese, come ad anticipare qualcosa di doloroso. «Sam non poteva dire niente a Leah. Non possiamo parlarne con chi non deve sapere. E per lui non era molto sicuro starle accanto. Ma imbrogliò, come ho fatto io con te. Leah era furiosa perché lui non voleva dirle che cosa stava accadendo - dov'era stato, dove passava le notti, perché fosse sempre così stanco - ma ce la stavano facendo. Si sforzavano. Erano innamorati sul serio».
«E lei l'ha scoperto? È questo che è successo?».
Scosse la testa. «No, il problema fu un altro. Un fine settimana, a trovare Leah è passata sua cugina, Emily Young, che abitava nella riserva di Makah».
Restai senza fiato. «Emily è cugina di Leah?».
«Di secondo grado. Ma sono molto unite. Da bambine erano come sorelle».
«È... orribile. Come ha potuto Sam...», mormorai scuotendo la testa.
«Aspetta a giudicare. Non ti hanno mai parlato... hai mai sentito parlare dell'imprinting?».
«Imprinting?». Ripetei la parola poco familiare. «No. Che significa?».
«Una delle stranezze con cui dobbiamo fare i conti. Non succede a tutti. Anzi, è un'eccezione piuttosto rara, non la regola. Fino ad allora Sam aveva sentito tante storie a proposito, le storie che tutti eravamo abituati a considerare leggende. Sapeva dell'imprinting, ma non avrebbe mai immaginato...».
«Che cos'è?», lo pungolai.
Gli occhi di Jacob vagarono verso l'oceano. «Sam amava Leah. Ma, appena ha visto Emily, non glien'è importato più nulla. A volte... non sappiamo esattamente perché... troviamo così le nostre compagne». I suoi occhi tornarono a me in un lampo, e arrossì. «Voglio dire... le nostre anime gemelle».
«In che modo? Con un colpo di fulmine?», ridacchiai.
Jacob non sorrise. Il suo sguardo nero era contrariato. «Molto più potente. Più assoluto».
«Scusa», farfugliai. «Stai parlando seriamente, vero?».
«Sì».
«Un colpo di fulmine... ancora più potente?». La mia voce suonava dubbiosa e lui se ne accorse.
«Non è facile da spiegare. Non importa, comunque». Si strinse nelle spalle con aria indifferente. «Volevi sapere cos'è successo a Sam di così tremendo da fargli odiare i vampiri per averlo trasformato, da averlo costretto a odiare se stesso. Ecco cos'è successo. Ha spezzato il cuore di Leah. Ha infranto tutte le promesse che le aveva fatto. Ogni giorno è costretto a subire il suo sguardo d'accusa, senza poterle dare torto».
All'improvviso smise di parlare, come se avesse detto qualcosa che non voleva.
«Come si è comportata Emily? Se era così vicina a Leah...». Sam ed Emily erano perfetti insieme, due tessere del puzzle, modellati uno sull'altra in modo esatto. Eppure... come era riuscita Emily a superare la consapevolezza che lui fosse appartenuto a un'altra? A una che poteva quasi chiamare sorella.
«È stato difficile all'inizio. Ma era ancor più difficile resistere a un tale livello di coinvolgimento e adorazione». Jacob sospirò. «Ma, soprattutto, a lei Sam poteva dire tutto. Le regole non contano più quando trovi la tua metà. Tu sai come si è ferita?».
«Sì». A Forks dicevano che era stata colpita da un orso, ma io conoscevo il segreto.
I licantropi sono volubili, aveva detto Edward. Chi gli sta accanto finisce per farsi male.
«Bene, ti sembrerà strano, ma più o meno è così che hanno risolto le cose. Sam era talmente terrorizzato e disgustato da se stesso, pieno d'odio per ciò che aveva fatto... Si sarebbe buttato sotto un autobus pur di farla stare meglio. Lo avrebbe fatto in ogni caso, solo per rimorso. Era a pezzi. Poi, chissà come, fu lei a consolare lui, e a quel punto...».
Jacob non concluse il suo pensiero; la storia, capii, si era fatta troppo personale per condividerla.
«Povera Emily», sussurrai. «Povero Sam. Povera Leah...».
«Sì, a Leah è toccata la parte peggiore. È stata coraggiosa. Sarà una delle damigelle, al loro matrimonio».
Mentre provavo a dare un senso a tutto, guardai lontano, verso le rocce frastagliate che spuntavano dall'oceano come dita mozzate a sud del golfo. Sentivo i suoi occhi che mi fissavano, in attesa che dicessi qualcosa.
«A te è successo?», domandai infine, senza guardarlo. «Di passare per quella specie di colpo di fulmine?».
«No», rispose subito. «È successo solo a Sam e Jared».
Annuii, cercando di dimostrare un interesse moderato. Provai a spiegarmi la reazione di sollievo che provavo. Conclusi che ero semplicemente contenta di non essermi sentita dichiarare che c'era qualcosa di mistico, qualche connessione lupésca fra noi. La nostra relazione era già abbastanza confusa. Non mi occorreva un'ulteriore dose di sovrannaturale, oltre a quella con cui già dovevo fare i conti.
Anche lui era tranquillo e il suo silenzio sembrò un po' imbarazzato. Il mio sesto senso mi diceva che era meglio che non ascoltassi ciò che stava pensando.
«E com'è stato per Jared?», domandai per spezzare quella lunga pausa.
«Nessun dramma, in quel caso. Era la sua compagna di banco da un anno, e non l'aveva mai degnata di uno sguardo. Poi si è trasformato e uno sguardo è bastato per non toglierle più gli occhi di dosso. Kim era felicissima. Era già cotta di lui. Aveva il diario pieno di scritte con il suo nome e il cognome di Jared». Rise beffardo.
Aggrottai le sopracciglia. «Te l'ha raccontato Jared? Non avrebbe dovuto».
Jacob si morse le labbra. «Immagino che non dovrei ridere. Ma è divertente».
«Anime gemelle».
Sospirò. «Non è stata intenzione di Jared dircelo. Ti ho già parlato di questa cosa, ricordi?».
«Ah, sì. Vi leggete nel pensiero, ma soltanto quando siete lupi, giusto?».
«Giusto. Proprio come il tuo succhiasangue». Mi guardò torvo.
«Edward», precisai.
«Certo, certo. Per questo conosco così bene lo stato d'animo di Sam. Non ci avrebbe detto nulla, se avesse potuto scegliere. In realtà tutti noi detestiamo questa faccenda». La sua voce si fece amara e roca. «È orribile. Niente privacy, niente segreti. Tutto ciò di cui ti vergogni è lì in bella mostra, sotto gli occhi di tutti». Scrollò le spalle.
«Sembra orribile», sussurrai.
«A volte serve, se abbiamo bisogno di coordinarci», ammise a denti stretti, «di tanto in tanto, se capita che un succhiasangue attraversi il nostro territorio. Con Laurent è stato divertente. E se i Cullen non si fossero messi in mezzo sabato scorso...». Gemette. «L'avremmo presa!». Strinse rabbiosamente i pugni.
Rabbrividii.
Per quanto mi preoccupassi dell'incolumità di Jasper o Emmett, era niente rispetto al panico che sentivo pensando a Jacob di fronte a Victoria. Emmett e Jasper erano quanto di più vicino all'indistruttibilità potessi immaginare. Jacob era ancora caldo, ancora relativamente umano. Mortale. Pensai a Jacob faccia a faccia con Victoria, a quei capelli luminosi e arruffati sugli strani lineamenti felini...
Jacob mi guardò con espressione curiosa. «Ma non è sempre così anche per te? Lui non è sempre nella tua mente?».
«Oh, no. Edward non è mai nella mia mente. Vorrebbe, ma non può».
L'espressione di Jacob si fece confusa.
«Non può sentirmi», spiegai, un po' compiaciuta, come ai vecchi tempi. «Sono l'unica che non riesce a sentire. Non sappiamo perché».
«Strano», disse Jacob.
«Sì». Il compiacimento sparì. «Forse vuol dire che c'è qualcosa che non va nel mio cervello», ammisi.
«Sapevo già che c'era qualcosa che non andava, nel tuo cervello», brontolò Jacob.
«Grazie».
Improvvisamente il sole spuntò fra le nuvole, una sorpresa inaspettata, e il suo riflesso sull'acqua mi costrinse a socchiudere gli occhi. Tutto cambiò colore: le onde grigie divennero blu, gli alberi passarono dall'oliva spento a un giada brillante, e i sassolini iridescenti brillarono come gioielli.
Gli occhi si adattarono a stento alla nuova luce. Non c'erano rumori a parte lo scrosciare vuoto delle onde che risuonava da ogni lato della baia, l'affilarsi dolce delle pietre l'una contro l'altra sotto i movimenti dell'acqua e le grida dei gabbiani che ci sovrastavano. C'era una grande pace.
Jacob si avvicinò, appoggiandosi al mio braccio. Era caldissimo.
Dopo un minuto, fui costretta a togliermi il giubbotto. Dalla sua gola uscì un breve rumore soddisfatto e appoggiò la guancia sulla mia fronte. Sentivo il sole scaldarmi la pelle - ma non era caldo quanto Jacob - e mi chiesi oziosamente quanto ci avrei messo a prendere fuoco.
Senza pensare girai la mano destra e guardai il luccichio che il sole produceva sulla cicatrice lasciata da James.
«A cosa pensi?», mormorò.
«Al sole».
«Già. È bello».
«E tu a cosa pensi?», chiesi.
Ridacchiò. «Ricordavo quel film stupidissimo che mi hai portato a vedere. E a Mike Newton che vomitava dappertutto».
Risi anch'io, sorpresa di come il tempo avesse cambiato quel ricordo. Una volta ne ero stata tormentata, confusa. Quante cose erano cambiate quella notte... finalmente potevo riderne. Era stata l'ultima sera passata con Jacob prima che lui scoprisse la verità sulle sue origini. L'ultimo ricordo umano. Un ricordo divenuto stranamente piacevole.
«Mi manca», disse Jacob. «Mi manca com'era tutto più semplice... senza complicazioni. Per fortuna ho una buona memoria». Sospirò.
Le sue parole avevano innescato i ricordi e lui percepì l'improvvisa tensione nel mio corpo.
«Che c'è?», chiese.
«A proposito dei tuoi bei ricordi...». Mi allontanai per poterlo guardare bene in faccia. Sembrava confuso. «Ti dispiacerebbe dirmi cosa avevi in mente lunedì mattina? I tuoi pensieri hanno infastidito Edward». "Infastidito" non era la parola giusta, ma desideravo una risposta e pensai che era meglio non essere troppo severa.
Il viso di Jacob si illuminò di comprensione e rise. «Stavo solo pensando a te. Non gli ha fatto molto piacere, vero?».
«A me? Cosa c'entravo io?».
Jacob rise, con un filo di amarezza. «Mi stavo ricordando il tuo aspetto la notte che Sam ti trovò: l'ho visto nella sua mente, è come se ci fossi stato anch'io. Quel ricordo lo tormenta ancora, sai. Poi mi sono ricordato di te la prima volta che sei venuta a casa mia. Scommetto che non hai la più pallida idea delle condizioni in cui eri, Bella. Ci sono volute settimane prima che riprendessi un aspetto umano. E mi sono ricordato che ti rannicchiavi sempre, quando cercavi di mantenere la calma...». Jacob trasalì, poi scosse la testa. «È un ricordo doloroso per me, e non era colpa mia. Ho pensato che per lui sarebbe stata più dura. Ho pensato che era il caso di mostrargli cosa aveva combinato».
Gli diedi un ceffone sulla spalla. Mi feci male alla mano. «Jacob Black, non farlo mai più! Promettimelo».
«Figurati. Non mi divertivo così da mesi».
«Ti prego aiutami, Jake...».
«Oh, rilassati, Bella. Credi che lo rivedrò presto? Non preoccuparti».
Mi alzai e mentre mi avviavo mi prese la mano. Cercai di liberarmi.
«Jacob, io vado».
«No, resta ancora un po'», protestò stringendomi la mano. «Mi dispiace. E... okay, non lo farò più. Promesso».
Sospirai. «Grazie, Jake».
«Vieni, torniamo a casa mia», disse con entusiasmo.
«Veramente dovrei andare. Angela Weber mi aspetta, e so che Alice è preoccupata. Non voglio farla stare troppo in pensiero».
«Ma se sei appena arrivata!».
«Così sembra». Guardai verso il sole, già alto. Come aveva fatto il tempo a passare tanto in fretta?
S'incupì. «Chissà quando ci rivedremo», disse con voce spezzata.
«Tornerò la prossima volta che lui è via», promisi con un moto impulsivo.
«Che lui è via?». Jacob alzò gli occhi al cielo. «Che modo carino di descrivere quello che fa. Disgustosi parassiti».
«Se non cambi maniere, non torno più!», lo minacciai, cercando di liberarmi la mano. Rifiutò di lasciarmi andare.
«Sì, non ti arrabbiare», ghignò. «Reazione istintiva».
«Io cercherò di tornare, ma tu impegnati a comportarti come si deve, okay?».
Restò in silenzio.
«Ascolta bene. Non m'interessa chi è un vampiro e chi un licantropo. È irrilevante. Tu sei Jacob, lui è Edward, io sono Bella. Il resto non conta».
Socchiuse gli occhi leggermente. «Ma io sono un licantropo», disse, poco convinto. «E lui è un vampiro», aggiunse con ovvia repulsione.
«E io sono della Vergine!», gridai esasperata.
Alzò un sopracciglio, misurando curioso la mia espressione. Infine scrollò le spalle.
«Se riesci a vederla così...».
«Ci riesco. E lo faccio».
«Okay. Soltanto Bella e Jacob. Niente strane Vergini in giro». Mi sorrise, con quel sorriso caldo, familiare, che mi era mancato così tanto. Sentii un sorriso di risposta allargarsi sul mio viso.
«Mi sei davvero mancato, Jake», confessai di getto.
«Anche tu», e il suo sorriso si allargò. Il suo sguardo era felice e limpido, per una volta libero dall'amarezza rabbiosa. «Più di quanto immagini. Tornerai presto?».
«Il più presto possibile», promisi.

6
Svizzera

Tornai a casa senza prestare molta attenzione alla strada, che risplendeva umida sotto il sole. Pensavo alla marea di informazioni che mi aveva dato Jacob, cercavo di metterle in ordine, di trovare a tutti i costi un senso. Malgrado il sovraccarico, mi sentivo più leggera. Guardare Jacob sorridere, discutere dei nostri segreti... Non era la perfezione, ma di sicuro andava meglio. Avevo fatto bene ad andare. Jacob aveva bisogno di me. E ovviamente, pensai socchiudendo gli occhi per la luce accecante, non c'era alcun pericolo.
Sbucò dal nulla. Un attimo prima, nel mio specchietto retrovisore non c'era altro che l'autostrada luccicante. Un attimo dopo, una Volvo argentata brillava appena dietro di me.
«Oh, merda», borbottai.
Pensai di accostare. Ma ero troppo vigliacca per affrontarlo. Speravo di poter guadagnare un po' di tempo per prepararmi... e per avere Charlie accanto come paraurti. Almeno l'avrebbe costretto a non alzare la voce.
La Volvo mi stava incollata. Tenni gli occhi dritti sulla strada.
Vile fino in fondo, guidai dritto fino a casa di Angela senza incrociare neanche una volta lo sguardo che, lo sentivo, stava quasi mandando a fuoco il mio specchietto.
Mi seguì finché non accostai davanti a casa Weber. Non si fermò e non guardò. Non volevo vedere la sua espressione. Appena scomparve feci di corsa il vialetto fino alla porta di Angela.
Ben venne ad aprire mentre bussavo, neanche mi stesse aspettando dietro la porta.
«Ehi, Bella!», disse sorpreso.
«Ciao, Ben. Ehm, c'è Angela?». Magari aveva dimenticato i nostri programmi. Rabbrividii all'idea di tornare a casa prima del previsto.
«Certo», disse Ben, e nello stesso istante Angela, in cima alle scale, mi chiamò. «Bella!».
Ben sbirciò alle mie spalle quando sentimmo il suono di un'auto sulla strada; il motore balbettò al semaforo e ne seguì un sonoro scoppio di ritorno. Non mi preoccupai: niente a che vedere con le fusa della Volvo. Doveva essere l'ospite che Ben stava aspettando.
«È arrivato Austin», disse Ben ad Angela quando gli fu accanto.
Un clacson echeggiò nella strada.
«Ci vediamo dopo», promise Ben. «Già mi manchi».
Buttò il braccio attorno al collo di Angela e le avvicinò il viso, per poterla baciare con trasporto. Dopo un secondo, Austin suonò di nuovo.
«Ciao, Angie! Ti amo!», strillò Ben mentre mi passava davanti.
Angela perse l'equilibrio, con il viso lievemente arrossato, poi si riprese e salutò finché Ben e Austin non scomparvero. Si girò verso di me e sorrise afflitta.
«Non so come ringraziarti, Bella», disse. «Dal profondo del cuore. Non soltanto salverai le mie mani dall'artrosi permanente, ma mi hai anche risparmiato due ore di film sulle arti marziali doppiato da schifo e pressoché privo di trama». Sospirò sollevata.
«Felice di esserti utile». Mi sentivo un po' meno spaventata, e respiravo meglio. Lì sembrava tutto così a posto. I drammi umani tanto semplici di Angela erano stranamente rassicuranti. Era bello sapere che da qualche parte la vita era normale.
Seguii Angela sulle scale fino alla sua stanza. Entrò facendosi strada fra i giocattoli. La casa era stranamente silenziosa.
«Dove sono i tuoi?».
«Hanno portato i gemelli a una festa di compleanno, a Port Angeles. Non posso credere che vuoi davvero aiutarmi. Ben ha detto che aveva la tendinite». La sua espressione era eloquente.
«Figurati», dissi, ma poi entrai in camera di Angela e vidi la catasta di buste in attesa.
«Ah!», esclamai. Angela si voltò verso di me con uno sguardo desolato. Ora capivo perché aveva rimandato e perché Ben aveva evitato l'incombenza.
«Pensavo che stessi esagerando».
«Magari. Sei ancora sicura di volerlo fare?».
«Mettimi al lavoro. Ho tutta la giornata a disposizione».
Angela divise la pila a metà sulla scrivania e posizionò fra me e lei la rubrica degli indirizzi di sua madre. Per un po' si sentì soltanto il rumore delle penne che graffiavano lievi la carta.
«Che cosa fa Edward stasera?», mi chiese dopo qualche minuto.
La mia penna affondò nella busta su cui stavo scrivendo. «Emmett è a casa per il weekend. Dovrebbero essere in giro per escursioni».
«Lo dici come se non ne fossi sicura».
Scrollai le spalle.
«Sei fortunata che Edward abbia fratelli con cui fare escursioni e campeggi. Non so cosa farei se Ben non avesse Austin per tutte le faccende dei ragazzi».
«Sì, tutta quella roba all'aperto non fa proprio per me. E poi non riuscirei mai a stare al loro passo».
Angela rise. «Anch'io preferisco le attività al chiuso».
Per un minuto si concentrò sulla sua pila. Scrissi altri quattro indirizzi. Con Angela non c'era mai bisogno di riempire le pause con chiacchiere senza senso. Anche lei, come Charlie, nel silenzio si trovava a proprio agio. Ma anche lei, come Charlie, sapeva essere una buona osservatrice.
«C'è qualcosa che non va?», mi chiese a voce bassa. «Mi sembri... in ansia».
Sorrisi impacciata. «È così evidente?».
«Non proprio».
Forse mentiva per farmi sentire meglio.
«Non sei costretta a parlarne, se non vuoi», mi rassicurò. «Ma se credi che ti sia d'aiuto, ti ascolto».
Stavo quasi per dirle "grazie, ma è meglio di no". Erano troppi i segreti che mi ero impegnata a mantenere. Non potevo discutere i miei problemi con un essere umano. Andava contro le regole.
Tuttavia, con una strana e improvvisa intensità, era proprio ciò che volevo. Volevo parlare con un'amica normale, umana. Volevo lamentarmi un po', come ogni altra ragazza. Volevo che i miei problemi fossero semplici. E poi mi avrebbe fatto bene che qualcuno al di fuori di tutto quel caos licantropo-vampiresco rimettesse le cose nella giusta prospettiva. Qualcuno di imparziale.
«Va bene, mi farò i fatti miei», promise Angela, sorridendo mentre guardava l'indirizzo sulla sua busta.
«No», dissi. «Hai ragione. Sono in ansia. È... per via di Edward».
«Che c'è che non va?».
Era così semplice parlare con Angela. Quando faceva una domanda come quella, sapevo che non era morbosa o in cerca di pettegolezzi come Jessica. Si preoccupava per me.
«Oh, è arrabbiato con me».
«Incredibile», disse. «Perché?».
Sospirai. «Ti ricordi Jacob Black?».
«Ah», disse.
«Ecco».
«È geloso».
«No, non geloso...». Avrei dovuto stare zitta. Non c'era modo di spiegare come stavano davvero le cose. Eppure volevo continuare a parlare. Non mi ero resa conto di essere così affamata di conversazione umana. «Edward crede che Jacob abbia... una cattiva influenza, credo. Che sia più o meno... pericoloso. Sai quanti problemi ho avuto nei mesi scorsi... è tutto ridicolo, comunque».
Rimasi sorpresa di fronte ad Angela che scuoteva la testa.
«Che c'è?».
«Bella, ho visto come ti guarda Jacob Black. Scommetto che il vero problema è la gelosia».
«Non c'è niente fra me e Jacob».
«Per te, forse. Ma per Jacob...».
«Jacob conosce i miei sentimenti. Gli ho detto tutto», risposi accigliata.
«Edward è un essere umano, Bella. Reagisce come tutti i ragazzi».
Feci una smorfia. A quell'affermazione non c'era risposta possibile.
Mi sfiorò la mano. «Gli passerà».
«Lo spero. Jake sta passando un brutto periodo. Ha bisogno di me».
«Tu e Jacob siete molto vicini, vero?».
«È quasi uno di famiglia», confermai.
«E a Edward lui non piace. Dev'essere dura. Chissà come reagirebbe Ben...», rimuginò.
Abbozzai un sorriso. «Forse come tutti i ragazzi».
Sorrise. «Forse».
Poi cambiò discorso. Angela non era un tipo insistente e sentiva che non volevo, o non potevo, aggiungere altro.
«Ieri mi hanno assegnato la stanza. Ovviamente è la più periferica del campus».
«Ben sa già dove alloggerà?».
«Nel dormitorio centrale. Tutte le fortune toccano a lui. E tu? Hai deciso dove andrai?».
Abbassai lo sguardo, concentrandomi sui goffi scarabocchi della mia grafia. Per un secondo fui distratta dal pensiero di Angela e Ben all'Università di Washington. Sarebbero partiti per Seattle nel giro di pochi mesi. Sarebbe stata sicura allora? La minaccia del giovane vampiro selvaggio si sarebbe spostata da qualche altra parte? Ci sarebbe stato un altro posto, qualche altra città a rabbrividire di fronte a titoli da film horror?
E quei nuovi titoli sarebbero stati colpa mia?
Provai a scrollarmi di dosso i pensieri e risposi alla sua domanda un po' in ritardo. «Alaska, credo. L'Università di Juneau».
Sentii la sorpresa nella sua voce. «Alaska? Oh, davvero? Voglio dire, è fantastico. Però immaginavo che scegliessi un posto... più caldo».
Sorrisi appena, senza staccare gli occhi dalla busta. «Sì. Forks ha proprio cambiato le mie prospettive di vita».
«Ed Edward?».
Il suo nome mi fece sentire le farfalle nello stomaco, ma riuscii ad alzare lo sguardo e sorridere. «Nemmeno per lui fa troppo freddo in Alaska».
Ricambiò il sorriso. «Ovviamente no». Poi sospirò. «È così lontano. Non potrai tornare a casa molto spesso. Sentirò la tua mancanza. Mi scriverai qualche e-mail?».
Un'onda di pacata tristezza mi si rovesciò addosso: forse era un errore entrare in confidenza con Angela, ormai. Ma non sarebbe stato peggio farsi scappare queste ultime occasioni? Rimossi i pensieri negativi per risponderle con una frecciata.
«Se dopo questo lavoro mi funzioneranno ancora le mani». Accennai alla pila di buste che avevo finito.
Ridemmo e poi fu più facile chiacchierare allegre di scuola e di adulti mentre finivamo il resto del lavoro. Dovevo soltanto sforzarmi di non pensare. E quel giorno c'erano cose più urgenti di cui preoccuparsi.
L'aiutai anche a mettere i francobolli. Mi dispiaceva andarmene.
«Come va la mano?», chiese.
Piegai le dita. «Tornerò a usarla... prima o poi».
La porta di sotto sbatté, e ci sporgemmo per guardare.
«Angie?», chiamò Ben.
Provai a sorridere, ma le labbra mi tremavano. «Credo sia ora di andare».
«No, non devi andare. Anche se temo sia pronto a descrivermi il film... nei dettagli».
«Charlie si starà chiedendo dove sono finita».
«Grazie per l'aiuto».
«Sono stata bene, veramente. Dovremmo fare di nuovo qualcosa del genere. È bello passare del tempo fra ragazze».
«Assolutamente sì».
Qualcuno bussò piano alla porta della stanza.
«Entra, Ben», disse Angela.
Mi alzai e mi stiracchiai.
«Ehi, Bella! Sei sopravvissuta», mi salutò Ben velocemente prima di prendere il mio posto accanto ad Angela. Diede un'occhiata alla nostra opera. «Bel lavoro. Peccato abbiate finito, vi avrei...». Fece dissolvere il pensiero, e poi ricominciò eccitato. «Angie, ti sei persa un gran film! Era stupendo. Una scena di lotta finale spettacolare, coreografie impressionanti! E il protagonista, be', lo devi vedere per capire...».
Angela mi lanciò un'occhiata esasperata.
«Ci vediamo a scuola», dissi con una risata nervosa.
Sospirò. «Ci vediamo».
Saltai inquieta sul pick-up, ma la strada era deserta. Durante il viaggio occhieggiavo ansiosa in tutti gli specchietti, ma non c'era traccia dell'auto argentata.
Non la trovai neanche davanti a casa, per quel poco che poteva significare.
«Bella?», chiamò Charlie quando aprii la porta.
«Ciao, papà».
Era in salotto, davanti alla TV.
«Com'è andata?».
«Bene», risposi. Tanto valeva dirgli tutto, presto l'avrebbe saputo da Billy. E poi, così lo avrei fatto felice. «Al lavoro non avevano bisogno di me, perciò sono andata a La Push».
Non c'era molta sorpresa sul suo viso. Billy gliel'aveva già detto.
«Come sta Jacob?», domandò fingendo indifferenza.
«Bene», dissi altrettanto indifferente.
«Sei andata dai Weber?».
«Sì. Abbiamo trascritto gli indirizzi su tutti gli inviti».
«Bene». Charlie fece un ampio sorriso. Era stranamente interessato, considerando che c'era una partita in corso. «Mi fa piacere che tu abbia trascorso un po' di tempo con i tuoi amici».
«Anche a me».
Mi diressi in cucina, in cerca di un po' di lavoro da fare. Purtroppo Charlie aveva già sparecchiato. Rimasi lì qualche minuto, in piedi davanti alla striscia di luce che il sole tracciava sul pavimento. Ma sapevo che non potevo rimandare quel momento per sempre.
«Vado a studiare», annunciai accigliata salendo le scale.
«A dopo», rispose Charlie.
Chiusi con attenzione la porta della stanza, prima di voltarmi a guardare.
Ovviamente lui era lì. Appoggiato alla parete di fronte a me, nell'ombra, accanto alla finestra aperta. La sua espressione era dura, la postura tesa. Mi fissava silenzioso.
Rabbrividii, aspettandomi un fiume di parole che non arrivò. Non smetteva di fissarmi, forse era troppo arrabbiato per parlare.
«Ciao», dissi finalmente.
Il suo viso sembrava scolpito nella roccia. Contai fino a cento dentro di me, ma non cambiò espressione.
«Ehm... guarda un po', sono ancora viva», abbozzai.
Un ruggito cupo risuonò nel suo petto, senza che cambiasse espressione.
«Non si è fatto male nessuno», insistetti scrollando le spalle.
Si mosse. A occhi chiusi, si chiuse le narici con le dita della mano destra.
«Bella», sussurrò. «Hai idea di quanto sono stato vicino a superare il confine oggi? A infrangere il patto per venirti a cercare? Sai che conseguenze ci sarebbero state?».
Boccheggiai e lui aprì gli occhi: freddi e duri come la notte.
«Non puoi!», dissi a voce troppo alta. Cercai di abbassarla per non insospettire Charlie, ma avrei voluto gridare. «Edward, per loro ogni scusa è buona per uno scontro. Non vedono l'ora. Non devi mai violare le regole!».
«Forse non sono gli unici a desiderare uno scontro».
«Non cominciare», sbottai, «voi avete stretto il patto, voi lo rispettate».
«Se ti avesse fatto del male...».
«Basta!», lo interruppi. «Non c'è niente di cui preoccuparsi. Jacob non è pericoloso».
«Bella». Alzò gli occhi al cielo. «Tu non sei esattamente il miglior giudice per dire che cosa è pericoloso e che cosa non lo è».
«Di Jake non devo preoccuparmi. E neanche tu».
Serrò i denti. Aveva le mani chiuse a pugno sui fianchi e restava in piedi contro il muro. Era odioso che mantenesse le distanze.
Respirai a fondo e attraversai la stanza. Non si mosse quando lo abbracciai. Rispetto al caldo del tardo sole pomeridiano che entrava dalla finestra, la sua pelle era di ghiaccio. Anche lui sembrava di ghiaccio, gelido com'era.
«Mi dispiace averti messo in ansia», farfugliai.
Con un sospiro si rilassò. Mi strinse i fianchi.
«In ansia è un eufemismo», mormorò. «È stata una giornata molto lunga».
«Non dovevi venirlo a sapere. Pensavo che sareste tornati più tardi dalla caccia».
Fissai il suo viso, il suo sguardo sulla difensiva; nella frenesia del momento non l'avevo notato, ma gli occhi erano troppo scuri. Le occhiaie erano profonde e purpuree. Aggrottai le sopracciglia in segno di disapprovazione.
«Quando Alice ti ha visto sparire, sono tornato indietro».
«Non avresti dovuto. Ora dovrai andare via di nuovo». Intensificai lo sguardo.
«Posso aspettare».
«È ridicolo. Voglio dire, so che lei non poteva vedermi con Jacob, ma tu avresti dovuto sapere...».
«Ma non sapevo. E non puoi pretendere che io ti permetta...».
«Oh, sì che posso», lo interruppi. «È proprio ciò che pretendo...».
«Non succederà più».
«Esatto! Perché la prossima volta non reagirai così».
«Perché non ci sarà una prossima volta».
«Quando sei tu a dovertene andare me ne faccio una ragione, anche se non mi fa piacere...».
«Non è la stessa cosa. Io non rischio la vita».
«Neanche io».
«I licantropi rappresentano un rischio».
«Non sono d'accordo».
«Non tollero discussioni su questo, Bella».
«Infatti».
Stringeva di nuovo i pugni. Li sentivo contro la schiena.
Le parole uscirono da sole, senza pensare. «Si tratta davvero della mia sicurezza?».
«Che vuoi dire?».
«Non sei...». La teoria di Angela mi sembrava più stupida che mai. Fu difficile terminare il pensiero. «Sai che non devi essere geloso, vero?».
«Lo so?».
«Sii serio».
«Ma certo. Non vedo ombra di ironia in tutto questo».
Aggrottai la fronte, sospettosa. «O invece... c'è qualcos'altro? Qualche assurdità tipo vampiri-e-licantropi-nemici-per-sempre? Una lotta a chi ha più testosterone...».
I suoi occhi s'infiammarono. «Riguarda soltanto te. L'unica cosa che voglio è che tu sia al sicuro».
Il fuoco nero nei suoi occhi non lasciava spazio ai dubbi. «Okay», sospirai. «Ci credo. Ma devo dirti una cosa. Per
quanto riguarda questa assurdità dei nemici, io non voglio saperne. Sono territorio neutrale. Sono la Svizzera. Mi rifiuto di lasciarmi coinvolgere in dispute territoriali fra creature mitiche. Jacob è uno di famiglia. Tu sei... be', non esattamente l'amore della mia vita, perché mi aspetto di amarti molto più a lungo. Sei l'amore della mia esistenza. E non m'interessa se uno è un licantropo e l'altro un vampiro. Se mai scopriremo che Angela è una strega, si unirà alla festa anche lei».
Mi fissò in silenzio, lo sguardo torvo.
«Svizzera», ribadii per dare più enfasi.
Scuro in volto, fece un sospiro. «Bella...», attaccò, poi fece una pausa e arricciò il naso, disgustato.
«Che c'è ora?».
«Be'... non ti offendere, ma puzzi di cane», mi disse.
Poi sorrise impertinente e capii che la schermaglia era finita. Per il momento.

La battuta di caccia sfumata fu rimandata al venerdì sera quando Edward, Jasper, Emmett e Carlisle si sarebbero diretti verso una riserva in California del Nord che aveva problemi con i puma.
Sulla questione dei licantropi non avevamo raggiunto nessun accordo, ma non mi sentii in colpa a chiamare Jake - nel breve tempo che ebbi prima che Edward rientrasse dalla finestra dopo aver riportato la Volvo a casa - per fargli sapere che sarei andata di nuovo a trovarlo il sabato seguente. Non c'era niente di furtivo. Edward sapeva ciò che sentivo. E se avesse smontato di nuovo il pick-up, avrei chiamato Jacob e mi sarei fatta venire a prendere. Forks era neutrale, come la Svizzera. Come me.
Perciò, quando il giovedì uscii dal lavoro e ad aspettarmi nella Volvo trovai Alice anziché Edward, non m'insospettii subito. La portiera del passeggero era aperta e una musica che non conoscevo faceva tremare tutto al suono dei bassi.
«Ciao, Alice», entrai gridando sopra quella lagna. «Dov'è tuo fratello?».
Cantava sulla canzone, un'ottava sopra la melodia, e aggiungeva variazioni di armonia complicate e sinuose. Mi fece un cenno, ignorando la mia domanda e concentrandosi sulla musica.
Chiusi la portiera e mi coprii le orecchie con le mani. Lei sorrise e abbassò il volume fino a lasciare la musica in sottofondo. Poi, in un istante, chiuse le sicure e diede gas.
«Che succede?», domandai. Iniziavo a sentirmi a disagio. «Dov'è Edward?».
Alzò le spalle. «Sono partiti presto».
«Ah». Provai a controllare la mia assurda delusione. Se era partito prima, significava che sarebbe tornato prima.
«Tutti i ragazzi sono partiti, possiamo fare un pigiama party!».
«Un pigiama party?», ripetei ormai in preda al sospetto.
«Che te ne pare?», domandò entusiasta.
Per un lungo secondo incrociai il suo sguardo agitato.
«È un rapimento, vero?».
Rise e annuì. «Fino a sabato. Esme ha chiarito tutto con Charlie; stai con me per due notti, e domani a scuola ti accompagno e ti vengo a prendere io».
Mi voltai verso il finestrino, infastidita.
«Mi dispiace», disse Alice senza il minimo cenno di pentimento. «Mi ha comprata».
«Come?», sibilai fra i denti.
«Con la Porsche. È uguale a quella che ho rubato in Italia». Sospirò felice. «Non è il caso che la guidi per le strade di Forks, ma, se vuoi, possiamo vedere quanto ci mettiamo per arrivare a Los Angeles. Scommetto che entro mezzanotte saremo di ritorno».
«No grazie, passo», sospirai reprimendo un fremito.
Percorremmo il vialone a velocità sempre troppo alta: Alice parcheggiò in garage e diedi un'occhiata fugace alle auto. C'erano la jeep di Emmett, la decappottabile rossa di Rosalie e in mezzo una scintillante Porsche giallo canarino.
Alice scese dalla macchina con grazia e accarezzò il fianco del suo regalo. «Carina, vero?».
«Davvero spettacolare», grugnii, incredula. «Ti ha fatto questo regalo soltanto per tenermi in ostaggio due giorni?».
Alice rispose con un'espressione eloquente.
Un secondo dopo compresi ed esclamai inorridita: «È per ogni volta che lui andrà via, vero?».
Annuì.
Sbattei la portiera e camminai decisa verso casa. Lei mi danzava accanto, impenitente.
«Alice, non ti pare che stia esagerando con il controllo? Che sia un comportamento un po' psicotico?».
«In realtà no». Inspirò. «A quanto pare non capisci quanto può essere pericoloso un giovane licantropo. Specialmente se non riesco a vederlo. Edward non può sapere se sei al sicuro. Non è il caso di essere temerari».
La mia voce si inacidì. «Certo, perché invece un pigiama party fra vampiri è il massimo del comportamento sicuro e responsabile».
Alice rise. «Prometto che ti farò la pedicure, trattamento completo».
Tutto sommato non era una brutta prospettiva, a parte il fatto che ero stata trattenuta contro la mia volontà. Esme aveva portato cibo italiano - roba di qualità, direttamente da Port Angeles - e Alice aveva recuperato tutti i miei film preferiti. C'era anche Rosalie, tranquilla, nelle retrovie. Alice insistette per farmi la pedicure. Forse aveva compilato una specie di lista di cose da fare... influenzata da qualche brutto telefilm.
«Fino a che ora vuoi rimanere alzata?», mi chiese ammirando la scintillante tonalità rosso sangue delle mie unghie. Il mio umore non aveva scalfito il suo entusiasmo.
«Non voglio fare tardi. Domani c'è lezione».
S'imbronciò.
«Tra l'altro, io dove dormo?». Misurai il divano con gli occhi. Era un po' piccolo. «Non potevi tenermi sotto sorveglianza a casa mia?».
«E che razza di pigiama party sarebbe?». Alice scosse la testa esasperata. «Tu dormi in camera di Edward».
Sospirai. In effetti il suo divano di pelle nera era più lungo di quello di Alice. E la moquette dorata della sua camera era così spessa che avrei anche potuto dormire per terra.
«Almeno posso tornare a casa a prendere le mie cose?».
Sorrise. «Già prese».
«Posso usare il tuo telefono?».
«Charlie sa dove sei».
«Non devo chiamare Charlie», risposi imbronciata. «Temo di dover annullare certi piani».
«Oh». Ci pensò su. «Non saprei».
«Alice...», piagnucolai. «Dai!».
«Okay, okay», disse e svanì dalla stanza. Tornò mezzo secondo dopo con il cellulare in mano. «Su questo dettaglio non ha imposto divieti...», borbottò mentre me lo passava.
Feci il numero di Jacob, nella speranza che non fosse in giro con gli amici proprio quella sera. La fortuna era dalla mia parte: rispose lui.
«Pronto?».
«Ciao, Jake, sono io». Alice mi guardò inespressiva per un secondo, poi tornò a sedersi sul divano fra Rosalie ed Esme.
«Ciao, Bella», disse Jacob improvvisamente cauto. «Che succede?».
«Niente di bello. Non posso più venire sabato».
Restò in silenzio per un minuto. «Stupido succhiasangue», mugugnò infine. «Pensavo che sarebbe partito. Quando non c'è hai il divieto di vivere? O ti tiene chiusa dentro una bara?».
Scoppiai a ridere.
«Non mi sembra così divertente».
«Rido solo perché ci sei andato vicino», gli dissi. «Ma sabato sarà di ritorno, perciò non importa».
«È rimasto a mangiare qui a Forks, eh?», chiese Jacob sarcastico.
«No». Mi sforzai di non irritarmi. In fondo ero arrabbiata quasi quanto lui. «Ha anticipato la partenza».
«Ah. Be', dai, vieni adesso allora», disse con improvviso entusiasmo. «Non è tanto tardi. Oppure vengo io da Charlie».
«Magari. Non sono da Charlie», dissi con voce amara. «Mi hanno fatta prigioniera, più o meno».
Rimase in silenzio a rimuginare, poi ruggì. «Veniamo subito a prenderti», promise impassibile, passando automaticamente al plurale.
Un brivido mi corse lungo la schiena, ma risposi in tono leggero e provocatorio. «Prospettiva attraente. Sono stata anche torturata: Alice mi ha dipinto le unghie».
«Dico sul serio».
«Non è il caso. Stanno soltanto cercando di tenermi al sicuro».
Ruggì di nuovo.
«So che è stupido, ma lo fanno con il cuore».
«Ma quale cuore!».
«Scusami per sabato. Ora vado a buttarmi a letto» - divano, corressi mentalmente - «ma ti chiamo presto».
«Sei sicura che te lo permetteranno?», chiese sarcastico.
«Non del tutto». Sospirai. «'Notte, Jake».
«A presto».
Alice all'improvviso mi fu accanto, con la mano tesa verso il telefono, ma io stavo già facendo il numero. Lei lo vide.
«Non credo che abbia con sé il cellulare», disse.
«Lascerò un messaggio».
Il telefono squillò quattro volte, seguito da un bip. Non c'erano messaggi preregistrati.
«Sei nei guai», scandii enfatizzando ogni parola. «Guai grossi. I grizzly ti sembreranno animali domestici, in confronto a ciò che ti aspetta a casa».
Chiusi il telefono con uno schiocco e lo riposi nella mano ansiosa di Alice. «Fatto».
Lei sorrise. «Questa storia del rapimento è proprio divertente».
«Ora vado a dormire», annunciai puntando verso le scale. Alice mi seguì.
«Alice», sospirai. «Non ho nessuna intenzione di scappare. Se ci stessi pensando, tu lo sapresti e mi prenderesti subito».
«Voglio solo mostrarti dove sono le tue cose», disse con aria innocente.
La camera di Edward era nell'ala più lontana del corridoio del terzo piano; non mi ero mai confusa, nemmeno quando l'enorme casa non mi era così familiare. Ma quando accesi la luce, restai perplessa. Avevo sbagliato porta?
Alice ridacchiò.
Capii subito che la stanza era la stessa, ma la disposizione dei mobili era cambiata. Avevano spostato il divano contro la parete a nord e lo stereo a ridosso dei tanti ripiani di CD, per fare spazio a un letto gigante che dominava al centro della stanza.
La parete di vetro a sud rifletteva la scena come uno specchio e la rendeva doppiamente inquietante.
Era tutto in coordinato: il copriletto era dorato, di una tonalità appena più chiara rispetto alle pareti, e la struttura del letto era intricata, in ferro battuto nero. Il baldacchino, decorato con volute di rose metalliche, assomigliava a un pergolato. Il mio pigiama era ripiegato con cura ai piedi del letto, accanto al beauty case.
«Che diavolo è questa storia?», borbottai.
«Pensavi che ti avrebbe lasciata dormire sul divano?».
Entrai per togliere le mie cose dal letto, bofonchiando parole incomprensibili.
«Ti lascio un po' di privacy», rise Alice. «Ci vediamo domani mattina».
Mi lavai i denti e mi cambiai, poi afferrai un morbido cuscino di piume dal letto enorme e trascinai il copriletto dorato sul divano. Sapevo che mi stavo comportando da stupida, ma non me ne importava niente. Porsche in regalo e letti enormi in case dove nessuno dormiva... era peggio che irritante. Spensi la luce e mi raggomitolai sul divano; forse ero troppo seccata per dormire.
Nel buio, la grande vetrata non era più lo specchio scuro che raddoppiava la stanza. La luna brillante illuminava le nuvole al di fuori. Quando mi abituai al buio scorsi il bagliore diffuso che, riflesso sulle cime degli alberi, apparteneva a un lembo di fiume. Guardai la luce argentata, in attesa che i miei occhi si facessero pesanti.
Qualcuno bussò piano alla porta.
«Che c'è, Alice?», sibilai. Ero sulla difensiva, immaginavo la sua aria divertita alla vista del letto improvvisato.
«Sono io», disse dolce Rosalie e socchiuse la porta quel tanto che bastava perché il bagliore argentato sfiorasse il viso perfetto. «Posso entrare?».

7
Triste finale

Rosalie esitava sulla porta, un'espressione incerta sul suo viso mozzafiato.
«Certo», risposi con voce acuta per la sorpresa. «Entra».
Mi alzai, scivolando verso una sponda del divano per farle spazio. Il mio stomaco sussultò nervoso mentre l'unica Cullen a cui non piacevo entrava silenziosa nella stanza. Mi chiesi il motivo di quella visita, ma ogni supposizione era vana.
«Ti dispiace se parliamo qualche minuto?», domandò. «Non ti ho svegliata, vero?». Il suo sguardo si posò sul letto spoglio e poi sul divano.
«No, ero sveglia. Parliamo, certo». Chissà se sentiva la preoccupazione nella mia voce come la percepivo io.
Fece una risatina, che risuonò come un coro di campane. «È così raro che ti lasci sola», disse. «Dovevo approfittare dell'occasione».
Che cosa voleva dirmi di così importante da non poterne parlare di fronte a Edward? Le mie mani torturarono l'orlo del piumone.
«Ti prego, non giudicarla una brutale interferenza», disse Rosalie con voce gentile e quasi in tono di preghiera. Teneva le mani giunte in grembo e parlando le fissava senza alzare lo sguardo. «Ho ferito i tuoi sentimenti già abbastanza, non voglio farlo di nuovo».
«Non ti preoccupare, Rosalie. I miei sentimenti stanno benissimo. Cosa volevi dirmi?».
Rise di nuovo, stranamente imbarazzata. «Voglio provare a spiegarti perché credo che dovresti rimanere umana... Perché io, se fossi in te, rimarrei umana».
«Ah».
Sorrise al tono sorpreso della mia voce, poi sospirò.
«Edward ti ha mai spiegato com'è andata?», chiese indicando il suo stupendo corpo immortale.
Annuii piano, improvvisamente cupa. «Mi ha detto che è accaduto qualcosa di simile a ciò che è successo a me quella volta a Port Angeles, solo che nessuno è venuto a salvarti». Rabbrividii al ricordo.
«Davvero è tutto ciò che ti ha detto?».
«Sì», annuii confusa. «Perché, c'è dell'altro?».
Mi guardò e sorrise: era un sorriso duro, amaro, ma pur sempre incantevole.
«Sì», disse. «C'è dell'altro».
Restai in attesa, mentre guardava fuori dalla finestra. Sembrava si sforzasse di calmarsi.
«Ti va di ascoltare la mia storia, Bella? Non ha un lieto fine... Del resto, quale fra le nostre storie ce l'ha? Se ci fosse stato un lieto fine, a quest'ora saremmo tutti sottoterra».
Il tono della sua voce mi spaventava.
«Vivevo in un mondo diverso dal tuo, Bella. Il mio mondo umano era molto più semplice. Era il 1933. Avevo diciotto anni, ero bella, la mia vita era perfetta».
Guardò verso le nuvole argentate, con espressione lontana.
«Venivo da una tipica famiglia di ceto medio. Mio padre aveva un lavoro fisso in banca, e soltanto ora mi rendo conto di quanto se ne compiacesse: era convinto di aver ricevuto quel benessere come ricompensa dei suoi sforzi e del suo talento, anziché ammettere che fosse stata anche una questione di fortuna. All'epoca davo tutto per scontato; a casa mia la Grande Depressione era soltanto un pettegolezzo fastidioso. Ovviamente vedevo i poveri, quelli che non erano fortunati come noi. Ma mio padre mi aveva indotto a pensare che erano essi stessi la prima causa dei loro problemi.
Il compito di mia madre - e mio, e dei miei fratelli più giovani - era tenere la casa lucida come uno specchio. Ovviamente, ero la sua preferita e il suo primo pensiero. All'epoca non potevo capirlo, ma avevo il sospetto che i miei genitori non fossero soddisfatti della propria condizione, sebbene avessimo un tenore di vita nettamente al di sopra alla media. Volevano ancora di più. Avevano aspirazioni di un certo genere... li si potrebbe definire arrampicatori sociali. La mia bellezza per loro era un tesoro. Ci vedevano molte più possibilità di quante non ne vedessi io.
Loro non erano soddisfatti, ma io sì. Ero entusiasta di essere Rosalie Hale, di essere me stessa. Compiaciuta perché, da quando avevo dodici anni, ovunque andassi attiravo gli sguardi degli uomini. Compiaciuta che le mie amiche sospirassero d'invidia quando mi toccavano i capelli. Felice che mia madre fosse orgogliosa di me, e che a mio padre piacesse comprarmi bei vestiti. Volevo il meglio dalla vita, e sembrava non ci fossero ostacoli a ottenere ciò che desideravo. Volevo essere amata, adorata. Volevo un matrimonio sfarzoso, pieno di fiori, con tutta la città ad assistere mentre mio padre mi accompagnava all'altare, a guardarmi come fossi la più bella cosa mai vista. L'ammirazione per me era come l'aria, Bella. Ero stupida e superficiale... ma ero contenta». Sorrise, divertita da quel giudizio.
L'influenza dei miei genitori era così forte da farmi desiderare anche le cose più materiali. Volevo una casa enorme con mobili eleganti che qualcun altro avrebbe pulito e una cucina moderna in cui qualcun altro avrebbe cucinato. Te l'ho detto, ero superficiale. Giovane e molto superficiale. E non vedevo una sola ragione per cui non avrei ottenuto tutto questo. Ma certi desideri mi stavano a cuore più di altri. Uno in particolare. La mia più cara amica era una ragazza di nome Vera. Si era sposata giovane, a soli diciassette anni. Con un carpentiere, un uomo che i miei genitori non avrebbero mai preso in considerazione per me. Un anno più tardi aveva avuto un figlio, uno splendido bambino con le fossette e i riccioli neri. Per la prima volta in vita mia mi ero sentita davvero invidiosa di qualcun altro».
Mi guardò con occhi impenetrabili. «Era un'altra epoca. Avevo la tua stessa età, ma ero già pronta. Sognavo un figlio mio. Volevo una casa mia e un marito che mi baciasse quando tornava dal lavoro. Proprio come Vera. Solo che avevo in mente un altro tipo di casa...».
Era difficile immaginare il mondo in cui era vissuta Rosalie. Il suo racconto somigliava più a una favola che a una storia vera. Provai una certa sorpresa quando mi resi conto che quel mondo era molto simile a quello che Edward aveva conosciuto da umano, in cui era cresciuto. Durante un attimo di silenzio mi domandai se il mio mondo le appariva sconcertante quanto il suo appariva a me.
«A Rochester c'era una famiglia nobile - si chiamavano King, ironia della sorte. Royce King possedeva la banca per cui lavorava mio padre, e quasi ogni altra impresa della città. Fu così che suo figlio, Royce King II», fece una smorfia pronunciando quel nome che venne fuori come un sibilo fra i denti, «mi vide la prima volta. Era destinato a rilevare la società, motivo per cui ne fu nominato supervisore. Due giorni dopo, mia madre dimenticò apposta di dare a mio padre il pranzo da portare al lavoro. Ricordo ancora la mia confusione, mentre insisteva che indossassi l'abito d'organza bianco e che mi aggiustassi i capelli, soltanto per arrivare fino alla banca a portarglielo». Rosalie rise senza ironia.
«Non notai che Royce mi guardava in modo particolare. In fondo, non era l'unico. Ma quella sera arrivò la prima rosa. Ogni sera, durante il corteggiamento, mi mandava un mazzo di rose. La mia stanza ne era sempre piena. A tal punto che, quando uscivo, profumavo di rose. Anche Royce era bello. Aveva i capelli più chiari dei miei, e occhi cerulei. Un giorno disse che i miei occhi erano come le viole e, a un certo punto, iniziarono ad apparire anche quelle, assieme alle rose.
I miei genitori approvavano - detto così, è un eufemismo. Era ciò che avevano sempre sognato. E Royce sembrava tutto ciò che sognavo da sempre. Il principe azzurro venuto a trasformarmi in principessa. Era tutto ciò che volevo... ma niente di più di ciò che mi aspettavo. Ci fidanzammo neanche due mesi dopo esserci conosciuti.
Non trascorrevamo molto tempo insieme. Royce diceva di avere troppe responsabilità al lavoro, e quando era in mia compagnia gli piaceva che la gente ci guardasse, che mi vedesse fra le sue braccia. Anche a me piaceva. C'erano tante feste, balli e bei vestiti. Essere un King ti apriva tutte le porte, c'erano tappeti rossi ovunque. Non fu un fidanzamento lungo. Stavamo organizzando un matrimonio sfarzosissimo. Sarebbe stato come avevo sempre desiderato. Ero felice. Quando parlavo con Vera non mi sentivo più invidiosa. Immaginavo i miei bambini dai capelli biondi giocare nei giardini di villa King, e provavo compassione per lei».
S'interruppe all'improvviso, digrignando i denti. Quel gesto mi riportò fuori dalla storia e capii che l'orrore era dietro l'angolo. Non ci sarebbe stato lieto fine, me lo aveva anticipato. Mi chiesi se fosse quello il motivo del velo di amarezza che spiccava in lei più che in ogni altro suo familiare. La sua vita umana era stata spezzata quando ciò che più desiderava era stato a portata di mano.
«Avevo trascorso la serata a casa di Vera», sussurrò Rosalie, con il viso liscio e duro come il marmo. «Il suo piccolo Henry era adorabile, tutto smorfie e fossette, già stava in piedi da solo. Quando me ne andai, Vera mi accompagnò alla porta, con il bambino in braccio e il marito accanto che le cingeva la vita. Lui la baciò sulla guancia, in un momento in cui pensava non stessi guardando. Provai fastidio. Quando Royce mi baciava non era la stessa cosa: non era così dolce... Misi da parte quel pensiero. Royce era il mio principe. Un giorno sarei diventata regina».
Difficile distinguerlo al chiaro di luna, ma il suo viso così bianco sembrava ancora più pallido.
«Per strada era buio, i lampioni erano già accesi. Non mi ero resa conto di quanto fosse tardi». Sussurrava con un filo sottilissimo di voce. «Faceva anche freddo. Molto freddo per essere fine aprile. Mancava solo una settimana al matrimonio e mentre tornavo in fretta a casa pensavo preoccupata al tempo. Lo ricordo chiaramente. Ricordo ogni dettaglio di quella notte. Mi ci sono tenuta stretta... all'inizio. Non pensavo ad altro. Perciò la ricordo ancora, mentre altre memorie piacevoli sono svanite del tutto...».
Sospirò e riprese sussurrando. «Sì, mi stavo preoccupando del tempo... non volevo celebrare il matrimonio al chiuso... Ero a pochi passi da casa quando li udii. Un capannello di uomini che ridevano chiassosi sotto un lampione rotto. Ubriachi. Avrei dovuto chiamare mio padre per farmi scortare fino a casa, ma la distanza era così breve che mi sembrava stupido. Poi lui urlò il mio nome.
"Rose!", strillò, e gli altri risero come degli stupidi. Non avevo notato che gli ubriaconi erano tutti molto ben vestiti. Erano Royce e certi suoi amici, altri rampolli come lui.
"Ecco la mia Rose!", gridò Royce e rise con loro. Anche lui sembrava uno stupido. "Sei in ritardo. Abbiamo freddo, ci hai fatto aspettare tanto". Non l'avevo mai visto bere prima. Un brindisi ogni tanto, alle feste. Mi aveva detto che non amava lo champagne. Non avevo capito che era perché preferiva cose più forti. Con lui c'era uno sconosciuto. L'amico di un amico, venuto da Atlanta.
"Cosa ti ho detto, John", esultò Royce, stringendomi il braccio e tirandomi verso di sé. "Non è forse molto più attraente di tutte le tue bellezze della Georgia?". Questo John aveva i capelli neri ed era molto abbronzato. Mi guardava come fossi un cavallo da comprare.
"Difficile da dire", rispose strascicando lentamente le parole. "È tutta coperta". Risero tutti, anche Royce. Di colpo, Royce mi strappò la giacca di dosso - era un suo regalo - facendo saltare i bottoni metallici che si sparpagliarono sulla strada.
"Fa' vedere come sei fatta, Rose!", rise di nuovo e mi tolse via il cappello. Le forcine mi strapparono i capelli, scoppiai in lacrime dal dolore. Sembrava che godessero... del suono del mio dolore...».
Rosalie mi guardò all'improvviso, quasi avesse dimenticato la mia presenza. Di sicuro ero pallida quanto lei. O forse livida.
«Ti risparmio il resto», disse calma. «Mi lasciarono per strada che ancora ridevano. Pensavano fossi morta. Provocavano Royce dicendogli che avrebbe dovuto trovare un'altra moglie. Lui rideva, e diceva che avrebbe dovuto imparare a essere più paziente.
Io, per strada, aspettavo di morire. Faceva freddo, ma stavo così male che mi sorpresi di riuscire a sentirlo. Cominciò a nevicare; mi chiesi perché non morivo. Non vedevo l'ora che arrivasse la morte, per far cessare il dolore. Ci voleva così tanto... A quel punto mi trovò Carlisle. Aveva sentito l'odore di sangue ed era venuto a controllare. Ricordo di essermi sentita vagamente infastidita mentre cercava di salvarmi la vita. Il dottor Cullen non mi era mai piaciuto, e neanche sua moglie e suo fratello - così si presentava Edward, all'epoca. Mi irritava che fossero tutti più belli di me, specialmente gli uomini. Ma non facevano vita sociale, perciò li avevo incrociati solo una o due volte. Pensai di essere morta quando mi sollevò da terra e si mise a correre. Era velocissimo, mi sembrava di volare. Mi ricordo un senso d'orrore, perché il dolore non si placava...
Poi mi ritrovai in una stanza luminosa e calda. Stavo per spegnermi... Ne ero lieta, perché il dolore si stava alleviando. Ma all'improvviso sentii qualcosa di affilato tagliarmi la gola, i polsi, le caviglie. Gridai, nel panico, certa che mi avesse portata lì per farmi ancora più male. Poi il fuoco iniziò a bruciarmi dentro e non mi preoccupai più di niente. Lo implorai di uccidermi. Quando Esme ed Edward tornarono a casa, pregai anche loro di uccidermi. Carlisle restò a vegliarmi. Mi prese la mano, mi disse che gli dispiaceva molto, che sarebbe finita presto. Mi raccontò tutto; riuscivo ad ascoltare solo a tratti. Mi spiegò che cosa era lui, e che cosa stavo diventando. Non gli credetti. A ogni mio grido, chiedeva scusa.
Edward non era contento. Ricordo che li sentii parlare di me, quando finalmente smisi di urlare. A quel punto urlare non serviva a niente.
"Cosa ti è saltato in mente, Carlisle?", diceva Edward. "Rosalie Hale?"». Rosalie imitava il tono irritato di Edward alla perfezione. «Non mi andava il modo in cui pronunciava il mio nome, come se in me ci fosse qualcosa che non andava.
"Non potevo lasciarla morire", rispose Carlisle tranquillo. "Era troppo... troppo orribile, uno scempio tremendo".
"Lo so", rispose Edward, come se volesse liquidare la faccenda. La cosa m'irritò. Allora ignoravo che lui sapeva tutto ciò che Carlisle aveva visto.
"Era uno scempio. Non potevo lasciarla lì", ripeté Carlisle in un sussurro.
"Certo che no", annuì Esme.
"Con tutta la gente che muore", commentò Edward con voce dura. "A ogni modo, non ti pare sia un po' troppo riconoscibile? I King attraverseranno mari e monti per ritrovarla, anche se nessuno sospetterà di quel maniaco", ruggì. Ero felice che sapessero che il colpevole era Royce. Ancora non capivo che era quasi finita, che stavo diventando più forte e riuscivo a concentrarmi sui loro discorsi. Il dolore iniziava a scivolare via.
"Cosa ne faremo?", disse Edward con un tono che mi sembrò di disgusto.
Carlisle sospirò. "Dipende da lei, ovviamente. Potrebbe volersene andare per conto suo". Gli avevo creduto quanto bastava per sentirmi terrorizzata. Sapevo che la mia vita era finita, che non sarei più tornata indietro. Non potevo sopportare il pensiero di rimanere sola... Alla fine il dolore svanì; mi spiegarono di nuovo cos'ero diventata. Questa volta compresi. Sentivo la sete, la pelle dura; vidi i miei brillanti occhi rossi.
Superficiale com'ero, quando scorsi la prima volta la mia immagine riflessa nello specchio, mi sentii meglio. A parte gli occhi, ero la cosa più bella che avessi mai visto». Rise tra sé per un attimo. «Ci volle un po' di tempo prima che iniziassi a incolpare la mia bellezza di ciò che era accaduto, perché capissi che era stata una sciagura... per desiderare di essere, non dico brutta, ma normale. Come Vera. Così avrei potuto sposare qualcuno che mi amava, e avere dei bei bambini. Era questo ciò che volevo davvero, in fondo. Non mi sembra di aver chiesto troppo».
Rimase pensierosa per un attimo, e mi chiesi se si fosse di nuovo dimenticata di me. Ma poi mi sorrise, con l'espressione insolitamente trionfante.
«Sai, il mio curriculum è pulito quasi come quello di Carlisle», mi disse. «Meglio di Esme. Mille volte meglio di Edward. Non ho mai assaggiato sangue umano», annunciò orgogliosa.
Comprese la mia espressione interrogativa: mi stavo chiedendo il perché di quel "quasi".
«Ho ucciso cinque umani», mi disse in tono compiaciuto. «Se davvero si possono chiamare umani. Ma ho fatto molta attenzione a non succhiarne il sangue. Sapevo che non sarei stata capace di resistere, e non volevo che qualcosa di loro mi restasse dentro. Royce l'ho lasciato per ultimo. Speravo che venisse a sapere della morte dei suoi amici e che capisse cosa lo aspettava. Speravo che la paura potesse peggiorare la sua fine. Credo di esserci riuscita. Si era rifugiato dentro una camera senza finestre, dietro una porta spessa come un forziere, sorvegliato da uomini armati, quando lo presi. Ecco, sette omicidi», si corresse. «Mi ero dimenticata delle guardie. C'è voluto solo un secondo. Forse ho esagerato con la messinscena. Forse è stata un po' infantile. Indossavo un abito da sposa che avevo rubato per l'occasione. Quando mi vide scoppiò a urlare. Urlò parecchio, quella notte. Fu una buona idea lasciarlo per ultimo. Per me diventava più facile controllarmi, se agivo più lentamente...».
S'interruppe di colpo e mi fissò. «Scusami», disse imbarazzata. «Ti sto spaventando, vero?».
«Sto bene», mentii.
«Mi sono fatta prendere dai ricordi».
«Non preoccuparti».
«Mi stupisco che Edward non ti abbia raccontato di più su questa storia».
«Non gli piace raccontare le storie altrui. Ha sempre paura di tradire l'intimità degli altri, perché sente molto di più di ciò che vorrebbero fargli sentire».
Sorrise e scosse la testa. «Forse avrei dovuto dargli più credito. È davvero molto corretto, vero?».
«Io penso di sì».
«Sì, credo proprio di sì». Poi sospirò. «Non sono stata molto corretta con te, Bella. Ti ha spiegato perché? O sono anche queste informazioni riservate?».
«Mi ha detto che è perché sono umana. Perché non ti andava a genio l'idea che qualcuno di esterno sapesse».
La risata musicale di Rosalie m'interruppe. «Ora mi sento davvero in colpa. È stato molto, molto più gentile con me di quanto mi meriti». Rise con maggior calore, come se avesse abbassato la guardia che manteneva sempre in mia presenza. «Che bugiardo». Rise ancora.
«Mi ha mentito?», chiesi con istantanea cautela.
«Be', non esageriamo. Diciamo che non ti ha raccontato proprio tutto. Ciò che ti ha detto è vero, ora anche più di prima. Tuttavia, all'epoca...». S'interruppe e fece una risatina nervosa. «È imbarazzante. Vedi, all'inizio, ero gelosa soprattutto perché lui voleva te e non me».
Le sue parole mi fecero rabbrividire di paura. Sotto quella luce argentata, Rosalie era più bella di qualunque cosa potessi immaginare. Non potevo competere con lei.
«Ma tu ami Emmett...», mormorai.
Annuì con vigore, divertita. «Non voglio Edward in quel senso, Bella. Non l'ho mai voluto: gli voglio bene come a un fratello, ma mi è bastato sentirlo parlare per trovarlo irritante. Devi capire, però... ero così abituata a essere l'oggetto del desiderio di chiunque. E invece Edward non mostrava il benché minimo interesse. All'inizio mi sentivo frustrata, persino offesa. Ma lui non desiderava mai nessuna, dunque non m'infastidiva più di tanto. Neanche quando abbiamo conosciuto il clan di Tanya a Denali - con tutte quelle femmine! - Edward ha mostrato la minima preferenza. E poi ha incontrato te». Mi guardò confusa. Non ero molto attenta. Pensavo a Edward e Tanya e tutte quelle femmine, e serrai le labbra con forza.
«Non che tu non sia carina», disse fraintendendo la mia espressione. «Ma lui ti trovava più attraente di me. E vanitosa come sono, ciò mi ha infastidito».
«Però hai detto "all'inizio". Ora non ti dà più... fastidio, vero? Voglio dire, sappiamo benissimo entrambe che sei la persona più bella del pianeta».
Risi di quelle parole: era talmente ovvio, che non avrei neanche dovuto dirlo. Strano dover rassicurare Rosalie in quel modo.
Anche lei rise. «Grazie, Bella. No, non mi dà più fastidio. Edward è sempre stato un po' bizzarro».
«Ma io ancora non ti piaccio», sussurrai.
Il suo sorriso scomparve. «Ti chiedo scusa». Rimanemmo in silenzio per un momento. Non sembrava volesse andare avanti.
«Ti va di dirmi perché? Ho fatto qualcosa?». Forse era arrabbiata perché avevo messo la sua famiglia - il suo Emmett - in pericolo? Più di una volta. Prima James, ora Victoria...
«No, tu non hai fatto niente», mormorò. «Non ancora».
La fissai, perplessa.
«Non capisci, Bella?». La sua voce si era fatta d'un tratto più accalorata di quando mi aveva raccontato la sua storia infelice. «Tu hai già tutto. Hai una vita intera davanti: proprio ciò che vorrei io. E stai per buttarla via. Non capisci che darei tutto ciò che ho per essere te? Hai a disposizione la scelta che io non ho avuto... e stai facendo quella sbagliata!».
La sua espressione feroce mi fece arretrare; ero rimasta a bocca aperta... la chiusi di scatto.
Mi fissò a lungo e il fervore dei suoi occhi si spense poco a poco. D'un tratto aveva un'aria sconcertata.
«Ero così sicura di riuscire a parlartene con calma». Scosse la testa, sembrava un po' stupita da quell'ondata di emozioni. «Ma ora è più difficile di prima, quando era soltanto questione di vanità».
Fissò la luna in silenzio. Ci vollero alcuni minuti perché trovassi il coraggio di interrompere le sue fantasticherie.
«Se scegliessi di rimanere umana ti piacerei di più?».
Si girò verso di me, le labbra tese in un cenno di sorriso. «Forse».
«Un po' del tuo lieto fine l'hai avuto, però», le ricordai. «Hai Emmett».
«Ne ho avuto metà». Si aprì in un sorriso. «Sai già che ho salvato Emmett dall'aggressione di un orso, portandolo da Carlisle. Ma sai perché ho impedito all'orso di mangiarlo?».
Scossi la testa.
«Con i riccioli neri e le fossette evidenti anche nella sua smorfia di dolore... quella strana innocenza che sembrava così fuori luogo in un uomo adulto mi ha ricordato Henry, il bambino di Vera. Non volevo che morisse. Anzi, per quanto odiassi questa vita, sono stata abbastanza egoista da chiedere a Carlisle di trasformarlo per me.
Ho avuto più fortuna di quanto meritassi. Emmett è tutto ciò che avrei mai potuto chiedere, se mi fossi conosciuta abbastanza da sapere cosa chiedere. È esattamente il tipo di persona adatta a una come me. E, stranamente, anche lui ha bisogno di me. Ha funzionato meglio di quanto potessi sperare. Ma resteremo sempre noi due. E non mi siederò mai in veranda assieme a lui, vecchi e grigi, circondati dai nipotini».
Il suo sorriso si era ingentilito. «Tutto questo ti suona strano, vero? In un certo senso sei molto più matura di quanto fossi io a diciotto anni. Ma d'altra parte... ci sono molte cose a cui forse non hai mai pensato seriamente. Sei troppo giovane per sapere che cosa vorrai fra dieci, quindici anni, troppo giovane per mollare tutto senza pensarci a fondo. Non essere frettolosa, se non puoi tornare indietro, Bella». Mi diede un buffetto sulla testa, un gesto tutt'altro che condiscendente.
«Pensaci solo un po'. Una volta fatto, non ci sarà più rimedio. Esme si è accontentata di avere noi come figli, mentre Alice non ricorda niente della sua vita umana, dunque non ne sente la mancanza... Tu te ne ricorderai, invece. È molto, ciò a cui dovrai rinunciare».
Ma è di più ciò che avrò in cambio, dissi fra me. «Grazie, Rosalie... è bello capire... conoscerti meglio».
«Mi scuso per essere stata un mostro», sorrise. «D'ora in poi proverò a comportarmi meglio».
Ricambiai il sorriso.
Non eravamo ancora amiche, ma ero sicura che non mi avrebbe più odiata così tanto.
«Ora ti lascio dormire». Gli occhi di Rosalie si rivolsero al letto e accennò una risata. «So che t'infastidisce che lui ti abbia rinchiuso così, ma non trattarlo troppo male quando torna. Ti ama più di quanto tu possa immaginare. Starti lontano lo terrorizza». Si alzò silenziosa e come un fantasma raggiunse la porta. «Buonanotte, Bella», sussurrò chiudendosela alle spalle.
«Buonanotte, Rosalie», mormorai con un secondo di ritardo.
Dopo quella conversazione, mi ci volle un bel po' per addormentarmi.
Sprofondata nel sonno, ebbi un incubo. Strisciavo nel buio, tra i ciottoli freddi di una strada sconosciuta, sotto una neve leggera, e lasciavo una scia di sangue dietro di me. Un angelo tenebroso, con un lungo vestito bianco, sorvegliava il mio cammino con occhi pieni di rancore.
Il giorno dopo Alice mi accompagnò a scuola. Stizzita, guardai per tutto il tempo fuori dal finestrino. Le ore di sonno arretrato non facevano che aumentare l'irritazione per la prigionia.
«Stasera andiamo a Olympia, o in giro», promise. «Ci divertiamo, ti va?».
«Perché non mi chiudi in cantina», suggerii, «e la smetti con questi contentini?».
Alice si accigliò. «Si riprenderebbe la Porsche. Non sto facendo del mio meglio. Dovresti divertirti».
«Non è colpa tua», farfugliai. Non potevo crederci, eppure mi sentivo in colpa. «Ci vediamo a pranzo».
Mi diressi verso l'aula di inglese. Senza Edward, la giornata sarebbe stata di certo insopportabile. Rimasi imbronciata per tutta la prima ora, conscia che un simile atteggiamento non mi aiutava.
Al suono della campana, mi alzai senza entusiasmo. Mike era lì sulla porta e me la tenne aperta.
«Edward si dà al trekking, questo fine settimana?», chiese affabile mentre uscivamo, sotto la pioggia leggera.
«Sì».
«Ti va di uscire stasera?».
Come poteva sperarci ancora?
«Non posso. Ho un pigiama party», mugugnai. Rispose con uno sguardo strano e tentò di decifrare il mio umore.
«Con chi?».
La domanda di Mike fu interrotta da un ruggito cupo e potente che veniva dal parcheggio alle nostre spalle.
Tutti si girarono a guardare increduli mentre la moto nera e rumorosa frenava sgommando sull'asfalto, senza smettere di ringhiare.
Jacob mi fece un gesto agitato.
«Corri, Bella!», gridò più forte del rombo del motore.
Rimasi di sasso per un secondo prima di capire.
Lanciai un'occhiata a Mike. Sapevo di avere pochi secondi.
Alice avrebbe avuto il coraggio di riacciuffarmi in pubblico?
«Mi sentivo molto male e sono andata a casa, okay?», dissi a Mike, la voce piena di frenesia improvvisa.
«Va bene», bofonchiò.
Lo ricompensai con un bacetto sulla guancia. «Grazie, Mike. Ti devo un favore!», dissi correndo via.
Jacob diede giri al motore, sorridente. Saltai in sella e mi strinsi forte a lui.
Vidi Alice, impietrita davanti alla mensa, con gli occhi scintillanti di furia, i denti scoperti.
Le lanciai uno sguardo implorante.
Poi schizzammo sull'asfalto, così veloci che il mio stomaco non riuscì a starci dietro.
«Aggrappati», gridò Jacob.
Nascosi il viso contro la sua schiena mentre accelerava sull'autostrada. Sapevo che avrebbe rallentato solo in prossimità del confine dei Quileute. Fino ad allora dovevo solo aggrapparmi forte. Pregai in silenzio e con fervore che Alice non ci seguisse, e che Charlie non mi vedesse...
Mi accorsi subito che avevamo raggiunto l'area protetta. La moto rallentava e Jacob si raddrizzò scoppiando a ridere. Aprii gli occhi.
«Ce l'abbiamo fatta», gridò. «Niente male come evasione, eh?».
«Ottima idea, Jake».
«Mi sono ricordato di quando hai detto che la sanguisuga veggente non è capace di prevedere le mie azioni. Meno male che non ci hai pensato tu. Non ti avrebbe permesso di andare a scuola».
«Per questo non l'ho preso in considerazione».
Sorrise trionfante; «Che cosa vuoi fare oggi?».
«Tutto!», risposi ridendo. Che gran cosa essere liberi.

8
Furia

Finimmo di nuovo sulla spiaggia, a girovagare senza meta. Jacob era ancora tronfio per aver organizzato la mia fuga.
«Credi che verranno a cercarti?», domandò, quasi speranzoso.
«No». Ne ero certa. «Ma in compenso stasera saranno furiosi con me».
Raccolse un sasso e lo lanciò fra le onde.
«Allora non tornare», insistette.
«Charlie ne sarebbe molto felice», risposi sarcastica.
«Scommetto che non gli dispiacerebbe».
Non risposi. Forse Jacob aveva ragione, e questo mi fece serrare la mascella. La spudorata preferenza di Charlie per i miei amici Quileute era ingiusta. Chissà se avrebbe reagito allo stesso modo sapendo che l'alternativa era fra licantropi e vampiri.
«E allora, qual è l'ultimo scandalo del branco?», chiesi frivola.
Jacob si fermò di colpo e mi fissò sconvolto.
«Che c'è? Era uno scherzo».
«Ah». Guardò lontano.
Aspettai che ricominciasse a camminare, ma sembrava perso nei suoi pensieri.
«C'è davvero qualche scandalo?», insistetti.
Jacob sogghignò. «Ho dimenticato come si sta se non hai qualcuno accanto che sa sempre tutto. Conservare uno spazio tranquillo e privato nella mente».
Per un po' camminammo in silenzio sulla spiaggia di ciottoli.
«Di che si tratta?», chiesi infine. «Cos'è che tutti nella tua testa già sanno?».
Esitò per un istante, come se non fosse sicuro di ciò che stava per raccontare. Poi disse: «Anche Quil ha avuto l'imprinting. Con lui fanno tre. Stiamo iniziando a preoccuparci. Forse è più comune di quanto dicono le leggende...». Si voltò verso di me e mi fissò negli occhi senza parlare, con la fronte corrugata per la concentrazione.
«Cosa stai guardando?», chiesi imbarazzata.
Sospirò. «Niente».
Jacob riprese a camminare. Quasi senza pensare allungò il braccio e mi prese per mano. Attraversammo le rocce in silenzio.
Pensai a come dovevamo apparire, mano nella mano sulla spiaggia - una coppia, certamente - e mi chiesi se avrei dovuto oppormi. Ma con Jacob era sempre stato così... non c'era ragione di agitarsi.
«Perché l'imprinting di Quil è uno scandalo?», chiesi quando fu chiaro che non avrebbe proseguito. «Forse perché è l'ultimo arrivato?».
«Non c'entra niente».
«E allora qual è il problema?».
«È un'altra di quelle leggende. Smetteremo mai di sorprenderci del fatto che sono tutte vere?», mormorò.
«Me lo vuoi dire? O devo indovinare?».
«Non indovineresti mai. Allora, come sai, Quil è tornato con noi da poco. Perciò non ha mai frequentato granché la casa di Emily».
«Anche Quil ha avuto l'imprinting con Emily?», esclamai.
«No! Ti ho detto che non puoi indovinare. A casa di Emily c'erano le sue due nipoti... e Quil ha conosciuto Claire».
Tacque. Meditai per qualche istante.
«Emily non vuole che sua nipote stia con un licantropo? Un ragionamento un po' ipocrita», dissi.
Ma capivo perché la vedesse così. Pensai alle lunghe cicatrici che le avevano sfregiato il viso e tutto il braccio destro. Sam aveva perso il controllo una volta sola, vicino a lei. Ed era bastata... Avevo visto il dolore negli occhi di Sam mentre guardava ciò che aveva fatto a Emily. Capivo perché lei volesse proteggere sua nipote.
«Per favore, potresti smettere di tirare a indovinare? Sei fuori strada. A Emily non importa di questo; il fatto è che, be', è un po' troppo presto».
«In che senso?».
Jacob mi scrutò. «Prometti di non giudicare, okay?».
Annuii con cautela.
«Claire ha due anni», mi disse Jacob.
Cominciò a piovere. Sbattei le palpebre furiosamente mentre le gocce mi colpivano il viso.
Jacob aspettò in silenzio. Come sempre, non indossava il giubbotto; la pioggia gli riempiva di schizzi la maglietta nera e gocciolava dai suoi capelli arruffati. Mi guardava negli occhi, impassibile.
«Quil ha avuto l'imprinting... con una bambina di due anni?», riuscii finalmente a chiedere.
«Succede». Jacob scrollò le spalle. Si chinò a raccogliere un'altra pietra e la fece volare lungo la baia. «Così dicono le leggende».
«Ma è una bambina», protestai.
Il suo sguardo era ironico e cupo. «Quil non invecchierà più», mi ricordò con tono un po' acido. «Gli basterà pazientare qualche decennio».
«Non... non so cosa dire».
Cercavo con tutte le mie forze di non essere critica, ma in verità ero inorridita. Da quando avevo scoperto che non erano colpevoli degli omicidi di cui li sospettavo, il comportamento dei licantropi non mi aveva più infastidito.
«Stai giudicando male», m'accusò. «Te lo leggo negli occhi».
«Scusa», farfugliai, «è che mi spaventa un po'».
«Non è come credi; non hai capito niente», Jacob difese l'amico con repentina veemenza. «Ho capito com'è, l'ho visto con i suoi occhi. Non c'è niente di romantico in tutto questo, non per Quil, non adesso». Fece un lungo sospiro, frustrato. «È difficile da descrivere. Non è un colpo di fulmine, davvero. È più... uno spostamento di gravità. Quando vedi lei, all'improvviso non è più la Terra che ti tiene attaccata a sé. È lei. E niente conta più di lei. Sai che per lei faresti qualsiasi cosa, per lei saresti qualsiasi cosa... Diventi tutto ciò di cui ha bisogno, che sia un protettore, un amante, un amico, o un fratello. Quil sarà il migliore, il più bravo fratello maggiore che una bambina abbia mai avuto. Nessun bimbo sul pianeta riceverà più cure e attenzioni di quella piccolina. Quando sarà più grande e avrà bisogno di un amico, lui sarà l'uomo più comprensivo, affidabile e fedele che lei abbia mai conosciuto. E quando lei sarà cresciuta, saranno felici come Emily e Sam». Parlando di Sam, un tono strano, quasi amaro gli tagliò la voce.
«Claire ha possibilità di scelta?».
«Certo. Ma perché non dovrebbe sceglierlo, alla fine? Lui sarà la sua perfetta metà. Esisterà soltanto per lei».
Camminammo in silenzio per un attimo, poi mi fermai a lanciare un sasso nell'oceano. Cadde in spiaggia dopo pochi metri. Jacob rise.
«Non tutti abbiamo forze sovrumane», borbottai. «A te quando credi succederà?», gli chiesi poi tranquilla.
La sua risposta fu piana e immediata. «Mai».
«È un istinto incontrollabile, o no?».
Rimase in silenzio per un po'. Senza accorgercene avevamo preso tutti e due a camminare lentissimi.
«In teoria, no», ammise. «Tutto sta nel "vederla", colei che ti dovrebbe essere destinata».
«E tu pensi che non esista perché non l'hai ancora vista?», domandai scettica. «Jacob, tu hai visto ancora pochissimo del mondo. Persino meno di me».
«Sì, è vero», disse a voce bassa. All'improvviso mi lanciò uno sguardo penetrante. «Ma non vedrò mai nessun'altra, Bella. Io vedo soltanto te. Anche quando chiudo gli occhi e provo a pensare a qualcos'altro. Chiedi a Quil o Embry. Li sto facendo impazzire».
Puntai gli occhi sulle pietre.
Ci eravamo fermati. L'unico suono era quello delle onde che s'infrangevano sulla battigia e copriva anche il rumore della pioggia.
«Forse è meglio che io torni a casa», sussurrai.
«No!», protestò, sorpreso da questa conclusione.
Lo guardai di nuovo. Ora nei suoi occhi c'era ansia.
«Hai tutto il giorno libero, giusto? Il succhiasangue non sarà ancora tornato».
Gli lanciai un'occhiataccia.
«Senza offesa», aggiunse rapido.
«Sì, ho tutto il giorno libero. Però, Jake...».
Alzò le mani. «Scusa. Non mi sentirai più così. Sarò soltanto Jacob».
«Ma se questo è ciò che pensi...».
«Non preoccuparti per me», insistette, forzando un sorriso troppo aperto. «So quello che faccio. Tu dimmi solo se ti sto turbando».
«Non lo so...».
«Andiamo, Bella. Torniamo a casa e prendiamo le moto. Devi guidare regolarmente se vuoi tenerti allenata».
«Non credo che mi sia permesso».
«Da chi? Da Charlie o dal succhia... o da lui?».
«Da entrambi».
Contraccambiò il mio sorriso e all'istante tornò il Jacob che più mi era mancato, solare e caloroso.
Non potei non ricambiare.
La pioggia si ammorbidì e si trasformò in nebbiolina.
«Non lo dirò a nessuno», promise.
«A parte tutti i tuoi amici».
Scosse la testa serio e alzò la mano destra. «Prometto che non ci penserò».
Scoppiai a ridere. «Se mi faccio male, è perché ho inciampato».
«Come vuoi tu».
Guidammo le moto sulle stradine secondarie attorno a La Push finché la pioggia non rese tutto troppo fangoso, così Jacob insistette che sarebbe svenuto se non avesse mangiato subito. Quando entrammo in casa, Billy mi salutò senza disagio, come se la mia riapparizione improvvisa significasse soltanto che volevo trascorrere una giornata con il mio amico, senza complicazioni. Dopo aver mangiato i panini preparati da Jacob, andammo in garage e lo aiutai a pulire le moto. Non ci andavo da mesi, da quando Edward era tornato, ma non sentii l'atmosfera delle occasioni speciali. Era uno dei tanti pomeriggi in garage.
«Che bello», commentai mentre Jacob prendeva le bibite calde dalla borsa della spesa. «Questo posto mi è mancato».
Sorrise, guardando il tetto arrangiato sopra la nostra testa. «Sì, ci credo. Tutto lo splendore del Taj Mahal, senza la fatica e la spesa di un viaggio in India».
«Al piccolo Taj Mahal di Washington», brindai con la lattina in mano.
La sfiorò con la sua.
«Ti ricordi lo scorso San Valentino? Mi sa che è stata l'ultima volta che sei venuta qui. Cioè, l'ultima finché la situazione è rimasta... normale».
Scoppiai a ridere. «Certo che ricordo. Ti ho promesso una vita intera di schiavitù in cambio di una scatola di cioccolatini. Certe cose non le dimentico, sai?».
Rise con me. «Giusto. Schiavitù... vediamo un po'. Devo farmi venire una buona idea». Poi sospirò. «Sembrano passati anni. Era un'altra epoca. Più felice».
Non potevo essere d'accordo. La mia epoca felice era quella che stavo vivendo. Ma restai sorpresa quando capii che c'erano cose del mio periodo buio di cui sentivo la mancanza. Fissai la foresta bagnata, fuori dalla porta. Aveva ricominciato a piovere ma nel piccolo garage faceva caldo, con Jacob accanto. Era confortevole come un caminetto.
Le sue dita mi sfiorarono la mano. «Le cose sono davvero cambiate».
«Sì», dissi e allungai il braccio ad accarezzare la ruota posteriore della moto. «Charlie mi voleva bene. Spero che Billy non gli dica niente di oggi...». Restai in silenzio, incerta.
«Non lo farà. Non se la lega al dito come fa Charlie. Ehi, non mi sono mai scusato ufficialmente per quella stupidaggine con la moto. Mi dispiace molto per averti messo nei guai con tuo padre. Vorrei non averlo fatto».
Alzai gli occhi al cielo. «Anch'io».
«Mi dispiace, mi dispiace davvero».
Mi guardò speranzoso, i capelli neri spettinati e umidi incollati al viso implorante.
«Oh, va bene. Sei perdonato».
«Grazie, Bells!».
Ci sorridemmo per un attimo; poi tornò a rabbuiarsi.
«Sai, quel giorno, quando ti ho portato la moto... avrei voluto chiederti una cosa», disse lentamente, «ma al tempo stesso, non volevo».
La sorpresa m'immobilizzò. Un'abitudine che avevo preso da Edward.
«Sei stata così dura perché eri arrabbiata con me, o dicevi sul serio?», sussurrò.
«Di che parli?», sussurrai benché avessi intuito a cosa si riferiva.
Mi lanciò un'occhiataccia. «Lo sai. Quando hai detto che non erano affari miei se... se lui ti avesse morso». Alle ultime parole rabbrividì visibilmente.
«Jake...». Mi sentii soffocare. Non riuscii a finire.
Chiuse gli occhi. «Dicevi sul serio?».
Tremava appena. Non riaprì gli occhi.
«Sì», sussurrai.
Jacob inspirò, lento e profondo. «Lo sapevo».
Lo fissai, aspettando che aprisse gli occhi.
«Sai cosa significa questo?», domandò di colpo. «Lo capisci, vero? Che cosa succederebbe se rompessero il patto?».
«Prima ce ne andremo», dissi con un filo di voce.
I suoi occhi si spalancarono, profondi e neri, pieni di rabbia e dolore. «Il patto non ha un limite geografico, Bella. I nostri bisnonni acconsentirono a conservare la pace perché i Cullen avevano giurato di essere diversi, di non essere pericolosi per gli umani. Promisero che non avrebbero mai più ucciso né trasformato nessuno. Se si rimangiassero la parola, il patto non avrebbe più significato. Diventerebbero di nuovo uguali a un qualsiasi altro vampiro. E a quel punto, se li trovassimo...».
«Ma, Jake, voi non avete già rotto il patto?», domandai arrampicandomi sugli specchi. «Non prevedeva che non avreste dovuto rivelare a nessuno l'esistenza dei vampiri? Tu con me l'hai fatto. Questo non rende più o meno inutile il patto?».
Jacob non apprezzò la precisazione. Il dolore nei suoi occhi si trasformò in nervosismo. «Sì, ho tradito il patto quando ancora non credevo a queste storie. E sono certo che loro ne sono stati informati». Mi fissò la fronte, acido, senza incrociare il mio sguardo intimorito. «Ma questo non li autorizza a fare ciò che vogliono. Una mano non lava l'altra. Se obiettano a ciò che ho fatto, hanno solo un'alternativa. La stessa alternativa che avremo noi quando romperanno il patto: attaccare. Dichiarare guerra».
Detto così, sembrava inevitabile. Rabbrividii.
«Jake, non deve andare per forza in questo modo».
Rispose a denti stretti. «Invece sì».
Il silenzio che seguì alla sua dichiarazione fu molto rumoroso.
«Mi perdonerai mai, Jacob?». Mi pentii non appena pronunciai quelle parole. Non volevo ascoltare la risposta.
«Non sarai più Bella», disse. «La mia amica non esisterà più. Non ci sarà nessuno da perdonare».
«Sembra proprio un no», sussurrai.
Ci guardammo per un momento che durò un'eternità.
«Questo è un addio, allora, Jake?».
Sbatté le palpebre e l'espressione feroce si tramutò in sorpresa. «Perché? Ci resta ancora qualche anno. Finché c'è tempo, non possiamo essere amici?».
«Anni? No, Jake, non si tratta di anni». Scossi la testa, in una risata senza gioia. «Settimane, piuttosto».
Non mi aspettavo la sua reazione: scattò in piedi e con uno scoppio sonoro la lattina gli esplose in mano. La bibita volò dappertutto e m'inzuppò come se fosse stata sparata da un tubo.
«Jake!», esclamai, ma restai muta quando vidi che il suo corpo tremava forte di rabbia. Mi lanciò un'occhiata furiosa, mentre un ringhio gli nasceva dal petto.
Rimasi immobile, impietrita, troppo presa dal panico per muovermi.
Il tremore del suo corpo aumentò finché Jacob non divenne una sagoma vibrante e indistinta...
Poi strinse i denti e il ringhio si spense. Strizzò gli occhi, in cerca di concentrazione; il tremore diminuì fino a restare soltanto nelle mani.
«Settimane», disse Jacob in tono monocorde.
Non riuscii a reagire: ero ancora impietrita.
Aprì gli occhi. Il suo sguardo era più che furioso.
«Ti trasformerà in una schifosa succhiasangue tra poche settimane!», sibilò a denti stretti.
Troppo sorpresa per offendermi, mi limitai ad annuire in silenzio.
Sotto la pelle ramata, il suo viso era diventato livido.
«Certo, Jake», sussurrai dopo un lungo minuto di silenzio. «Lui ha diciassette anni e ogni giorno che passa io mi avvicino ai diciannove. Perché mai dovrei aspettare, poi? Lui è tutto ciò che voglio. Che altro potrei fare?».
Per me era una domanda retorica.
Le sue parole irruppero come uno schiocco di frusta. «Niente. Nient'altro. Sarebbe meglio che morissi. Preferirei che fossi morta».
Quella frase mi colpì come uno schiaffo. Ma fece molto più male.
Poi, quando il dolore se ne fu andato, fu la mia ira a fiammeggiare.
«Forse sarai accontentato», dissi cupa, strisciando i piedi. «Magari tornando a casa m'investirà un camion».
Afferrai la moto e la spinsi fuori, sotto la pioggia. Lui non reagì quando gli passai davanti. Non appena fui sul viottolo fangoso, montai in sella e accesi il motore. La ruota posteriore sputò una cascata di fango verso il garage. Sperai che lo prendesse in pieno.
M'inzuppai completamente, guidando a tutta velocità sull'asfalto bagnato verso casa Cullen. Il vento quasi mi faceva gelare la pioggia sulla pelle e a metà strada battevo già i denti.
Le moto non erano il trasporto ideale nello Stato di Washington. Alla prima occasione avrei venduto quella stupida ferraglia.
Spinsi la moto fino al cavernoso garage dei Cullen e non fui sorpresa di trovarvi Alice che mi aspettava, appollaiata con grazia sul tettuccio della Porsche, accarezzandone la vernice gialla.
«Non sono riuscita a guidarla neanche una volta». Sospirò.
«Scusa», sputai come in un rantolo.
«A quanto pare hai bisogno di una doccia calda», disse noncurante e balzò a terra con leggerezza.
«Sì».
Contrasse le labbra, osservando attentamente la mia espressione. «Ne vuoi parlare?».
«No».
Fece un cenno d'assenso, ma il suo sguardo tradiva curiosità.
«Ti va di andare a Olympia stasera?».
«No, veramente. Posso tornare a casa?».
Fece una smorfia.
«Non preoccuparti, Alice», dissi. «Se per te è più semplice, rimarrò».
«Grazie», sospirò sollevata.
Quella sera andai a letto presto e mi accoccolai di nuovo sul divano.
Mi ridestai all'improvviso. Nel dormiveglia, capii che non era ancora giorno. Chiusi gli occhi, mi stiracchiai e mi rigirai. Mi bastò un secondo per realizzare che con un movimento simile avrei dovuto cadere per terra. E che ero fin troppo comoda.
Mi rigirai di nuovo, cercando di vedere qualcosa. Era più buio della notte precedente: le nuvole erano troppo spesse, la luna non riusciva a oltrepassarle.
«Scusa», mormorò così dolcemente che la sua voce sembrava uscire dalla notte. «Non volevo svegliarti».
M'irrigidii in attesa di una sfuriata - sua e mia - ma nell'oscurità della stanza tutto era calmo e tranquillo. Nell'aria sentivo quasi la dolcezza del ritrovarsi, una fragranza distinta dal profumo del suo respiro. Il senso di vuoto che provavo quando eravamo distanti aveva perso il retrogusto amaro, un sapore che non avevo mai consciamente notato finché non era sparito.
Non c'era tensione. L'atmosfera era avvolta da un senso di pace, non come la quiete prima della tempesta, ma come una notte chiara, nemmeno sfiorata dall'idea di una tormenta.
E poco contava che avrei dovuto essere arrabbiata con lui. Che avrei dovuto essere arrabbiata con tutti. Mi allungai per raggiungerlo, trovai le sue mani nel buio e mi spinsi accanto a lui. Le sue braccia mi avvolsero, mi cullò sul suo petto. Le mie labbra lo cercarono, a caccia lungo il suo collo, sul mento, finché non trovai la sua bocca.
Edward mi baciò dolcemente, poi sogghignò.
«Ero preparato a una collera che avrebbe fatto invidia ai grizzly, ed è questo ciò che ottengo? Ti dovrei far infuriare più spesso».
«Dammi un minuto per elaborarla», scherzai e gli diedi un altro bacio.
«Tutto il tempo che vuoi», sussurrò contro le mie labbra. Intrecciò le dita nei miei capelli.
Il mio respiro si fece irregolare. «Forse domani mattina».
«Come preferisci».
«Bentornato», dissi mentre le sue labbra fredde premevano sulla mia mascella. «Sono felice di rivederti».
«Questa è davvero una gran bella cosa».
Annuii stringendogli le braccia al collo.
Con la mano seguì la piega del mio gomito, muovendosi lentamente lungo il braccio, fra le costole e la vita, seguendo i miei fianchi e giù sulle gambe, attorno al ginocchio. Si fermò lì e mi strinse piano il polpaccio. All'improvviso mi sollevò la gamba e la posò sul suo fianco.
Mi si fermò il respiro. Di solito non si concedeva gesti come quello. Malgrado le sue mani fredde, sentii un calore improvviso. Le sue labbra si muovevano sull'incavo alla base del collo.
«Non per scatenare prematuramente l'ira», sussurrò, «ma ti dispiacerebbe spiegarmi cosa c'è che non va in questo letto?».
Prima che potessi rispondere, prima che potessi anche solo concentrarmi per dare senso alle sue parole, si girò sul fianco e mi tirò sopra di sé. Mi prese il viso fra le mani, inclinandolo verso l'alto per potermi sfiorare il collo con le labbra. Quasi ansimavo e forse era imbarazzante, ma in quel momento non me ne importava niente.
«Il letto», disse di nuovo. «Secondo me è carino».
«È superfluo», riuscii a dire.
Avvicinò ancora il viso e le mie labbra si modellarono di nuovo sulle sue. Lentamente, si girò fino a poggiarsi su di me. Si teneva con attenzione per non pesarmi addosso, ma sentivo il marmo freddo del suo corpo premere contro il mio. Il mio cuore martellava così forte che era difficile persino udire la sua risata tranquilla.
«Osservazione discutibile», obiettò. «Questo sarebbe difficile da fare su un divano». Fredda come il ghiaccio, la sua lingua segnò leggera i contorni delle mie labbra.
Mi girava la testa, con il respiro troppo corto e veloce.
«Hai cambiato idea?», chiesi senza fiato. Forse aveva ripensato a tutte le sue regole scrupolose. Forse quel letto aveva un significato diverso da ciò che immaginavo. Mentre aspettavo la risposta, il cuore mi batteva così forte da farmi quasi male.
Edward sospirò, si voltò e tornò a distendersi al mio fianco.
«Non essere ridicola Bella», disse con un tono deciso di disapprovazione: di certo aveva capito cosa intendevo. «Stavo soltanto provando a illustrarti i benefici del letto che a quanto pare non hai apprezzato. Non lasciarti prendere la mano».
«Troppo tardi», borbottai. «E il letto mi piace», aggiunsi.
«Bene». Sentii il suo sorriso mentre mi baciava la fronte. «Anche a me».
«Ma resto convinta che sia superfluo», proseguii. «Se non dobbiamo lasciarci prendere la mano, a che serve?».
Sospirò di nuovo. «Per la centesima volta, Bella. È troppo pericoloso».
«Adoro il pericolo», insistetti.
«Lo so». C'era un che di acido nella sua voce; di sicuro aveva visto la moto nel garage.
«Ti dico io cos'è pericoloso», aggiunsi subito, prima che potesse cambiare argomento. «Uno di questi giorni morirò per autocombustione. E tu non potrai prendertela con nessun altro che con te stesso».
Fece per allontanarmi.
«Che fai?», obiettai, aggrappandomi a lui.
«Ti proteggo dalla combustione. Se questo è troppo per te...».
«Posso cavarmela», insistetti.
Mi permise di ritornare fra le sue braccia.
«Mi dispiace di averti dato l'impressione sbagliata», disse. «Non volevo farti star male. Non è stato carino».
«In realtà è stato molto, molto carino».
Fece un respiro profondo. «Non sei stanca? Dovrei lasciarti dormire».
«No, non lo sono. Se mi vuoi dare ancora l'impressione sbagliata, fa' pure».
«Non mi sembra una buona idea. Non sei l'unica che rischia di perdere il controllo».
«Invece sì», mugugnai.
Sogghignò. «Bella, tu non ti rendi conto. E la tua brama di minare il mio autocontrollo non mi aiuta affatto».
«Non credo che mi scuserò per questo».
«Ma io posso scusarmi?».
«Per cosa?».
«Eri arrabbiata con me, ricordi?».
«Ah, per quello».
«Ti chiedo scusa. Ho sbagliato. È più facile vedere le cose dalla giusta prospettiva quando tu sei qui al sicuro». Mi strinse a sé. «Quando provo ad allontanarmi perdo un po' la testa. Non credo che andrò di nuovo così distante. Non ne vale la pena».
Sorrisi. «Non hai trovato neanche un puma?».
«Sì, alla fine sì. Ma non vale tutta quest'ansia. Mi dispiace di aver chiesto ad Alice di prenderti in ostaggio, comunque. È stata una cattiva idea».
«Sì».
«Non lo farò più».
«Okay», dissi tranquilla. Era già perdonato. «Ma i pigiama party hanno i loro vantaggi...». Mi rannicchiai più vicina, affondando le labbra nell'incavo della sua clavicola. «Tu puoi prendermi in ostaggio ogni volta che vuoi».
«Bene», sospirò. «Potrei raccogliere l'invito».
«Dunque tocca a me?».
«Che cosa?», la sua voce era confusa.
«Chiedere scusa».
«Di che cosa ti devi scusare?».
«Non sei arrabbiato con me?», chiesi a bruciapelo.
«No».
Sembrava sincero. Lo sentii accigliarsi.
«Non hai visto Alice quando sei tornato?».
«Sì. Perché?».
«Le toglierai la Porsche?».
«Certo che no. È un regalo».
Avrei voluto vedere la sua espressione. A giudicare dalla voce, sembrava che lo avessi insultato.
«Non vuoi sapere cosa ho fatto?», domandai. La sua apparente mancanza d'interesse mi lasciava perplessa.
Lo sentii scrollare le spalle. «M'interessa sempre ciò che fai. Ma non sei costretta a parlarne, se non ti va».
«Ma sono andata a La Push».
«Lo so».
«E ho saltato la scuola».
«Anch'io».
Feci attenzione al tono della sua voce e seguii i suoi lineamenti con le dita, cercando di intuirne l'umore. «Da dove viene tutta questa tolleranza?», domandai infine.
«Ho deciso che hai ragione tu. Il mio problema riguardava più che altro certi... pregiudizi sui licantropi. Cercherò di essere più ragionevole, voglio fidarmi del tuo buon senso. Se tu dici che non c'è pericolo, ti credo».
«Accidenti».
«E la cosa più importante: non voglio che questo diventi un ostacolo tra noi».
Appoggiai la testa al suo petto e chiusi gli occhi, felicissima.
«Dunque», mormorò con tono indifferente. «Pensi che tornerai presto a La Push?».
Non risposi. La sua domanda mi riportò alla mente le parole di Jacob e all'improvviso sentii un nodo in gola.
Edward fraintese il mio silenzio e la tensione nel mio corpo.
«Solo per potermi organizzare», spiegò in fretta. «Non voglio che ti senta in dovere di affrettarti soltanto perché qui ci sono io ad aspettarti».
«No», dissi con un tono di voce che mi sembrò strano. «Non sto pensando di tornare».
«Ma non devi farlo per me».
«Credo di non essere più la benvenuta», sussurrai.
«Hai investito il gatto di qualcuno?», scherzò. Sapevo che non avrebbe insistito, ma intuivo la curiosità nelle sue parole.
«No». Bofonchiai rapida la mia spiegazione: «Credevo che Jacob avrebbe capito... non pensavo che sarebbe rimasto così sorpreso».
Edward aspettò mentre tacevo, incerta.
«Non si aspettava... che fosse così presto».
«Ah», disse Edward tranquillo.
«Ha detto che preferirebbe vedermi morta». La mia voce si ruppe sull'ultima parola.
Edward rimase immobile per un momento, per non lasciarmi intuire chissà quale reazione.
Poi mi strinse delicato sul suo petto. «Mi dispiace tanto».
«Pensavo che ti avrebbe fatto piacere», sussurrai.
«Piacere per qualcosa che ti ferisce?», mormorò tra i miei capelli. «Non direi, Bella».
Sospirai e mi rilassai, adattandomi alla sua marmorea figura. Ma lui era di nuovo immobile, teso.
«Che c'è?».
«Niente».
«Me lo puoi dire».
Fece una pausa.
«Ti arrabbieresti».
«Voglio saperlo».
«Sarei davvero capace di ucciderlo per averti detto quelle parole. Vorrei farlo».
Risi senza entusiasmo. «Il tuo autocontrollo è decisamente un'ottima cosa».
«Potrei anche perderlo». Si era fatto pensieroso.
«Se senti che stai per abbassare la guardia, conosco un motivo migliore per farlo». Mi allungai verso il suo viso, cercando di baciarlo. Le sue braccia mi tenevano ferma.
«Devo sempre essere io quello responsabile?».
Sorrisi nel buio. «No. Lascia che sia io quella responsabile, per qualche minuto... o per qualche ora».
«Buonanotte, Bella».
«Aspetta. C'è qualcos'altro che volevo chiederti».
«Cosa?».
«Ieri notte ho parlato con Rosalie...».
Il suo corpo s'irrigidì di nuovo. «Sì. Quando sono arrivato ci stava pensando. Ti ha turbata molto, vero?».
La sua voce era ansiosa, probabilmente pensava che volessi parlare delle ragioni che Rosalie mi aveva dato per rimanere umana. Ma io ero interessata a qualcosa di molto più urgente.
«Mi ha parlato un po'... del periodo che la tua famiglia ha trascorso a Denali».
Ci fu una piccola pausa; era stato colto di sorpresa. «Sì?».
«Ha accennato a qualcosa su te... e una comitiva di vampire...».
Aspettai un lungo momento, ma non rispose.
«Non preoccuparti», dissi quando il silenzio si era fatto pesante. «Mi ha detto che non hai... mostrato alcuna preferenza. Ma io mi chiedevo, ecco, se qualcuna di loro l'avesse fatto. Mostrare una preferenza per te, dico».
Di nuovo, restò in silenzio.
«Chi?», chiesi cercando di mostrare un tono disinvolto e per nulla preoccupato. «O era più di una?».
Nessuna risposta. Mi sarebbe piaciuto guardarlo per capire il significato di quel silenzio.
«Alice me lo dirà. Vado subito a chiederglielo».
Le sue braccia si strinsero; non potevo muovermi neanche di un centimetro. «È tardi», disse. La sua voce aveva un tono nuovo. Una specie di nervosismo, forse un po' d'imbarazzo. «Inoltre credo che Alice sia uscita...».
«Cattive notizie. Scommetto che a Denali è successo qualcosa di brutto, vero?». Mi sentii prendere dal panico, il cuore accelerò i battiti mentre immaginavo la rivale bellissima e immortale che non avevo mai saputo di avere.
«Calmati, Bella», disse baciandomi la punta del naso. «Non dire assurdità».
«Io? Allora perché tu non mi dici niente?».
«Perché non c'è niente da dire. Stai decisamente esagerando le proporzioni di questa storia».
«Chi era?», insistetti.
Sospirò. «Tanya manifestò un certo interesse. Le feci sapere, in modo molto cortese e da vero gentiluomo, che non lo ricambiavo. Fine della storia».
Mantenni la voce il più controllata possibile. «Dimmi una cosa. Com'è Tanya?».
«Come tutti noi. Pelle bianca, occhi dorati», rispose troppo in fretta.
«E straordinariamente bella, ovvio».
Lo sentii ridacchiare. «Per gli occhi umani sì, suppongo», disse indifferente. «Sai una cosa, però?».
«Cosa?». Ormai ero petulante.
Avvicinò le labbra al mio orecchio e il suo respiro freddo mi fece il solletico. «Preferisco le brune».
«È bionda. Ti pareva».
«Biondo rossiccio. Proprio non è il mio tipo».
Ci pensai su per un po', provando a concentrarmi mentre le sue labbra si muovevano piano lungo la mia guancia, giù per il collo, e di nuovo su. Lo fece tre volte, prima che riaprissi bocca.
«Immagino che sia tutto a posto, dunque», conclusi.
Sussurrò qualcosa sulla mia pelle. «Sei proprio adorabile quando sei gelosa. Non pensavo fosse così piacevole».
Gli lanciai un'occhiataccia nel buio.
«È tardi», ribadì mormorando, quasi canticchiando, con voce più morbida della seta. «Dormi, mia Bella. Fai tanti bei sogni. Tu sei l'unica ad avermi mai preso il cuore. Sarà per sempre tuo. Dormi, mio unico amore».
Iniziò a canticchiare la mia ninna nanna e capii che di lì a poco avrei ripreso sonno: chiusi gli occhi e mi accoccolai stretta al suo petto.

9
Bersaglio

Alice mi riportò a casa il mattino dopo, come richiesto dalla messinscena del pigiama party. Non mancava molto al ritorno ufficiale di Edward dalla sua "escursione". Tutte quelle finzioni cominciavano a pesarmi. Questo aspetto della vita umana non mi sarebbe certo mancato.
Charlie sbirciò dalla finestra di fronte quando mi udì sbattere la portiera. Salutò Alice e venne ad aprirmi.
«Ti sei divertita?», chiese.
«Sì, è stato bellissimo... una festa fra ragazze».
Portai dentro la mia roba, mollai tutto ai piedi delle scale e mi diressi in cucina in cerca di qualcosa da mangiare.
«C'è un messaggio per te», gridò Charlie.
Sul ripiano della cucina, la lavagnetta dei messaggi era ben poggiata contro una pentola.
«Ha chiamato Jacob», aveva scritto Charlie.

Ha detto che non voleva, e che si scusava con te. Vuole che lo richiami. Sii carina, dagli una possibilità. Sembrava turbato.

Feci una smorfia. Da quando Charlie commentava i miei messaggi?
Jacob poteva restare turbato quanto gli pareva. Non volevo parlargli. Non mi risultava che il fronte nemico fosse di manica larga con le telefonate. Se Jacob mi voleva morta, meglio che si abituasse al silenzio.
Il mio appetito era sparito. Feci dietrofront e tornai a riordinare le mie cose.
«Non chiami Jacob?», chiese Charlie. Mi guardava all'opera appoggiato al muro del salotto.
«No». Salii le scale.
«Non è molto simpatico da parte tua, Bella», disse. «Il perdono è divino».
«Fatti gli affari tuoi», farfugliai a mezza bocca, troppo piano perché mi sentisse.
Il bucato era ancora da fare: misi a posto il dentifricio, buttai i vestiti sporchi nella cesta e poi andai a disfare il letto di Charlie. Lasciai le sue lenzuola impilate in cima alle scale e andai a prendere le mie.
Mi fermai accanto al letto, piegando la testa di lato.
Dov'era il cuscino? Passai al setaccio la camera. Non c'era. La stanza sembrava stranamente in ordine. Non avevo lasciato la felpa grigia appesa ai piedi del letto? E avrei giurato che c'era un paio di pantaloni sporchi dietro la sedia a dondolo, oltre alla camicetta rossa penzoloni su un bracciolo. L'avevo provata due giorni prima ma avevo deciso che era troppo elegante per la scuola...
Diedi un'altra occhiata in giro. La cesta dei panni non era vuota, ma neanche straripante come pensavo.
Charlie si era messo a fare il bucato? Impossibile.
«Papà, hai fatto tu la lavatrice?», gridai dalla stanza.
«Ehm, no», rispose, vagamente colpevole. «Dovevo?».
«No, ci penso io. Hai per caso cercato qualcosa in camera mia?».
«No. Perché?».
«Non trovo più... una camicia».
«Non sono entrato nella tua stanza».
Poi mi ricordai che Alice era venuta a prendere il mio pigiama. Non avevo notato che avesse preso anche il cuscino, però... forse perché avevo rinunciato al letto. Sembrava avesse dato una pulita, passando. Arrossii pensando a quant'ero disordinata.
Ma la camicia rossa non era sporca: andai a salvarla dalla cesta.
Mi aspettavo di trovarla in cima, ma non c'era. Scavai nel mucchio e non la trovai. Forse stavo diventando paranoica ma era come se mancasse qualcosa, forse più cose. C'era meno di mezzo carico di biancheria.
Raccolsi le lenzuola e mi diressi alla lavatrice agguantando anche quelle di Charlie. Era vuota. Guardai anche nell'asciugatrice, dove mi aspettavo di trovare un carico di bucato già lavato, un favore di Alice. Niente. Corrugai la fronte, confusa.
«Hai trovato quel che cercavi?», gridò Charlie.
«Non ancora».
Tornai di sopra per cercare sotto il letto. Niente, tranne i batuffoli di polvere. Presi a rovistare fra i cassetti. Forse non mi ricordavo di averla messa via.
M'interruppi quando suonò il campanello. Di sicuro era Edward.
«La porta», mi informò Charlie dal divano quando gli passai davanti.
«Non fare sforzi, papà».
Aprii la porta con un gran sorriso.
Gli occhi dorati di Edward erano sgranati, le narici aperte, le labbra scoprivano i denti.
«Edward?». La mia voce uscì stridula e spaventata quando lessi la sua espressione. «Che...».
Mi mise un dito sulle labbra. «Aspetta due secondi», sussurrò. «Non ti muovere».
Rimasi impietrita sulla porta e lui... scomparve. Così veloce che Charlie non lo vide neanche passare.
Prima che potessi contare fino a due, era già tornato. Mi cinse i fianchi con un braccio e mi trascinò rapidamente verso la cucina. I suoi occhi sfrecciarono nella stanza e mi strinse a sé come per proteggermi da qualcosa. Lanciai uno sguardo verso Charlie, che dal divano faceva del suo meglio per ignorarci.
«Qualcuno è stato qui», mi sussurrò all'orecchio dopo avermi spinta nell'angolo opposto della cucina. La voce era tesa; difficile sentirla sotto i colpi della lavatrice.
«Giuro che nessun licantropo...», iniziai.
«Non uno di loro», m'interruppe subito, scuotendo la testa. «Uno di noi».
A giudicare dal tono, non intendeva certo uno della sua famiglia.
Mi sentii impallidire. «Victoria?», mi si strozzò la voce.
«È una scia che non riconosco».
«Uno dei Volturi», suggerii.
«Forse».
«Quando?».
«Non da tanto: questa mattina presto, mentre Charlie dormiva. Per questo credo siano stati loro. Chiunque fosse, non l'ha toccato, quindi lo scopo doveva essere un altro».
«Cercavano me».
Non rispose. Il suo corpo era immobile, una statua.
«Di cosa confabulate voi due?», chiese Charlie sospettoso, spuntando da dietro la porta con una ciotola vuota di popcorn in mano.
Mi sentii svenire. Un vampiro era entrato in casa a cercarmi mentre Charlie dormiva. Mi lasciai prendere dal panico, che mi chiuse la gola. Non risposi, restai a fissarlo terrorizzata.
L'espressione di Charlie cambiò. Improvvisamente, eccolo sorridere. «State litigando... be', scusate se vi ho interrotto».
Senza smettere di sorridere, poggiò la ciotola nel lavello e uscì dalla stanza.
«Andiamo», disse Edward con voce bassa e dura.
«Ma... Charlie!». La paura mi stringeva il petto. Non riuscivo a respirare.
Ci pensò per un secondo, poi afferrò il telefono.
«Emmett», brontolò nella cornetta. Parlò così veloce che non capii le parole. Non impiegò più di mezzo minuto. Fece per spingermi verso la porta.
«Emmett e Jasper stanno arrivando», sussurrò avvertendo la mia resistenza. «Setacceranno il bosco. Charlie è al sicuro».
Mi lasciai trascinare, troppo in ansia per pensare con lucidità. Charlie incrociò il mio sguardo preoccupato con un sorriso compiaciuto che si tramutò subito in confusione. Edward mi portò via prima che Charlie potesse dire una parola.
«Dove stiamo andando?». Non avevo smesso di sussurrare, anche se eravamo in macchina.
«A parlare con Alice», rispose a volume normale ma in tono cupo.
«Credi che abbia visto qualcosa?».
Fissò la strada torvo. «Forse».
Ci stavano aspettando, tutti all'erta dopo la chiamata di Edward. Sembrava di stare in un museo: erano immobili come statue, in varie pose preoccupate.
«Cosa è successo?», domandò Edward non appena oltrepassammo la soglia. Fui scioccata dallo sguardo cattivo che rivolse ad Alice, con i pugni stretti per la rabbia.
Alice teneva le braccia incrociate, strette al petto. Solo le sue labbra si mossero. «Non ne ho idea. Non ho visto niente».
«Com'è possibile?», sibilò Edward.
Cercai di calmarlo, pacata. Non gradivo che si rivolgesse ad Alice in quel modo.
Carlisle lo interruppe, suadente. «Non è una scienza esatta, Edward».
«Era nella sua stanza, Alice. Avrebbe potuto essere ancora lì... ad aspettarla».
«In quel caso l'avrei visto».
Edward alzò le mani, esasperato. «Davvero? Sei sicura?».
Alice rispose fredda. «Mi hai già costretta a tenere d'occhio le decisioni dei Volturi, il ritorno di Victoria, qualsiasi spostamento di Bella. Vogliamo aggiungere qualcos'altro? Devo controllare anche Charlie, la stanza di Bella, oppure la casa e tutta la via? Edward, se esagero, le cose inizieranno a sfuggirmi di mano».
«Sembra che sia già così», sbottò Edward.
«Non è mai stata in pericolo. Non c'era niente da vedere».
«Se tieni d'occhio l'Italia, perché non li hai visti mandare...».
«Secondo me non sono loro», insistette Alice. «Me ne sarei accorta».
«Chi altro risparmierebbe Charlie?».
Rabbrividii.
«Non lo so», disse Alice.
«Molto utile».
«Basta, Edward», sussurrai.
Si girò verso di me, il viso ancora livido e i denti serrati. Mi fissò per un istante, poi finalmente respirò. Gli occhi si spalancarono, la mascella si rilassò.
«Hai ragione, Bella. Mi dispiace». Guardò Alice. «Scusa, Alice. Non avrei dovuto prendermela con te. Sono imperdonabile».
«Ti capisco», lo rassicurò Alice. «Neanche a me fa piacere questa storia».
Edward respirò a fondo. «Okay, vediamola in maniera razionale. Quali sono le possibilità?».
Tutti sembrarono sciogliersi all'unisono. Alice si appoggiò allo schienale, dietro il divano. Carlisle camminò lento verso di lei, lo sguardo lontano. Esme si sedette di fronte ad Alice, a gambe accavallate. Solo Rosalie restò immobile, di spalle, gli occhi fissi sulla vetrata.
Edward mi spinse verso il divano e mi sedetti vicino a Esme, che mi fece posto poggiandomi un braccio sulla spalla. Edward strinse la mia mano fra le sue.
«Victoria?», chiese Carlisle.
Edward scosse la testa. «No. Non ho riconosciuto la scia. Secondo me era uno dei Volturi, qualcuno che non conosco...».
Alice fece segno di no. «Aro non ha ancora chiesto a nessuno di cercarla. Quando sarà il momento, lo vedrò. Lo sto aspettando».
Edward alzò la testa di scatto. «Tu stai aspettando un ordine ufficiale».
«Pensi che qualcuno stia agendo in solitudine? E perché mai?».
«Potrebbe essere un'idea di Caius», suggerì Edward, il volto di nuovo teso.
«O di Jane...», disse Alice. «Entrambi hanno la possibilità di mandare qui uno sconosciuto...».
Edward scrollò le spalle. «E una ragione per farlo».
«Non ha senso comunque», disse Esme. «Chiunque fosse l'intruso, Alice l'avrebbe visto. Lui - o lei - non aveva intenzione di fare del male a Bella. Neanche a Charlie, per quanto abbiamo visto».
«Andrà tutto bene, Bella», mormorò Esme, lisciandomi i capelli.
«Ma cosa volevano, allora?», rimuginò Carlisle.
«Controllare se sono ancora umana», suggerii.
«È possibile», disse Carlisle.
Rosalie sospirò, abbastanza forte da sentirla. Non era più immobile, si era voltata verso la cucina, in attesa. Edward, d'altra parte, sembrava scoraggiato.
Emmett spuntò dalla porta della cucina, seguito all'istante da Jasper.
«Se ne sono andati da parecchio, da ore», annunciò Emmett, deluso. «Le tracce portavano a est, poi a sud, e sono scomparse su una strada secondaria. C'era una macchina ad aspettare».
«Che sfortuna...», mugugnò Edward. «Se fosse andato a ovest... be', quei cani ci avrebbero aiutati volentieri».
Trasalii ed Esme mi accarezzò la spalla.
Jasper guardò Carlisle. «Nessuno di noi l'ha riconosciuto. Però, guardate». Aveva raccolto qualcosa di verde e spiegazzato. Carlisle lo prese e se lo portò al viso. Mentre cambiava mano, notai che era un ramo di felce spezzato. «Forse tu riconosci il profumo».
«No», disse Carlisle. «Non è familiare. È qualcuno che non conosco».
«Forse stiamo osservando le cose dalla parte sbagliata. Forse è soltanto una coincidenza...», cominciò Esme, ma si fermò di fronte alle espressioni incredule degli altri. «Non dico che sia una coincidenza che un estraneo abbia deciso per puro caso di far visita alla casa di Bella. Però potrebbe trattarsi di un semplice curioso. In fondo, è circondata dal nostro odore. Forse si è chiesto perché viviamo così a contatto con lei».
«Ma allora perché non è venuto direttamente qui, se era solo curioso?», domandò Emmett.
«Tu l'avresti fatto», disse Esme e sorrise premurosa. «Ma non tutti siamo così diretti. La nostra famiglia è numerosa, lui o lei potrebbe essersi spaventato. Eppure ha risparmiato Charlie. Non può trattarsi di un nemico».
Un semplice curioso. Come all'inizio erano stati anche James e Victoria? Il pensiero di Victoria mi faceva tremare ma, a quanto pareva, tutti erano convinti che non si trattasse di lei. Non questa volta. Lei seguiva il suo piano ossessivo. Stavolta era qualcun altro, un estraneo.
Pian piano mi stavo rendendo conto che i vampiri partecipavano alla vita del nostro mondo molto più di quanto pensassi. Quante volte un uomo normale s'imbatteva in loro senza rendersene conto? Quante morti, finite nel dimenticatoio come crimini o incidenti, erano in realtà dovute alla loro sete? Quanto sarebbe stato affollato quel nuovo mondo, quando finalmente vi sarei entrata anch'io?
Pensare a quel futuro nascosto mi fece sentire un brivido lungo la schiena.
Espressioni diverse accompagnarono le riflessioni dei Cullen. Edward non era convinto della sua teoria, mentre Carlisle desiderava tantissimo che avesse ragione.
Alice increspò le labbra. «Non credo sia andata così. Il tempismo è stato troppo perfetto... Il visitatore ha badato a non entrare in contatto con nessuno. Come se sapesse che me ne sarei accorta...».
«Poteva avere anche altre ragioni per non farsi notare», le ricordò Esme.
«Ha davvero così tanta importanza chi fosse?», domandai. «Il fatto che qualcuno mi abbia cercata... non è sufficiente a metterci fretta? Non dovremmo aspettare il diploma».
«No, Bella», replicò subito Edward. «Non è così grave. Se tu fossi davvero in pericolo, lo sapremmo».
«Pensa a Charlie», mi ricordò Carlisle. «Pensa quanto soffrirebbe se tu sparissi».
«Sto pensando proprio a Charlie! È per lui che sono preoccupata! Che sarebbe successo se il mio simpatico visitatore fosse stato assetato, ieri notte? Finché sarò vicina a Charlie, anche lui sarà un obiettivo. Se gli succedesse qualcosa sarebbe tutta colpa mia!».
«È difficile che accada, Bella», disse Esme, accarezzandomi di nuovo i capelli. «Non succederà niente a Charlie. Dobbiamo solo stare più attenti».
«Più attenti?», ripetei incredula.
«Andrà tutto bene, Bella», promise Alice. Edward mi strinse la mano.
E mentre osservavo i loro volti bellissimi uno alla volta, capii che, malgrado i miei sforzi, non sarei mai riuscita a convincerli.

Il ritorno a casa fu silenzioso. Mi sentivo frustrata. Contro ogni logica, ero ancora umana.
«Non rimarrai sola un secondo», promise Edward mentre mi riaccompagnava da Charlie. «Ci sarà sempre qualcuno con te. Emmett, Alice, Jasper...».
«È ridicolo. Si annoieranno così tanto che alla fine mi ammazzeranno loro, tanto per avere qualcosa da fare».
Edward mi guardò cupo. «Molto divertente, Bella».
Charlie era di buonumore quando arrivammo. Notò la tensione fra me ed Edward e la fraintese. Mi guardò compiaciuto mentre gli preparavo la cena. Edward si allontanò, probabilmente per una breve perlustrazione, ma Charlie attese il suo ritorno per riferirmi alcuni messaggi.
«Jacob ha richiamato», disse non appena Edward fu in cucina. Risposi con uno sguardo vuoto come il piatto di fronte a lui.
«Mi riguarda?».
Charlie corrugò la fronte. «Non essere meschina, Bella. Sembrava molto giù di morale».
«È Jacob che ti paga per fargli da portavoce, papà, o ti sei offerto volontario?».
Charlie brontolò qualcosa d'incomprensibile, finché il cibo non saziò il suo lamento.
Non se ne rendeva conto, ma aveva colto nel segno.
La mia vita ormai era incerta come una partita a dadi. E se fosse uscito il numero perdente? Se mi fosse davvero successo qualcosa? Abbandonare Jacob al suo senso di colpa mi sembrava peggio che meschino.
Ma non volevo parlargli con Charlie di mezzo, attenta a misurare ogni parola per non lasciarmi scappare niente di strano. A pensarci, provavo invidia per la relazione fra Jacob e Billy. Come dev'essere semplice quando non nascondi dei segreti alla persona con cui vivi.
Avrei chiamato la mattina dopo. Tutto sommato, era improbabile che morissi proprio quella sera e a lui non avrebbe fatto male sentirsi in colpa per altre dodici ore. Anzi, ben gli stava.
Quando Edward se ne andò ufficialmente, mi chiesi chi sarebbe rimasto sotto l'acquazzone a tenere d'occhio me e Charlie. Mi sentivo male per Alice, o chiunque fosse, ma anche al sicuro. Tutto sommato, meglio sapere che non ero sola. Ed Edward tornò a tempo di record.
Cantò per farmi addormentare e, consapevole della sua presenza persino nel sonno profondo, dormii senza incubi.

La mattina dopo, Charlie uscì a pesca con il vicesceriffo Mark prima del mio risveglio. Decisi di sfruttare l'assenza di sorveglianza per essere magnanima.
«La condanna di Jacob sta per terminare», avvisai Edward dopo aver fatto colazione.
«Sapevo che l'avresti perdonato», disse con un sorriso sereno. «Non sei mai stata brava a tenere il broncio».
Risposi con uno sguardo scocciato, ma ero contenta. Sembrava che Edward si fosse lasciato alle spalle la fissa contro i licantropi.
Non avevo guardato l'ora prima di fare il numero. Era un po' presto per chiamare. Temevo di svegliare Billy e Jake, invece qualcuno rispose dopo il secondo squillo; doveva essere attaccato al telefono.
«Pronto?», disse una voce sbiadita.
«Jacob?».
«Bella!», esclamò. «Oh Bella, mi dispiace tanto!». Si mangiava le parole, tanto uscivano veloci. «Giuro che non volevo. Sono stato proprio uno stupido. Ero arrabbiato... ma non è una scusa valida. È stata la cosa più stupida che abbia detto in vita mia e mi dispiace tanto. Non essere arrabbiata con me, ti prego! Per favore. Mi offro come tuo schiavo per la vita, a tua eterna disposizione. Ti chiedo solo di perdonarmi».
«Non sono arrabbiata. Sei perdonato».
«Grazie. Non posso credere di essere stato così idiota».
«Non preoccuparti, ci sono abituata».
Rise, sollevato ed entusiasta. «Vieni a trovarmi», supplicò. «Voglio farmi perdonare come si deve».
Aggrottai le sopracciglia. «E come?».
«Come vuoi tu. Magari ci tuffiamo da uno scoglio», suggerì ridendo.
«Ah, proprio una bella idea».
«Sarai al sicuro, ci penserò io», promise. «Qualunque cosa tu voglia fare».
Lanciai un'occhiata a Edward. Il suo viso era molto calmo, ma sapevo che non era il momento giusto. «Non ora».
«Lui non è entusiasta di me, vero?». La voce di Jacob, per una volta, era più imbarazzata che amara.
«Non è questo il problema. C'è... ecco, un altro problema leggermente più preoccupante di un giovane licantropo impertinente...», cercai di scherzare, ma non riuscii a ingannarlo.
«Cosa c'è che non va?».
«Ehm...». Non ero sicura di potergliene parlare.
Edward tese la mano verso il telefono. Lo guardai attentamente. Sembrava calmo a sufficienza.
«Bella?», chiese Jacob.
Edward sospirò e avvicinò di più la mano.
«Ti dispiace se ti passo Edward?», chiesi apprensiva. «Vorrebbe parlarti».
Ci fu una lunga pausa.
«Okay», acconsentì infine Jacob. «Magari è interessante».
Passai il telefono a Edward; sperai che potesse leggere l'avvertimento nei miei occhi.
«Pronto, Jacob», disse Edward, educatissimo.
Restò in silenzio. Imbarazzata, cercai di indovinare la risposta di Jacob.
«Qualcuno è stato qui. Non riconosco l'odore», spiegò Edward. «Il tuo branco ha notato qualcosa di strano?».
Un'altra pausa. Edward annuì, impassibile.
«Questo è il punto, Jacob. Non perderò di vista Bella finché questa storia non sarà risolta. Niente di personale...».
Jacob lo interruppe; riuscivo a sentire il brusio della sua voce dalla cornetta. Qualunque cosa stesse dicendo, il tono era più acceso di prima. Provai senza successo a decifrare le parole.
«Forse hai ragione», disse Edward, ma Jacob non lo lasciò parlare. Se non altro, nessuno dei due sembrava arrabbiato.
«Questo è un suggerimento interessante. Anche noi siamo disponibili a rinegoziare. Se Sam è d'accordo».
La voce di Jacob ora era più tranquilla. Iniziai a mangiarmi le unghie cercando di leggere l'espressione di Edward.
«Grazie», rispose.
Poi Jacob disse qualcosa che riempì di sorpresa l'espressione di Edward.
«Avevo pensato di andare da solo, a dire il vero», disse in risposta alla domanda inattesa. «E di lasciarla con gli altri».
La voce di Jacob si fece più alta, sembrava che cercasse di essere più convincente.
«Proverò a pensarci in modo obiettivo», promise Edward. «Il più obiettivo possibile».
La pausa successiva fu più breve.
«Niente male come idea. Quando? No, va bene. Mi piacerebbe seguirne le tracce personalmente, comunque. Dieci minuti... certo», disse Edward. E mi passò il telefono. «Bella?».
Lo afferrai lentamente, confusa.
«Di cosa avete discusso?», domandai a Jacob, irritata. Sapevo di essere infantile, ma mi sentivo esclusa.
«Un armistizio, credo. Ehi, fammi un favore», suggerì Jacob. «Prova a convincere il tuo succhiasangue che il posto più sicuro per te, specialmente quando lui non c'è, è la riserva. Siamo più che capaci di tenere tutto sotto controllo».
«È questo ciò che hai cercato di dirgli?».
«Esatto. È l'idea più sensata. Anche Charlie sarebbe al sicuro se venisse qui. Il più al sicuro possibile».
«Billy si può occupare di lui», annuii. Odiavo l'idea di trascinare Charlie nel mirino che fino a quel momento era stato solo su di me. «Che altro?».
«Abbiamo rinegoziato alcuni confini, in modo da prendere chiunque si avvicini troppo a Forks. Non sono sicuro che Sam sarà d'accordo, ma finché non arriva terrò d'occhio io la situazione».
«Che intendi con "terrò d'occhio io la situazione"?».
«Voglio dire che se avvisti un lupo nei paraggi di casa tua, non sparargli».
«Certo che no. Però cerca di non fare niente di... rischioso».
«Ma che stupidaggine. So badare a me stesso».
Sospirai.
«Ho provato anche a convincerlo a farti venire qui. Ha dei pregiudizi, perciò non lasciarti abbindolare da certe cazzate, okay? Sa quanto me che tu qui sei al sicuro».
«Me ne ricorderò».
«A tra poco», disse Jacob.
«Stai venendo qui?».
«Sì. Sto venendo a sentire l'odore del visitatore, così potremo seguirlo se tornerà».
«Jake, non mi piace l'idea che tu ti metta a inseguire...».
«E dai, Bella!», m'interruppe. Rise e riattaccò.